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Dal diario di una piccola comunista
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E-book449 pagine6 ore

Dal diario di una piccola comunista

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Info su questo ebook

L'anno è il 1986, il luogo è la Repubblica Socialista Cecoslovacca, in

una piccola città ai confini con l'Ungheria. L'undicenne Alzbeta ci

racconta nel suo diario la propria fede nel Futuro Comunista: essere una

Pioniera non è solo un obbligo scolastico, è una missione! Significa

istruirsi, fare buone azioni, dire solo la verità… anche se non sempre

il mondo accoglie bene questo sincero zelo, e non tutto intorno ad

Alzbeta è come sembra. Compresa la sua stessa famiglia.

Tra ricordi dai tratti autobiografici e affresco storico, "Dal diario di

una piccola comunista" ci accoglie in un mondo ormai scomparso, che

nelle pagine è vivo, colorato ed emozionante, grazie alla forza di una

voce bambina.
LinguaItaliano
Data di uscita23 dic 2020
ISBN9791220310833
Dal diario di una piccola comunista

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    Anteprima del libro

    Dal diario di una piccola comunista - Michaela Sebokova Vannini

    ceca.

    Per il lettore

    Valore della corona cecoslovacca

    Per un miglior orientamento del lettore, indichiamo il cambio della valuta nel 1986, anno in cui inizia il racconto: una corona cecoslovacca valeva approssimativamente 250 lire italiane, quando 1000 lire valevano all’incirca 70 centesimi di un dollaro americano.

    Il cambio rimase pressoché immutato fino al 1988, mentre calò drasticamente nell’anno della Rivoluzione di Velluto (che segnò il declino del regime comunista): nel 1989 la corona si cambiava per sole 100 lire italiane. Scese successivamente fino a40 lire nel 1992 e a 50 lire nel 1993, quando la Cecoslovacchia si divise in Repubblica Ceca e Slovacchia e la corona cecoslovacca cessò di esistere.

    Le note nel testo

    Tutte le note sono state inserite dall’Autrice e le traduzioni si riferiscono al testo originale in lingua slovacca, se non è indicato diversamente. Tutte le traduzioni sono dell’Autrice.

    Introduzione

    Nel luglio del 1986 compivo undici anni. Per l’occasione, per la prima volta mamma mi aveva permesso di scegliere il mio regalo, una cosa a mio piacimento.

    Senza esitare mi diressi in cartoleria.

    Ci andai dapprima con lei, e dopo da sola, ripetutamente, perché non riuscivo a decidermi. Scegliere tra pennelli, colori a tempera, acquerelli e penne era un’impresa eroica e da non sottovalutare. Le commesse mi guardavano con compassione. La scolaretta tutta paffuta e seria, con gli occhialini che scivolavano di continuo dal naso a patata, la fronte corrugata per la concentrazione. Passai in cartoleria quattro mattine delle mie vacanze estive, per poi arrivare trionfante a casa e presentare a mamma la mia scelta: un set di inchiostri colorati.

    Mamma tornò con me al negozio e acquistò gli inchiostri. A casa li imballò in carta da regalo riciclata e me li diede nel giorno del mio compleanno, il diciannove luglio.

    Il giorno seguente, con tutta l’attenzione dovuta, avevo riempito la mia penna stilografica dismessa con inchiostro rosso. Tirai fuori un vecchio quaderno mai usato e cominciai a ragionare sulle prime parole degne di un diario.

    Non avevo mai scritto un diario e la decisione da prendere si rivelò di nuovo molto dura. Talmente dura che trascorsero quasi le vacanze intere prima che mi azzardassi a posare la punta della penna su quella carta immacolata e a tracciare i primi simboli. Scrissi: Diario di una Pioniera². L’inchiostro rosso veniva inghiottito dalla carta morbida del quaderno, e asciugando diventava di un colore scuro, serio. Osservai che la scritta era storta, perciò strappai la prima pagina. Essendo all’improvviso presa da una furia di raccontare, tralasciai i preamboli e cominciai a scrivere dalla seconda pagina, riempiendo velocemente la carta con la mia scrittura minuta e precisa.

    Tenni il diario per quasi tutto l’anno scolastico. Poi, presa da altre vicende, venne abbandonato e dimenticato.

    L’ho trovato solo qualche giorno fa, nascosto tra le pile di libri da sistemare nella libreria della nuova casa, a distanza di mille chilometri e vent’anni da dove il diario era nato.

    Ho riconosciuto all’istante il quaderno dai bordi consunti. Ho deciso di fare una pausa, di sedermi sul divano ancora coperto dal telo protettivo e di sfogliare quelle pagine scritte con tanta dedizione. Le note divengono via via più sobrie e infine si mutano in frasi quasi scandite, saltando a volte anche settimane intere. Le ultime pagine sono vuote, la carta è ondulata, sembra aver subito un trattamento in lavatrice.

    Ripensandoci, ancora oggi vengo travolta da un’ondata di emozioni, di tenerezza e di amore verso le persone che allora vivevano accanto a me, intorno a me. Le brevi frasi nascondono ricordi che pensavo di aver dimenticato ormai da tempo.

    Mi riprometto di riprendere in mano il diario non appena finito il trasloco, e di rendere viva ancora per una volta quella piccola Comunista – Pioniera – che sono stata, di rievocare i sapori, gli odori e le vicende della mia adolescenza.

    Per me e per voi.

    _____________________

    ² I pionieri erano i membri dell’organizzazione giovanile cecoslovacca, la PO SZM, Pionierska organizácia socialistického zväzu mládeže, Organizzazione dei Pionieri dell’Unione Socialista della Gioventù, legata al Partito Comunista Cecoslovacco. Sebbene l’organizzazione dichiarasse di essere volontaria, ci si aspettava che ogni bambino si unisse all’età di sei anni. Da parte dello stato la partecipazione era vista come un dovere e quindi era inclusa nei programmi scolastici. La parola slovacca pionier (in ceco pionýr) è, come anche la parola scout, presa in prestito dall’inglese ed entrambe sono collegate all’idealizzazione del selvaggio West. Le attività pionieristiche, i motti e le forme furono prese dal movimento scout, da quello del Sokol, e in elaborazione pedagogica marxista-leninista dal Komsomol dell'URSS e dalla sua Organizzazione dei Pionieri di V. I. Lenin, con la quale la PO SZM era in gemellaggio.

    Agosto 1986

    Repubblica Socialista Cecoslovacca,

    ai confini con l’Ungheria

    La mia famiglia

    Il lavoro nobilita

    Io e mia sorella Elena facevamo parte della generazione nata nella ČSSR³ negli anni Settanta e Ottanta, chiamata Husákove deti, i figli di Husák⁴. Il nostro Compagno Presidente aveva molto acuore i bambini e voleva che ne nascessero tanti. Il Partito invocava il dovere civico delle famiglie di procreare, perché il Paese potesse rinforzarsi con le nuove braccia, prosperare e avvicinarsi sempre di più al radioso futuro sotto la stella comunista. I bambini, cioèi futuri soldati, dovevano crescere sani, felici e ben consapevoli di essere fortunati di poter vivere in un Paese socialista. Non doveva mancare nulla per raggiungere questo scopo. Come da volontà del Compagno Presidente, tutto era egregiamente organizzato. Dal permesso per la maternità retribuito fino a tre anni di età del bambino, ad asili nido, scuole e università completamente gratuite; dalle visite pediatriche e odontoiatriche annuali organizzate tramite il sistema scolastico, alle vacanze estive a buon prezzo per tutta la famiglia in una delle strutture statali. Infine, ma certo non ultimo, c’era l’onnipresente Organizzazione dei Pionieri, la PO SZM, che si occupava di impegnare il tempo libero dei bambini e di indottrinarli a dovere.

    Anche Elena e io vivevamo in modo spensierato e felice, e crescevamo sane e orgogliose della nostra Patria, come ci si aspettava da noi. Come d’abitudine, i genitori ci responsabilizzavano per le nostre azioni. Ma ci davano anche tanta fiducia. Appena cominciata la prima elementare, ricevemmo la nostra copia della chiave di casa, appesa a un nastrino. La chiave si metteva al collo e non si levava per nessun motivo. Il mio nastrino era bianco e quello di Elena rosa. Eravamo abituate a portarli sulla pelle nuda, sotto i vestiti.

    La casa della mia infanzia socialista era un appartamento in un condominio di sette piani, vicino al centro della città. La posizione era comoda rispetto alla stazione e con pochi minuti a piedi si arrivava alla Piazza Centrale. L’appartamento era in un pianterreno rialzato. Abitare al pianterreno aveva il vantaggio di non doversi preoccupare se l’ascensore si guastava, ma ci toglieva la possibilità di avere un balcone, come l’avevano gli altri ventuno appartamenti. Cosa di cui eravamo molto invidiosi. Nostra zia Katka⁵ diceva che non avrebbe mai avuto il coraggio di abitare al piano terra, tanto accessibile ai ladri. Lo trovavo veramente ridicolo.

    La nostra famiglia viveva come tante altre famiglie intorno. Il nostro rapporto con mamma era lineare e, fin dove la nostra educazione lo permetteva, anche molto aperto.

    Papà era tutt’altra storia. Il lavoro più faticoso lo svolge sempre colui che si lamenta di più. E il nostro papà in questa materia era un campione davvero insuperabile. Papà era un cameriere e i camerieri non si possono nascondere dietro una scrivania come gli impiegati. Il cameriere deve apparecchiare, prendere le ordinazioni, servire i piatti e le bibite, e poi sparecchiare, e correre quando i clienti lo chiamano, non sta fermo un minuto. Giustificavamo il suo comportamento scorbutico con il fatto che lui mica andava al lavoro, lui andava a lavorare per davvero. Questa distinzione era tipica dell’epoca socialista. Andare al lavoro voleva dire che uno andava a trascorrere il suo tempo in un determinato luogo chiamato casualmente lavoro senza stressarsi più di tanto. Invece, andare a lavorare era riservato a quei poveracci che sul posto di lavoro dovevano proprio faticare e non solo aspettare il fine turno.

    Papà soffriva sempre di mal di piedi ed era altamente irresponsabile da parte nostra interrompere – per un qualsiasi nonnulla – il suo ben meritato riposo davanti alla tivù, dopo otto ore a fare il cameriere. In questo 1986 i suoi brontolii rivolti a noi erano cresciuti a dismisura. La sua irascibilità era attribuibile soprattutto al fatto che da diversi mesi aspettava una promozione. Si augurava di poter diventare capoturno, e a quel punto non avrebbe dovuto più sfacchinare. Sarebbe diventato quasi come quegli impiegati che disprezzava tanto volentieri, uno che si poteva nascondere dietro la sua scrivania. Intanto, però, era sempre di malumore, perché la promozione tardava ad arrivare.

    Naturalmente anche mamma lavorava. Faceva l’infermiera e nemmeno lei poteva riposarsi al lavoro. C’erano sempre dei bambini malati da curare negli ambulatori del policlinico dove lavorava, le vaccinazioni e i prelievi di sangue da fare, la febbre e la pressione da misurare, i pianti da zittire e i genitori preoccupati da calmare. Anche mamma arrivava a casa spossata, ma non per questo si parcheggiava davanti alla tivù. Faceva ciò che facevano tutte le mamme, quando rientravano dal lavoro: con un sottile sorriso stanco sulle labbra si metteva a cucinare o a pulire o a stirare.

    Ora che eravamo già grandi le davamo volentieri una mano anche noi, in modo che le rimanesse del tempo libero, magari per leggere un libro. La mamma era una grande lettrice.

    Elena era incaricata dei lavori artistici. Addobbava la casa per le festività, curava i pochi fiori che avevamo nell’appartamento e si sbizzarriva nella decorazione dei dolci e nella composizione dei piatti. Senza considerare i concerti che faceva con il pianoforte, perché quello non era ritenuto un lavoro. Era sua anche la responsabilità di Rudy, il nostro pappagallino attaccabrighe.

    Io davo una mano in cucina lavando e asciugando le stoviglie e, quando mamma me lo chiedeva, stiravo al posto suo. Il sabato era dedicato alle pulizie. Io avevo l’impegno di lavare il bagno e il gabinetto, mentre Elena spolverava i mobili. Ci alternavamo a passare l’aspirapolvere e a pulire le scale e il corridoio del nostro pianerottolo.

    Siccome aveva già rotto fin troppi piatti e bicchieri, Elena non era ammessa a lavare e asciugare le stoviglie, nonostante avesse due anni più di me. Non le era permesso neanche stirare, perché era riuscita ripetutamente a bruciare dei vestiti. Una volta la casa aveva quasi preso fuoco, quando si era scordata il ferro da stiro acceso appoggiato sul tavolo, mentre andava a cambiare il disco con la musica, e si era distratta ascoltando un concerto per violino.

    Elena, fata incantata dal pianoforte

    Il suono del pianoforte era sempre presente sullo sfondo dei miei ricordi più lontani. L’immagine di mia sorella Elena china sulla tastiera, che accarezzava i tasti avorio ed ebano del suo piano Weinbach, emanava una tale sensazione di pace e di bellezza che niente al mondo avrebbe mai potuto ricreare.

    Elena era una sognatrice, l’incarnazione di una fata che era finita per sbaglio sulla Terra, dove camminava a passo di danza e parlava in rima o cantando. Vedeva solo quella parte di mondo che riusciva ad accettare, il resto per lei non esisteva proprio. Viveva per il suo pianoforte.

    Io ero la parte materialista che la ancorava a terra perché non volasse via, nonostante non riuscissi a impedire che i suoi piedi si muovessero sempre seguendo una di quelle musiche che sentiva solo lei. Se si concentrava, riusciva a studiare, a dialogare, a fare una vita normale, ma per lei era sempre una finzione, mentre la sua vita più autentica e colorata scorreva solo quando era immersa nello studio di qualche spartito difficile.

    Questa sua natura sognatrice era più evidente da quando era adolescente. C’erano addirittura alcune persone che cercavano di convincere mamma che Elena avesse bisogno di una scuola speciale. Per i bambini difficili, insomma. Mamma però voleva che Elena crescesse come una ragazza qualsiasi e non si lasciava convincere. Gli insegnanti ormai sapevano come trattarla e lei comunque dava degli ottimi risultati di apprendimento, anche se non sempre era disposta a collaborare. Vista la sua passione per la musica, nessuno la forzava in altre direzioni, dando per scontato che quando un musicista era bravo a fare musica, il resto non aveva poi tanta importanza.

    Elena da grande voleva fare la concertista. Il suo desiderio segreto era di poter suonare uno specifico pianoforte a coda: il Petrof di antica fattura, prezioso e con un suono incomparabile. Per ora si doveva accontentare di un piano ordinario, il suo Weinbach, sia perché un Petrof di quelli buoni costava tantissimo, sia perché un pianoforte a coda non sarebbe proprio potuto entrare nella nostra sala.

    Come dicevo, papà era un tipo piuttosto irrascibile, esplodeva per niente e sbolliva velocemente. Io avevo imparato presto a non importunarlo più del minimo indispensabile, anzi, cercavo di sparire nella mia cameretta quando lui era a casa. Invece Elena sembrava non arrivasse a capirlo, e succedeva spesso che papà si arrabbiasse con lei. Lo odiavo in quei momenti, perché la trattava da stupida e le dava della ritardata. Non si accorgeva per nulla che la sua primogenita era molto più intelligente di lui, ma che semplicemente non si disturbava a dimostrarglielo. Poiché da lei non otteneva nessuna reazione, papà alla fine si stancava di rimproverarla. Per sfogarsi poi trovava sempre qualche pretesto per sgridare me al posto suo, sapendo che i suoi discorsi non li sopportavo e mi ferivano. Lui vedendomi sconvolta si calmava e la sfuriata gli passava.

    Non era raro che dopo l’attacco d’ira papà cercasse Elena e le chiedesse di suonare qualcosa, come se qualche minuto prima non l’avesse maltrattata. Papà non s’intendeva di musica classica, e voleva che Elena gli suonasse qualcosa di allegro, non quelle musiche da chiesa. Così la casa si riempiva delle note del valzer viennese.

    Qualche volta, quando era di buon umore, papà invitava la mamma a ballare, mentre Elena suonava. Mamma il più delle volte si lasciava coinvolgere in un valzer giusto accennato, ballato sul tappeto, in ciabatte. A volte invece papà arrotolava il tappeto e voleva che mamma si mettesse le scarpe con tacco, per ballare come si deve. Quando i miei ballavano, complici in un’intimità tutta loro, io li guardavo seduta ai piedi del pianoforte ed Elena suonava, assorta, con un sorriso sulle labbra e gli occhi chiusi.

    La ragione per cui ero nata

    Adoravo mia sorella, perché era semplicemente adorabile. Ciònonostante sentivo anche una punta d’invidia nei suoi confronti. Non perché era brava a suonare, ma perché da quando mi ricordavo era sempre stata fermamente convinta di quello che voleva diventare.

    Io invece non sapevo ancora che cosa avrei voluto fare da grande. Ogni tanto mi assalivano delle serie preoccupazioni a riguardo. Non eccellevo nello sport e non avevo qualità notevoli. Nel tempo libero leggevo, ricamavo, lavoravo all’uncinetto e a maglia, creavo figurine con il pongo. Acconciavo i capelli a mia sorella, quando mi lasciava fare. Mi piaceva anche scrivere delle poesie e dipingere, durante l’anno scolastico cantavo nel coro. Ero brava in tutte le materie, ma eccezionale in nessuna.

    Avrei potuto studiare medicina, legge, economia, scienze politiche, o anche fare la parrucchiera. A undici anni appena compiuti, l'unica convinzione che avevo riguardo la mia vita era di essere una brava Pioniera.

    Per la verità non ero una Pioniera qualsiasi: potevo vantarmi di essere una capoclasse e avevo il diritto di mostrare quella qualifica con due stelline rosse sulla divisa. Questo per me significava proprio tutto!

    Sognavo sempre a occhi aperti un mondo migliore. Un mondo trasparente dove tutti sostenevano la verità, dove non si rubava, dove tutti lavoravano per la Patria ed esisteva un codice d’onore, e non c’era gente cattiva e nemmeno le guerre (poverini i bambini del Libano, a cui mandavamo i vestiti dismessi, perché avevano perso proprio tutto in quella schifosa guerra scatenata nel loro paese!). Insomma, sognavo il mondo come ci veniva promesso che sarebbe diventato, se il Partito Comunista avesse avuto la possibilità di gestire tutti i paesi del globo. In attesa che ciò accadesse, io facevo la mia piccola parte per plasmare la gente intorno a me, ma alcuni erano proprio duri a capire.

    Forse la missione che mi attendeva era proprio quella di migliorare il mondo, aiutando il movimento rivoluzionario comunista nella lotta contro l’imperialismo. Meno male che c’erano ancora tantissimi paesi in cui il comunismo per ora non aveva trionfato, altrimenti non mi sarebbe rimasto più niente da fare!

    Che cosa imbarazzante. Avrei dovuto cercare un’altra ragione per cui ero nata.

    Così invece, potevo tranquillamente diventare prima una Pioniera esemplare, poi un’Unionista formidabile e a diciotto anni una Comunista, istruita e prontissima alla lotta.

    Decisi che avrei fatto ogni giorno un’opera buona, da vera Pioniera. Come i Pionieri russi che ci davano l’esempio. In questo modo avrei contribuito subito e concretamente ai cambiamenti che avrebbero portato la mia patria verso un futuro roseo e comunista.

    Il Partito è geloso

    Sabato e domenica mamma non lavorava. Papà invece lavorava quasi ogni sabato, perché era il giorno dei matrimoni. A noi non dispiaceva poi tanto, perché tornando dal ristorante prima dell’alba di domenica ci lasciava in frigo i pasticcini.

    L’abitudine imponeva, a chi organizzava il banchetto di nozze, di preparare una scatola con i pasticcini assortiti e una bottiglia di vino o di grappa da portare a casa, non solo per i partecipanti, ma anche per il personale che serviva. Il banchetto al ristorante cominciava subito dopo l’atto di matrimonio svoltosi in Comune, oppure – in qualche raro caso – in chiesa e poi in Comune.

    Il rito di matrimonio celebrato solo in chiesa non era valido per la legge.

    La maggior parte delle persone si sposava in Comune, per non tagliarsi le gambe all’inizio di una vita nuova. Nessuno, se voleva ottenere una certa posizione al lavoro, poteva permettersi di sposarsi in chiesa, perché significava dichiarare apertamente la propria fede, e Dio non faceva parte degli insegnamenti del KSČ⁶. Generalmente, in chiesa si sposavano solo quelli che con quest’atto non potevano danneggiare nessuno dei familiari o ai quali non importava se avrebbe condizionato la loro vita nel futuro. Tra questi c’erano anche i veri credenti (nella nostra zona la maggioranza assoluta dei credenti erano cattolici), che spesso frequentavano la chiesa regolarmente, o almeno per le grandi festività.

    Il Partito era molto geloso e non amava perdere futuri Comunisti nella lotta contro la chiesa. Negli ultimi anni la situazione stava lentamente cambiando, non era più così facile far tacere la gente e far sparire nel nulla le persone in disaccordo con le idee del Partito.

    Comunque la paura era annidata dentro i cuori come un tarlo. Tante persone, che come i miei genitori erano sposate anche in chiesa, ma che non erano credenti praticanti o particolarmente devoti, avevano preferito adattarsi alla situazione politica attuale⁷. Crescevano i propri figli senza fare mancare loro niente, ma non davano alcun insegnamento religioso. La scelta era lasciata a ogni individuo, che avrebbe potuto decidere da grande quale direzione prendere, se e quale religione praticare.

    Invece della formazione politica, già dalla prima elementare, era incaricata la scuola. Non è che fosse poi un compito così gravoso! Il Partito era uno solo, tanto che era superfluo completare il suo nome quando veniva pronunciato. Era semplicemente Il Partito. Tutto quanto era chiaro e lineare. Tracciato, deciso, scritto e stampato. La verità era una sola, la nostra. La giustizia era una sola, la nostra. Il paradiso terrestre era uno solo, il nostro. Bastava ripeterlo abbastanza spesso, e ad alta voce, per finire acrederci tutti quanti.

    Di conseguenza, il Paese si riempiva di atei, di cui da adulti solo la minima parte avrebbe deciso di praticare una religione.

    Il battesimo segreto

    Anche i battesimi potevano essere celebrati in Comune. Nel corso di una cerimonia simile al matrimonio civile veniva dato il nome al bambino e s’iscriveva in modo solenne nel libro dell’Ufficio Anagrafe.

    Io sono stata battezzata in Comune, come Elena. Successe però che durante il viaggio di nozze dei miei genitori, posticipato di due anni per motivi economici, la piccola Elena era stata affidata alla nonna paterna e alla zia, la sorella di papà. Le due donne, profondamente credenti, avevano colto l’occasione al volo e avevano portato Elena in chiesa, dove il parroco l’aveva battezzata di nascosto.

    Le madrine autoelette avevano festeggiato il battesimo, assieme a Elena, fermandosi dall’orefice, dove in un batter d’occhio le avevano scelto e comprato una catenina con la croce. Dopo che avevano ripreso a respirare, ancora con qualche crampo di paura nelle viscere, se ne erano tornate a casa, profondamente convinte di aver fatto la cosa giusta.

    Essendosi svolto tutto senza altri testimoni, il fatto fu comunicato dalla nonna stessa ai genitori della neo-battezzata, appena questi furono tornati dal viaggio. Papà si rese conto del grande rischio che tutti correvano e sottolineò che la cosa andava tenuta nascosta, in modo da non danneggiare la bambina né loro come suoi genitori.

    Quando sono nata io, nonna era morta da poco. Così, al papà fu misericordiosamente risparmiato di far giurare alla propria madre che non avrebbe tentato di far battezzare anche me.

    Dio? Nessuno l’ha visto

    Mamma ci aveva raccontato la storia del battesimo di Elena, con un velo di nostalgia nella voce. Non so se rimpiangesse i vecchi tempi, oppure sentisse la mancanza della fede. Quando era piccola andava in chiesa ogni domenica e aveva fatto anche la cresima e la comunione. Non le avevano però mai insegnato a cercare conforto nella fede.

    Se non si crede più in nulla, talvolta è difficile affrontare la vita.

    Quando mamma voleva indossare un gioiello che teneva chiuso dentro la cassaforte, Elena e io andavamo volentieri a curiosare dentro la sua custodia dei tesori. Io, quando vedevo la catenina con la croce accanto ai monili di mamma, chiedevo a Elena di indossarla. Lei mi accontentava sempre. Allora le domandavo come si sentisse, se percepisse la presenza di Dio o qualcosa. Lei, per farmi contenta, mi rivolgeva sempre un sorriso misterioso e mi diceva: «Sento della musica bellissima.» E io le credevo. Perché Elena sentiva quasi sempre della musica bellissima quando stava bene, e indossare un gioiello, seppur di una forma inusuale come per noi era la croce, soddisfaceva il suo bisogno artistico di cose belle. Non avevamo nessuna intenzione di beffarci della croce, eravamo fin troppo beneducate per poterci beffare di qualsiasi cosa o di chiunque. Semplicemente non eravamo credenti.

    Se ci capitava di visitare qualche chiesa, per noi era soltanto un’opera architettonica con dei manufatti artistici collocati al suo interno. Ma, nonostante fossimo cresciute come atee, sapevamo dell’esistenza della Chiesa Cattolica, della Bibbia e di tutte le storie narratevi. C’eravamo fatte una vaga idea su Dio, anche grazie ai libri che leggevamo. Dai romanzi che narravano storie del Settecento, avevamo appreso dell’esistenza della preghiera e della fede. Dai libri contemporanei degli autori del blocco sovietico avevamo invece imparato che Dio non esiste, semplicemente perché nessuno l’ha mai visto. Nel mondo materialista non c’era posto per una forza invisibile di quell’entità. Certamente, tutte quelle informazioni contraddittorie non facevano che aumentare la nostra confusione in materia, e non ci permettevano di arrivare a capire niente, vista anche la nostra età. E non potevamo certo chiedere ai nostri genitori, poiché l’educazione ci imponeva di non fare mai a nessuno domande di un certo tipo.

    Forse però Elena era veramente più vicina a Dio, magari anche grazie al battesimo stesso. Pur senza essere credente, era la persona meno materialista che avessi mai conosciuto. Io invece credevo solo in quello che vedevo e che potevo toccare. Non mi era mai successo di sentire la musica nella testa come la sentiva Elena, e facevo dei sogni talmente realistici che spesso li confondevo con la realtà. In segreto avrei voluto essere un po’ più simile a Elena. Lei all’occorrenza riusciva a ritirarsi nelle stanze nascoste della sua mente, e per conforto aveva la sua musica e il suo pianoforte. Io traevo conforto solo dalle cose materiali e terrestri.

    Editke néni e Bobi

    Tra tutte le persone che conoscevo, l’unica che non nascondeva di portare la croce al collo e di frequentare regolarmente la chiesa era la nostra vicina di casa più anziana, la signora Editke⁸, Editke néni⁹. Sembrava un uccellino, tutta minuta, fina, quasi trasparente. Camminava appoggiata a un bastone ed era sempre accompagnata da Bobi, un bastardino di pelo raso, con la testa metà nera e metà bianca e con una lunghissima coda arricciata. Lui e la sua padrona passavano le loro lunghe giornate solitarie a passeggiare nel parco.

    Bobi era il prediletto di mia sorella Elena, che lo viziava con bocconcini messi da parte e con infinite coccole. Editke néni la lasciava fare e la trattava con dolcezza. Lei stessa aveva suonato il pianoforte per tutta la vita, anche se non come la grande concertista che aveva sognato di diventare. Suonava in Comune, ai matrimoni e ai battesimi civili. Le piaceva tanto sentire suonare Elena. D’estate si sedeva spesso sulla panchina davanti al condominio, Bobi acciambellato accanto ai suoi piedi torturati dai reumatismi, per ascoltare la musica che usciva dalla finestra del nostro soggiorno. Quando Elena se ne accorgeva, le suonava sempre la marcia nuziale. Poi si affacciava alla finestra e le domandava in ungherese: «Editke néni, andava bene così? Al mio matrimonio ci sarà lei a suonare, vero?»

    Da diversi anni la battuta era la solita, ma si divertivano sempre tutte e due e ci ridevano insieme di gusto, Elena alla finestra e Editke néni sulla panchina.

    Ogni domenica mattina ci trovavamo in sala a spiare da dietro le tende Editke néni che stava andando in chiesa.

    «Guarda, Elenka¹⁰» sussurravo io, «oggi si è messa quel cappellino buffo, con i fiori finti.»

    «E i guanti di pizzo» osservava Elena. «Com’è elegante! Sembra una grande signora dell’Ottocento.» Dopo ci zittivamo, tanto non c’era altro da dire. Vedevamo Bobi camminare dignitosamente al suo fianco, con il pelo pulito e lucido. Non sapevamo se il cane entrasse in chiesa con la sua padrona, oppure se lì davanti ci fosse un posto dove si lasciavano i cani, così come si faceva per le biciclette. In ogni caso eravamo convinte che Bobi non avrebbe mai e poi mai disturbato la messa, se avesse potuto assistervi.

    Dal diario

    Venerdì, 22 agosto 1986

    Opera buona: non ho fatto nessuna opera buona.

    Oggi papà è arrivato a casa con una grande notizia…

    La promozione

    Era fine agosto. Tra pochissimi giorni le vacanze sarebbero finite e il primo settembre la scuola sarebbe inesorabilmente ripartita. Stavo discutendo di questo con Elena, e del dover proprio dare un’occhiata ai quaderni con i compiti, anche se di voglia ne avevamo poca tutte e due. Erano le tre e mezza e aspettavamo sedute in cucina che mamma tornasse dal lavoro. Ci attendeva il fine settimana, e noi pregustavamo il tempo che avremmo trascorso con lei.

    Gli ultimi giorni di vacanza!

    Sentimmo aprire la porta, ma ciò non era stato preceduto dal suono dei tacchi di mamma sulle scale. Ci guardammo sorprese e facemmo a chi arrivava di corsa per prima alla porta. Speravamo che fosse nostra nonna materna, che noi chiamavamo semplicemente Mama. Sarebbe arrivata sicuramente con una pentola, con dentro i nostri dolci preferiti, o con le frittelle di patate. Oppure ci avrebbe portato del granoturco bollito, o ancora una fetta di anguria dolcissima, come solo lei sapeva trovare al mercato.

    Invece, arrivando alla porta, trovammo papà che si stava levando rumorosamente le scarpe. In un primo momento la cosa ci preoccupò, perché, quando era di turno di mattino, non rincasava mai prima delle cinque, tranne quando si sentiva male. Ma bastava vedere la sua faccia sorridente e farsi stringere nel suo abbraccio per capire che stavolta doveva essere successo qualcosa di bello.

    Lui sulle prime voleva tenere duro e aspettare mamma, ma dato che non smettevamo più di tormentarlo con le domande, rinunciò e si lasciò convincere a dirci la grande novità: finalmente era arrivata la sospirata promozione. E non avrebbe fatto semplicemente il capoturno, come si aspettava. L’avevano promosso vedúci reštaurácie: responsabile di gestione dell’intero ristorante!

    Non ci spiegò che questo salto lo doveva alla malasorte del capo, Brezovský, che aveva avuto un infarto due settimane prima e non sembrava in via di guarigione. La direzione aveva valutato la questione e deciso di dare spazio a un giovane con i requisiti giusti, pieno di voglia di emergere, piuttosto che dare la promozione a uno degli attuali capiturno, già pieni di vizi e vicini all’età della pensione. Inoltre, nostro padre aveva appena finito un corso di quattro anni che aveva frequentato nella città di Nitra. Noi sapevamo che questo corso, dove lui andava ogni venerdì, avrebbe dovuto aiutarlo a diventare un capo.

    In realtà, il corso non riguardava la gestione dei ristoranti o altre questioni collegate. Era niente meno che una scuola di politica, dove si spiegava ai Comunisti semplici l’insegnamento del Partito. Chi veniva segnalato per il suo apprendimento e per i risultati ottenuti, aveva la porta aperta per una promozione. Insomma, per una coincidenza papà si trovava a dover cambiare la divisa del cameriere con la giacca e cravatta dell’impiegato. Avrebbe potuto finalmente nascondersi dietro la sua scrivania e far riposare i suoi piedi dolenti.

    Quando arrivò mamma, la sorprese con la notizia. Poi ci annunciò solennemente, come solo lui sapeva fare, che il giorno seguente saremmo andati a Nitra, in un ristorante di classe superiore, per festeggiare. Finalmente potevamo trascorrere il sabato tutti insieme. Da ora in poi al ristorante di papà i preparativi per il banchetto del matrimonio sarebbero toccati ad altre persone.

    Lui ormai era un capo, vedúci, gli bastava arrivare più tardi e controllare quello che facevano gli altri. Speravamo che con questa promozione anche la scatola dei pasticcini di domenica mattina sarebbe stata un po’ più grande…

    _____________________

    ³ Československá socialistická republika, Repubblica Socialista Cecoslovacca.

    ⁴ Gustáv Husák (1913-1991), presidente della Cecoslovacchia (1975-1989) e leader del Partito Comunista Cecoslovacco (1975-1987). Il periodo del suo governo, successivo alla Primavera di Praga, è noto con il nome di Normalizzazione. Mosca lo scelse per affossare l’esperimento di Dubček. Negli anni immediatamente successivi all’invasione, Husák riuscì a placare gli animi dei cittadini occupandosi del miglioramento del loro tenore di vita. Nonostante lui stesso fosse stato vittima dello stalinismo negli Anni '50, sarà ricordato come traditore della sua nazione che ha costruito la sua carriera all’ombra dei carri armati russi.

    ⁵ Diminuitivo di Katarína.

    ⁶ Komunistická strana Československa, Partito Comunista Cecoslovacco.

    ⁷ Ufficialmente, la libertà di religione nella Cecoslovacchia Socialista era ancorata nella Costituzione, a differenza dai paesi Comunisti che vietavano tutte le religioni. In realtà anche in Cecoslovacchia la Chiesa era sempre vista come un nemico (e i suoi fedeli tenuti sotto osservazione o anche perseguitati), perché sarebbe facilmente potuta diventare una forza di opposizione al Regime.

    ⁸ Diminuitivo di Edit, in ungherese.

    ⁹ Néni in ungherese, o teta in slovacco, è il termine rispettoso con il quale i più giovani si rivolgono alle donne più anziane. Entrambi i termini hanno anche il significato di zia. La variante maschile è bácsi, in ungherese, o ujo, in slovacco, anch'essi hanno il significato zio.

    ¹⁰ Diminuitivo di Elena.

    Andiamo al ristorante

    Dal diario

    Sabato, 23 agosto 1986

    Opera buona: ho fatto la pettinatura a Elena (non so però se questo conta). Ho riordinato gli asciugamani nel bagno del ristorante, ma mamma mi ha sgridata.

    Siamo andati al ristorante Nitra, che meraviglia! E poi, avremo UN CANE!

    Il viaggio sulla FerrarEmbéčka

    Così, anche Elena e io ci preparammo per questo pranzo, selezionando con cura i nostri vestiti preferiti da indossare. Di sandali invece ne avevamo solo un paio ciascuna, perciò la scelta non ci creò problemi. Quella primavera, mamma aveva deciso di prendermi il modello con i fiocchi, di colore rosso, mentre a Elena aveva comprato quelli bianchi con fiori. La scelta di mamma non rispecchiava il suo gusto personale e nemmeno il nostro. Semplicemente, per bambine e ragazze venivano sempre creati due modelli soli, differenti per stile e colore, ma uguali in tutte le misure. Di conseguenza, i negozi di scarpe si riempivano ogni anno di modelli identici in tutto il Paese.

    Nella tarda mattinata di quel sabato, partimmo da casa piene di aspettative. Né Elena, né io eravamo mai state in un ristorante così raffinato. Non sapevamo neanche cosa aspettarci.

    Il viaggio con la nostra Škoda MB rossa, che noi avevamo ribattezzato affettuosamente FerrarEmbéčka, in omaggio al connubio di Ferrari (per il colore) e di Škoda MB (per tutto il resto), procedeva tranquillo. Faceva caldo e tenevamo

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