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La fuggitiva
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E-book521 pagine7 ore

La fuggitiva

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Info su questo ebook

Pubblicato da Rizzoli nel 1939, "La fuggitiva" è uno dei romanzi più apprezzati di Milly Dandolo, reso ancora più celebre dalla realizzazione, a soli due anni dalla sua uscita, del fortunato film ad opera di Piero Ballerini. Incentrato sull'amicizia e su altri temi – assai delicati – come la separazione, l'abbandono e il ripudio, il libro prende le mosse da Marina, una bambina che, appena fuggita di casa, incontra Delfina, una giovane allontanata dalla famiglia e abbandonata sull'altare. Accolta in casa di Marina come istitutrice, ben presto Delfina attira le attenzioni del padre della bambina, l'ingegner Ravaldo, il quale vive un periodo di crisi con la compagna Wanda. Giocando con la repulsione borghese per qualsiasi scandalo, Milly Dandolo assembla così un romanzo che è sia una schietta celebrazione dell'amore, ma anche una stoccata contro il bieco moralismo imperante nell'Italia di allora.-
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2023
ISBN9788728513484
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    Anteprima del libro

    La fuggitiva - Milly Dandolo

    La fuggitiva

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1939, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728513484

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PARTE PRIMA

    I

    — Vorrei che fosse primavera, — disse Delfina.

    Lia, una ragazza non giovanissima, piccola e pallida, piuttosto grassottella, con un viso regolare ma assolutamente inespressivo, stava chiudendo una valigia. Si alzò, guardò la sua amica che aveva parlato.

    — Che idea, Delfina. Tutti si vorrebbe sempre che fosse primavera.

    Delfina era più giovane, venticinque o ventisei anni. Pareva infreddolita, si era stretta al termosifone. Era alta e ben fatta, aveva dei bei capelli scuri eppure dorati intorno a un viso irregolare che aveva però tutto quel che mancava al viso di Lia; non si sapeva bene che cosa fosse, ma era qualche cosa di profondo e di dolce, come una passione contenuta o una malinconia che non si voleva esprimere. E la sua voce era come quel suo viso; quando aveva detto « Vorrei che fosse primavera » era come se avesse detto parole comuni, sì, ma sapendo invece di avere dentro di sé un desiderio accorante e splendido che tentava di velare con quelle parole.

    — Di tutti i mesi, — riprese, mentre Lia girava le chiavi della valigia — il novembre è il solo che odio veramente. Un orribile mese, senza speranza. Verso la metà di dicembre mi sento meglio, perché dopo tutto a gennaio si comincia a pensare alla primavera. Come ti ammiro, Lia! Non hai dovuto sederti sulla valigia per poterla chiudere, né hai domandato il mio aiuto per premere sul coperchio.

    — Non ce n’è bisogno, cara Delfina. Non è troppo piena.

    — La mia valigia è sempre troppo piena. In tutta la mia vita, tutte le grandi o le piccole valige che ho fatte, sono sempre state troppo piene. Non sono mai riuscita a trovare un rapporto fra le mie valige e quel che ci devo metter dentro. Mi son sempre dovuta sedere sulle valige, Lia.

    — Povera Delfina. Mi dispiace lasciarti proprio oggi. Ma se non approfitto di questi tre giorni, non vedo mia madre fino a Natale. Lunedì riprendo il lavoro in pieno. Mio Dio, oggi è venerdì, Delfina!

    Delfina sorrise. Il suo sorriso era luminoso, quasi allegro.

    — Ma io rallegrerò questo venerdì, Lia. Il mio matrimonio butterà fasci di fiori su questo giorno.

    Ad un tratto diventò seria.

    — Strano. Non riesco a pensare con certezza che alle undici e mezzo mi sposerò. Che ore sono?

    — Le nove. E io devo andarmene, Delfina! Ecco la chiave, cara. Ti supplico di scrivermi appena puoi. So che le spose in viaggio di nozze non scrivono, ma ti supplico di scrivermi, Delfina!

    Ad un tratto Lia si mise a piangere. Le due amiche si abbracciarono strettamente.

    — Delfina, — disse Lia tra un singhiozzo e l’altro — qualche anno fa mi pareva che non avrei potuto vivere senza sposarmi. Poi mi sono rassegnata, e adesso ho troppo da fare, non me ne importa più niente. Ma all’idea che tu… che tu…

    — Oh, Lia! — esclamò Delfina desolata. — Non posso vederti così. Non è poi una tragedia. Vedrai che tutto andrà bene. In fondo Mario è un bravo ragazzo, e son sicura che quando saremo sposati, e sempre vicini, non sarà nemmeno più geloso.

    — Si dice sempre così prima di sposarsi!

    — Non la saprai più lunga di me, Lia?

    Delfina aiutava affettuosamente l’amica ad infilarsi il paltò.

    — No, cara. Ma ricordati dell’altra volta. E non era novembre, Delfina: era marzo, e quindi primavera, e tutto poteva essere allegro.

    Il viso di Delfina si oscurò, parve confondersi per un attimo all’ombra dorata dei capelli.

    — Mario era stato terribilmente ingiusto con me…

    — Ma sei fuggita, Delfina, fuggita, e mancavano sei giorni!

    — Adesso mancano due ore, — disse Delfina sorridendo. — E non ho più tempo di fuggire, e nemmeno voglia, Lia, ti assicuro. Ormai voglio bene a Mario, anche se non è proprio un angiolino…

    — Due ore! Sono io che scappo, Delfina. Ecco la chiave. Ti ringrazio di tutto, cara. Mi fai il piacere di chiudere le imposte, e poi di consegnare la chiave alla portinaia?

    — Sta tranquilla.

    Si abbracciarono ancora, in fretta. Poi Lia se ne andò.

    Delfina chiuse le imposte lentamente, accuratamente; era pensierosa.

    Nella minuscola stanza d’ingresso s’infilò il morbido pastrano color cammello, pieno di comode tasche, che si era comprato il giorno prima, proprio per andare a sposarsi; e mise il feltro verde, vellutato, nuovo anche quello, il più bel cappello della sua vita. Le pareva di essere molto elegante, mentre scendeva le scale con le mani nelle tasche, la borsa di pelle marrone sotto il braccio: nuova la borsa, nuovi anche i guanti.

    Ad un tratto si fermò, guardò l’orologio che aveva al polso: c’era ancora tempo: cominciò a risalire, passò davanti alla porta del piccolo alloggio di Lia, continuò a salire.

    Ma poi si fermò, pensierosa. Aveva avuto l’intenzione di andare all’ultimo piano, ma forse non c’era tempo per questo. Si voltò, per ridiscendere: in quel momento vide la portinaia che saliva dal piano di sotto, tacita, con le scarpe di panno.

    S’incontrarono, e la portinaia guardò la ragazza con evidente sorpresa.

    — Ecco la chiave della signorina Marini, — disse Delfina. — Ho chiuso tutte le imposte.

    — Va bene, — disse la portinaia.

    Si era fermata, e ora guardava la ragazza discendere. Di dove veniva, la ragazza, se diceva d’essere uscita dall’appartamento della signorina Marini, che invece era di sotto?

    Delfina attraversò la strada, camminò un poco fino alla fermata d’un tram; aspettò il tram che non veniva; e allora si avviò a piedi, verso la sua casa poco lontana.

    Era in una vecchia via in prossimità del centro: una camera in affitto nell’appartamento della vedova d’un cantante, che affittava le altre camere a gente di teatro, stabile o di passaggio. La vedova si chiamava Serafina; era curiosa, suscettibile, sospettosa, ma in fondo buona, e non priva di cuore.

    Fu lei che aperse a Delfina: pareva che l’avesse aspettata. Era una donna di mezza età, grassa, coi capelli grigi, ricci e cortissimi, gli occhiali. Parlava sempre con un po’ d’affanno, come se avesse corso.

    — Signorina Delfina, ieri sera è venuto il vostro fidanzato.

    — Ieri sera? — chiese Delfina, quasi gridò, sbalordita.

    La signora Serafina la seguì in camera.

    — Ieri sera prima delle dieci. E poi ha telefonato a mezzanotte; e anche alle sette stamattina; e poi è tornato prima delle nove.

    — Che faccia aveva? — chiese Delfina, togliendosi cappello e pastrano.

    — Non bella, — disse gravemente la signora. — Stamattina, poi, addirittura brutta.

    Vi fu qualche attimo di silenzio. Si sentiva il respiro pesante della padrona.

    — Mi sono dimenticata di lasciarvi il mio indirizzo, — disse finalmente Delfina. — Non avevo voglia di star sola, questa notte, e sono andata a dormire con una mia cara amica, una ragazza che lavora tutti i giorni fino alle otto, e oggi partiva. È impiegata nell’amministrazione della mia casa editrice.

    Delfina faceva la correttrice di bozze appunto in una casa editrice. La signora guardava la ragazza attraverso gli occhiali grossi, da persona molto miope: e gli occhi avevano strani scintilii: o forse era solo per le grosse lenti.

    Delfina si era seduta su una delle due valige ormai riempite.

    — Perché mi guardate così, signora Serafina? Che cosa vedete nel mio viso?

    — Niente, — rispose subito la signora. — Vorrei che questa notte foste rimasta qui, Delfina.

    — Anch’io, — disse la ragazza con un sospiro. — Ma non potevo pensare che lui venisse ieri sera. Avevamo l’appuntamento per oggi, alle undici e un quarto, in chiesa. Ci viene sua madre, suo zio cavaliere, e un suo amico che farà da testimonio a me. È difficile trovare un testimonio adatto, quando si ha un fidanzato geloso, e nemmeno un parente prossimo. Ma voi, signora Serafina, credete che io sia stata proprio dalla mia amica?

    — Ma sì, — disse la signora Serafina, affrettatamente.

    — Che strana voce! — disse Delfina alzandosi e voltandosi a chiudere con forza la valigia, che però non si chiuse.

    La signora si avvicinò in furia, e l’aiutò premurosamente a chiudere.

    — L’altra la chiuderò oggi. Grazie, signora Serafina.

    — Non vorrei che il vostro fidanzato fosse venuto ieri sera, — disse la signora, scuotendo il capo e aggiustandosi gli occhiali alle tempie, con tutte e due le mani. Pareva proprio dispiacente, e anche confusa.

    — Nemmeno io vorrei, — disse Delfina con un altro sospiro. — Persuadetevi, signora, che io sono una brava e disgraziata ragazza.

    — Ma adesso andrà tutto bene, — disse la signora con gentilezza.

    E Delfina sorrise.

    Quando fu sola guardò l’orologio: erano passate le dieci, forse era meglio far presto, per non ritardare l’appuntamento.

    Sperò, mentre riordinava un po’ di roba, che Mario le telefonasse ancora. Avrebbe voluto vederlo prima delle undici e un quarto, avere una qualsiasi spiegazione. Strano, era fidanzata da molto tempo con lui, e ogni tanto avevano bisogno d’una spiegazione. Lui veniva dalla città dove si trovava ormai da più d’un anno, direttore amministrativo d’una piccola fabbrica di mobili, e subito c’era bisogno di avere una spiegazione. Sempre succedeva qualche cosa, anche se erano lontani, per cui c’era bisogno d’una spiegazione.

    Eppure lei amava Mario, e — soprattutto — lo aveva molto amato. Sapeva di appartenergli ormai nel profondo, e sapeva di conoscere le buone qualità e i molti difetti di quel ragazzo impetuoso, dalle idee un po’ ristrette che qualche volta immiserivano anche il suo cuore. Ma lei credeva che fosse un cuore leale, e in fondo aveva fiducia in lui.

    Si domandava ora perché egli non telefonava o non veniva, se era arrivato già dalla sera avanti. E sua madre? Sapeva di non essere nelle grazie della futura suocera, una donna che somigliava molto al figlio, del quale aveva tutti i difetti, senza averne gli impeti generosi e tante altre buone qualità: una donna, poi, ambiziosissima per il figlio.

    Si sentì improvvisamente turbata e preoccupata. Era presto, troppo presto; ma uscì lo stesso, e si avviò rapidamente alla chiesa, abbastanza vicina.

    Arrivò alle undici, entrò in sacrestia da una piccola porta laterale. La fecero sedere in un corridoio; non c’erano ancora Mario e sua madre, né i testimoni. Lei si alzò, dopo qualche minuto, quando vide entrare la signora elegantemente impellicciata, col viso molto pallido sotto la veletta. Mario veniva dietro a lei, e le parve pallido come sua madre.

    « Forse è il freddo, — pensò Delfina, che non era sospettosa e pensava sempre il meglio. — Anzi, senza dubbio è il freddo ».

    Eppure Mario avevo uno strano viso, mentre la guardava. Lei si era avvicinata a loro, aveva posato una mano sul braccio della futura suocera, una mano sul braccio di lui, e li guardava come interrogandoli.

    Un giovane prete uscì dalla sacrestia, chiese:

    — Siete venuti per il matrimonio?

    Delfina vide la madre sussultare, e prendere il braccio al figlio. E Mario disse duramente:

    — Non c’è più matrimonio.

    Delfina si era un po’ scostata, aveva rimesso le mani nelle tasche del suo bel pastrano color cammello. Non capiva. Allora vide lo zio cavaliere, un grosso uomo anziano, apparire dietro a Mario, avvicinarsi al prete, parlargli sottovoce, entrare con lui in sacrestia. C’era anche l’amico di Mario, un giovane biondo che guardava attentamente Delfina.

    Si sentiva smarrita e abbattuta fino a provare un disperato bisogno di stendersi in terra e chiudere gli occhi. Era stanca, lavorava da tanti anni, aveva il diritto di sentirsi stanca.

    Non è divertente correggere bozze, su un banco di tipografia, bozze di libri qualche volta scientifici, dei quali non si capisce niente, e si ha una gran paura di sbagliare: e spesso l’originale è scritto a mano, in modo orripilante a vedersi, non solo a decifrarsi! Povera Delfina. E qualche volta la luce è scarsa. Risentì l’eco della sua voce che diceva alla padrona di casa: « Sono una brava e disgraziata ragazza ».

    — Delfina.

    Mario le aveva preso un braccio e la conduceva fuori, quasi la trascinava.

    — Delfina, in nome di Dio, che hai fatto?

    Il freddo la colpì sul viso, la scosse, la sollevò un poco dal suo abbattimento. Ma non sapeva che cosa dire. Adesso erano soli, fermi tra alcuni alberi fitti dietro alla chiesa. Egli la teneva per le braccia e la stringeva.

    — So dove sei stata stanotte, Delfina.

    — Oh, Mario! Mario!

    Lei si sforzava a capire. Poi si ricordò che Dàscali, il pittore Dàscali, era venuto a prenderla a casa, verso le otto; era venuto su, e lei gli aveva fatto vedere le sue valige. Lui diceva che non occorre sedersi sulle valige per chiuderle.

    « A lasciarle così piene una notte — aveva detto — il giorno dopo si chiudono facilmente ». Dàscali era un uomo pratico.

    Poi erano usciti insieme, ma lui le aveva offerto solo l’aperitivo, non aveva potuto venire a pranzo con lei. Il pittore Dàscali aveva studio e camera all’ultimo piano della casa dove era andata a stare Lia da poco, dopo l’aumento di stipendio.

    — Se sai dove sono stata questa notte, — disse Delfina quietamente — tutto andrà bene. Ti prego, mi fai male, lasciami le braccia.

    Il viso del giovane pareva adesso congestionato. Era un bel viso, regolare e abbastanza comune, di ragazzo bruno e forte. Aveva gli occhi lucidi di collera.

    — Delfina, ieri sera sei andata con quel pittore, e stamattina ti ho vista uscire dalla sua casa.

    — Mario, ho un’amica che è andata a stare là. Sono…

    — Taci. La portinaia ti ha vista scendere dall’ultimo piano.

    Delfina non parlò subito. Poi disse quietamente:

    — Vigliacco.

    Allora egli le lasciò le braccia, ma non si scostò; alzò una mano e la schiaffeggiò in viso.

    Il colpo fu così forte che Delfina indietreggiò e battè contro il muro della chiesa. Poi chiuse gli occhi. Benché facesse un freddo piuttosto pungente, si sentì di nuovo depressa, con quel desiderio di lasciarsi andare in terra. Però adesso aveva trovato un muro.

    Vigliacco. E lei lo aveva amato, lo amava. Lagrime brucianti cominciarono a gonfiarle gli occhi, a stillare con fatica dalle palpebre chiuse.

    Non ricordò mai quanto tempo fosse rimasta là, appoggiata al muro, con le mani nelle tasche, la borsetta sotto il braccio, e quel faticoso pianto che non poteva né essere frenato né sgorgare liberamente.

    Quando riaperse gli occhi, vide un mondo tutto annebbiato e confuso attraverso le sue lagrime: un mondo invernale e squallido, nel quale avrebbe dovuto ricominciare a vivere, sola.

    Mario non c’era più. Non si stupì e non si dolse di questo: forse aveva desiderato, riaprendo gli occhi, che egli non ci fosse. Avrebbe voluto ricordarlo ancora come era prima, tanto innamorato, col suo bel volto acceso; anche adesso era innamorato, e forse era soltanto per questo che la faceva soffrire.

    L’aveva capito, o meglio si era sforzata di capirlo, fino allora, ma adesso non lo capiva più: forse era troppo stanca per poter fare ancora uno sforzo, sia pure mentale.

    Era tutta fredda, così appoggiata a quel muro freddo: aveva solo una guancia calda, la guancia che aveva ricevuto lo schiaffo. Se la toccò: ma poi si tolse il guanto, per far sentire alla pelle calda il refrigerio della mano che il guanto non aveva scaldato.

    Erano bei guanti nuovi, come tutto il resto. Aveva speso tutto, in quei giorni, per comprarsi abiti, biancheria, scarpe: e una valigia, e qualche oggetto necessario. Andava a stare con Mario e sua madre, egli aveva un buon posto, ora guadagnava bene, e la madre aveva qualche soldo. Non voleva entrare in quella casa come una miserabile. Aveva speso troppo per il pastrano color cammello, ma aveva sempre sognato un così bel pastrano da viaggio, pieno di tasche, lei che non viaggiava quasi mai.

    E adesso? Sapeva che cosa conteneva la bella borsa nuova di cuoio marrone: avrebbe fatto vedere il contenuto a Mario, ridendo, quando fossero stati in treno, quella sera. Le veniva voglia di ridere, anche se proprio non era il caso, se pensava al misero contenuto della bella borsa nuova. E adesso?

    Non aveva fame, non sapeva dove andare, non voleva andare in nessun posto. A casa no. Se Mario, pentito, fosse poi andato a cercarla a casa sua? E poi non voleva rivedere subito la signora Serafina. Aveva visto la curiosità e il sospetto nei suoi occhi poco sinceri dietro alle grosse lenti da miope. Se mai, sarebbe tornata di notte, molto tardi, quando non avrebbe dovuto dare spiegazioni a nessuno.

    Oppure…

    Un pensiero inatteso, uno strano, pazzo pensiero attraversò la sua mente. Si staccò dal muro, come se qualcuno l’avesse tirata, si mise a camminare in fretta.

    Ecco, le faceva bene camminare, si scaldava le gambe, i piedi. Il sangue ricominciava a scorrere regolarmente nel suo corpo che era sembrato, poco prima, quello d’una morta, o una cosa sola col muro freddo della chiesa: una statua immobile appoggiata alla chiesa.

    No, non era una statua: era una donna giovane, una ragazza sana e forte che non aveva paura della vita. Camminava, attraversava strade, svoltava, guardava l’orologio. Ma ad un tratto si fermò, di colpo, come se tutto il suo coraggio l’avesse abbandonata, e anche il pazzo pensiero. Si fermò a guardare una vetrina, ma non la vedeva. Era tardi, non voleva andare a casa, non sapeva dove andare. Un caffè, avrebbe almeno potuto prendere un caffè.

    Sedette in un piccolo caffè, sfogliò dei giornali senza ben vederli, e così fece venire le due. Poi s’incamminò lentamente, si ritrovò su una strada nota: tornava alla casa editrice, di dove era uscita qualche giorno avanti, salutando tutti per sempre. Sapeva che l’amministratore, un buon uomo zelantissimo, tornava al lavoro alle due. Gli avrebbe parlato.

    Passò in portineria, nei corridoi, entrò in amministrazione, tra gli sguardi stupiti di tutti: nessuno avrebbe immaginato di vederla, e così elegante.

    — Sì, sono io, signor Santi.

    Il signor Santi, un uomo allampanato, con un’espressione di mestizia nel viso molto pallido, guardava Delfina con la bocca aperta. Lei gli parlò sottovoce, in piedi, quasi appoggiata alla porta dello studio che egli aveva chiuso dietro a lei.

    — Non mi sposo più. Vi prego di aiutarmi, signor Santi: ho bisogno ancora di lavoro.

    — Ma ora c’è già Montini al vostro posto, non posso mica mandarlo via…

    — No, no, capisco. Ma per carità, aiutatemi! Qualunque lavoro. Anche in legatoria, anche…

    Si sentì un nodo alla gola.

    — Ripassate fra due o tre giorni. Ma non vi do molte speranze. Che pazzia avete fatto? Perché non vi sposate più?

    — Non mi vuole più, — disse Delfina con improvvisa energia. — Davvero, lui non mi vuole più. Aiutatemi, signor Santi.

    Ma quando si ritrovò sulla strada, nel freddo, nella nebbia che cominciava a calare, dando alle cose un aspetto più squallido e invernale, risentì la desolata stanchezza di qualche ora prima. Nella sua mente sfiduciata ritornò il pazzo pensiero. Forse non le restava altro da fare, veramente.

    Bisognava dimenticare Mario, prima di tutto; chi sa, non le sarebbe stato tanto difficile. Riuscì perfino a sorridere leggermente quando si ritrovò davanti alla casa incriminata della povera Lia.

    Forse la portinaia non la vide, e lei non guardò in portineria; nessuno, in ogni modo, le domandò dove andasse. Del resto, la portinaia la conosceva: questo pensiero le diede ad un tratto una profonda amarezza.

    Non prese l’ascensore. Salì lentamente fino all’ultimo piano, proprio una specie d’abbaino, sotto al tetto. Non suonò il campanello, sapeva che Dàscali non si ricordava mai di chiudere la porta.

    La scala era semibuia, ma quando entrò nello studio del pittore si trovò in piena luce: luce invernale e bianca, ma sempre luce: e improvvisamente si sentì consolata.

    — Delfina!

    Dàscali era seduto a una tavola sotto una finestra, e disegnava. Non si alzò.

    Era evidentemente assai sorpreso.

    — Non vi siete sposata oggi, Delfina?

    — Pare di no, — disse la ragazza sorridendo.

    Dàscali era un uomo di quarantasei o quarantasette anni, coi capelli grigi, il viso fine molto giovanile, e i begli occhi azzurri che non erano mai cambiati, benché avessero guardato, durante lunghi anni di vita, cose spesso aspre e brutte, cose cattive o amare. Un pezzettino d’infanzia era rimasto in quegli occhi azzurri.

    Delfina si tolse il feltro verde (il più bel cappello della sua vita) non il pastrano. Non faceva troppo caldo, l’ampio studio era pieno di finestre, e c’era perfino in alto un lucernario. La ragazza vide il termosifone vicino a una finestra, e andò subito ad appoggiarvisi. Guardava il pittore che adesso, cessato lo sbalordimento, guardava a sua volta Delfina con un piacere che rasentava quasi la tenerezza.

    — E dunque, Delfina? Si può sapere di dove venite?

    — Da un gran freddo, — disse la ragazza. — Ho pensato che qui si poteva star bene, e sono venuta. Pare, anzi, che sia giustissimo venir qui.

    Negli occhi azzurri riapparve lo sbalordimento.

    — Ci siamo lasciati ieri, Delfina…

    — Pare di no, — disse la ragazza con una certa durezza. — Pare che ci siamo lasciati stamattina alle nove quando io sono uscita dal vostro studio.

    Questa volta egli si alzò. Era piuttosto piccolo, molto snello, un po’ curvo. Guardava Delfina seriamente. Parlò con voce lenta e molto musicale che era una delle sue attrattive.

    — Se è una cosa immaginata, vi dirò che vorrei che fosse vera, Delfina. E vi dirò che in certi momenti mi è sembrata perfino vera, forse nei momenti in cui eravate più lontana, al vostro tavolo in tipografia. Volete una sigaretta?

    — Mi piacerebbe che mi piacesse fumare, — disse Delfina.

    E ad un tratto si curvò sul termosifone e si mise a piangere. Finalmente riusciva a piangere e singhiozzare, come una bambina. Poteva rendersi conto d’essere proprio disperata, senza amore, senza appoggio, senza lavoro, senza un soldo. Le pareva d’essere un pezzettino d’inverno, un ramo d’albero ghiacciato.

    Egli non si avvicinò. Cominciava a capire. Conosceva Delfina da qualche tempo, faceva disegni per la casa editrice nella quale era impiegata. Sapeva che Delfina aveva un fidanzato da anni: qualche cosa come un fidanzato, insomma. Certo lo amava, se piangeva così, Non era una ragazza qualunque, gli piaceva il suo viso ombroso e morbido, il suo rapido sorriso che ne rompeva inaspettatamente la malinconia.

    Si avvicinò a lei, le mise una mano su una spalla; i singhiozzi la scuotevano ancora, ma adesso cominciava a calmarsi, come se la pressione di quella mano avesse un potere benefico. I sussulti divennero più radi, più deboli. La mano carezzava ora leggermente le spalle calme.

    — Delfina, Delfina…

    Forse era possibile consolarla; se era venuta da lui, era solo per il suo bisogno d’essere consolata.

    — Delfina, non vi domando che cosa è successo, non ci tengo a saperlo, non me ne importa. L’importante è che siete qui. Alzate la testa; e se non volete alzarla, restate pure così, Delfina, ma la posizione mi pare scomoda. Se non fosse inverno, e se non calasse la nebbia con l’oscurità, da quassù potremmo vedere le prime stelle. Invece, come vedete, niente stelle, Delfina.

    — Niente stelle, — disse Delfina, alzando la testa e sorridendo leggermente.

    Si asciugava gli occhi, le guance umide.

    — Delfina, è così raro vedere una donna piangere. Non lo crederete, ma è difficile vedere una donna piangere. Qui sono venute tante donne, sì, sono passate tante donne: hanno riso, cantato, fumato, bevuto, ma nessuna ha pianto, ve lo giuro. È la prima volta che una donna piange quassù.

    Le aveva preso una mano, gentilmente, e ora la conduceva lontano dal termosifone.

    Lei aveva sempre avuto simpatia per Dàscali, le piaceva quella sua voce musicale, la cullava, forse avrebbe potuto addormentarla come una bizzarra ninna-nanna.

    — È stupido piangere, — disse Delfina scuotendo il capo. — E io non piango mai, non so perché mi son lasciata sorprendere adesso. Non sono la solita donna, Dàscali. Ma anche a non essere come le altre, ci sono forse delle buone ragioni per piangere quando si resta su una strada, senza lavoro e senza amore. Credo… Oh, mio Dio!

    S’interruppe, colpita da un pensiero. Poi si mise a ridere con nervosa allegria.

    — E pensate che perfino la mia camera è già occupata, proprio stanotte! La signora Serafina non ha perso tempo, ha già impegnato la camera da una settimana. Non mi resta che farmi ridare dalla portinaia le chiavi dell’appartamento di Lia, o cercarmi un albergo…

    Aperse la borsetta, frugò sorridendo: — Si trova una camera con due lire, Dàscali?

    — Al dormitorio dei poveri sì, Delfina; ma non so se sarebbe di vostro gusto.

    Gli occhi azzurri, luminosamente infantili, guardavano gli occhi della ragazza nei quali il sorriso si era spento, tra profonde ombre.

    — Delfina, non so se c’è qui dentro qualche cosa di vostro gusto. Ma c’è un letto, dietro a quel paravento, è abbastanza soffice, e qui non si sta troppo male. Non so poi se il mio vecchio cuore, Delfina, potrebbe aiutare il vostro a non morire di freddo.

    La ragazza disse, tentando di sorridere ancora per mostrarsi disinvolta: — Credo che il mio cucre sia già morto di freddo, Dàscali, in queste ore di solitudine: alle undici e mezzo sono rimasta senza amore, e verso le tre sono rimasta senza lavoro. C’è da morire di freddo anche ai tropici!

    — No, Delfina.

    Lei continuava a sorridere debolmente, ma le sue labbra si tiravano nello sforzo, il sorriso era senza luce.

    Si era seduta sulla tavola, sui grandi fogli di carta da disegno, fra le matite e i colori. Egli stava ritto davanti a lei, e la guardava in silenzio.

    Non era innamorato di lei, non avrebbe voluto innamorarsi di lei. Non era più il caso di parlare d’amore, alla sua età, specialmente se si trattava d’una ragazza giovane come Delfina. Sarebbe stata una disgrazia, per lui, innamorarsi di Delfina.

    Le posò le mani sulle spalle. Si accorse ad un tratto che premeva quelle spalle con la forza d’una penetrante carezza. Le disse ad un tratto con una voce alterata nella quale era tutto il rimpianto del passato, la malinconia del presente e la disperazione dell’avvenire:

    — Voglio soltanto consolarvi.

    Delfina respirava con affanno. Ma non voleva togliersi alla pesante carezza di quelle mani; i suoi occhi pieni d’ombra diventavano più cupi nella penombra che invadeva la stanza, si fissavano nei chiari occhi azzurri come invocando aiuto.

    Non sapeva quale aiuto avrebbe potuto darle quell’uomo non più giovane che non chiedeva mai niente per sé, poiché certo aveva vissuto tutta la sua vita. Ma doveva essere buono. Aveva sempre avuto simpatia per lei, ne era certa; qualche volta le aveva fatto la corte, discretamente, quasi scherzosamente, e lei aveva resistito con gentile malizia. Anche lui sapeva, come tutti sapevano, che lei era una brava ragazza: poteva ispirare una passione, lei, ma anche tenerezza e rispetto: lei aveva fame di calore, soltanto.

    — Delfina, Delfina…

    Era bella veramente, adesso, nella penombra: i suoi occhi si dilatavano, il suo pallido viso pareva di velluto. Non era né spaurita né invitante: sotto i begli occhi dilatati c’era una lunga ombra di stanchezza.

    Le mani che premevano le spalle salirono lentamente al collo, in una carezza profonda, raccolsero il pallido viso nel loro morbido calore. Che bella bocca aveva; un po’ grande ma perfetta, fermamente chiusa, malinconica eppure giovanissima, e priva d’amarezza nella sua malinconia. Egli baciò quella bocca.

    — Delfina, sono forse io che domando d’essere consolato…

    Eppure non doveva essere così; ora egli sentiva sotto le sue-labbra le guance umide di lagrime. Povera bambina, le aveva fatto del male senza saperlo, con la sua sola esistenza lassù, all’ultimo piano della casa incriminata. Quanto male avrebbe potuto farle ancora, senza rendersene conto? O forse se ne rendeva conto: e sapeva pure che lei non era venuta da lui non per lui, ma per se stessa, in un momento di desolazione che la costringeva a togliere ogni valore alla propria vita.

    — Delfina, sei venuta qui per buttar via la tua vita?

    Delfina non rispose subito. Gli occhi azzurri fissi nei suoi avevano una dolcezza attirante. Dàscali non era un uomo qualunque: forse l’avrebbe aiutata a dimenticare.

    — Dàscali, io vorrei solo…

    S’interruppe, non gli disse subito che voleva solo dimenticare. E quell’interruzione le permise di sentire, nel silenzio, uno strano fruscìo, quasi uno scricchiolìo, che la fece sussultare, costringendola a staccarsi di colpo.

    — Che c’è? Avete un gatto?

    No, non aveva un gatto. Però aveva udito lui pure, e adesso stava in ascolto; Delfina saltò giù dalla tavola, distratta e nervosa ormai.

    Il rumore si ripetè.

    — Ma qui dentro c’è qualcuno, Dàscali!

    Il rumore era venuto da un angolo buio dello studio, vicino alla porta, dove c’erano tele e vecchie cornici ammucchiate contro il muro; da una parte, una sedia sgangherata sosteneva alcune tavolette di legno.

    Un altro scricchiolìo, un altro colpo, una tavoletta cadde: tra la sedia e le cornici apparve una piccola ombra.

    Dàscali accese la luce, una grande lampada in alto: l’ombra era un braccio di bambino, aggrappato a una gamba della sedia. Allora fu Delfina che si precipitò, si curvò, e tirò fuori un bambino che stava nascosto dietro le cornici.

    Era un bambino di cinque o sei anni, con un maglione di lana blu chiuso al collo: era molto pallido, e guardava Delfina con due grandi occhi lucenti che erano imploranti e al tempo stesso avevano una strana espressione di sfida.

    — Chi sei?

    Il bambino non rispose.

    Aveva le mani gelate, e Delfina, inginocchiata davanti a lui, ebbe l’impressione che tremasse, di freddo o di paura. Continuava a fissare la ragazza con quei grandi occhi, senza rispondere. Era un bel bambino, ma di aspetto delicato; aveva i pantaloni lunghi, blu, e un magnifico paio di scarpe nuove.

    Ad un tratto disse, con una piccola voce sicura, non priva d’armonia: — Non voglio dire chi sono.

    Delfina e Dàscali si guardarono.

    L’apparizione del bambino aveva rotto l’incanto. Si guardavano con sorpresa, per il bambino, ma forse un poco sorpresi anche di se stessi: Delfina, in ogni modo, stranamente sollevata.

    — Non è bello non dire il proprio nome, — disse Dàscali con molta gentilezza — quando ci si trova in casa d’altri. Io sono il pittore Dàscali, e questa è la mia amica Delfina. E tu chi sei?

    — Non voglio dire chi sono, — disse il bambino, ora con le labbra tremanti.

    Forse stava per piangere, pensò Delfina; era sempre inginocchiata davanti a lui, e gli carezzava le mani fredde, gliele stringeva, sperando di scaldargliele.

    — Ebbene, non dire niente, caro, — gli disse con dolcezza. — Noi vogliamo essere tuoi amici, e il pittore Dàscali è buono, è contento che tu sia venuto a casa sua. Figurati che io non so nemmeno il nome di Dàscali! Io so Dàscali, solamente. Non hanno importanza i nomi.

    — Tu ti chiami Delfina, — disse ad un tratto il bambino.

    La sua bocca restò ferma, e invece i suoi occhi s’illuminarono di sorriso. Delfina si posò sulle guance calde le mani del bambino che cominciavano a intiepidirsi.

    — Viene in mente il mare, — disse piano il bambino.

    Nessuno le aveva mai detto questo. Sorpresa e intenerita, Delfina strinse a sé il bambino che non la respinse, sorpreso forse quanto lei di quella carezza. Poi la ragazza si alzò, condusse per mano il bambino fino a un angolo dello studio dove c’erano delle sedie e una poltrona.

    Dàscali si era seduto al tavolo, guardava l’inattesa scena, fumando.

    — Comincio a credere che tu non sia un bambino vero, — disse Delfina sorridendo. — Credo che Dàscali ti abbia dipinto, una volta, e che tu sei venuto fuori dalla carta o dalla tela.

    — Dalla carta, — intervenne tranquillamente Dàscali. — Io ti ho dipinto in un libro per bambini che ho illustrato poco tempo fa. Sei il bambino disceso dalla stella della sera.

    — Fammi vedere, — disse il bambino, interessato e divertito.

    Dàscali andò a prendere il libro. In una delle grandi figure c’era infatti un bambino vestito di turchino che scendeva da una stella: ma aveva le ali.

    — Tu non le hai le ali, — disse Delfina. — Ma certo le hai nascoste, perché non so come avresti fatto a salire quassù.

    — Dalle scale, — disse con serietà il bambino.

    E di nuovo il sorriso si spense sulle sue labbra, che cominciarono a tremare in un principio di pianto.

    — Se allora non sei il bambino della stella, — disse Delfina — bisognerà tornare a casa.

    — Non voglio tornare a casa, — disse subito il bambino con un leggero singhiozzo. E poi strinse le labbra, nell’evidente sforzo di non piangere.

    — Ti aspetteranno, — disse Delfina.

    — Papà è fuori…

    — Non ci sarà solo papà, — insistè la ragazza.

    Il bambino sorrise. Aveva gli occhi lucidi, forse di lagrime. Bisbigliò: — Le altre saranno disperate; papà le manderà via perché mi hanno perso!

    — Chi sono le altre?

    Egli rispose subito, con una certa gaiezza nella voce:

    — Tilde e miss Mary. Tilde vuole che la chiami signora, ma io non voglio.

    Quanta energia in quella personcina delicata, quanta caparbietà in quella piccola voce che non aveva nominato una madre! Delfina credette di comprendere e non osò interrogare. Ma guardò Dascali.

    Il pittore guardava la ragazza e il bambino, divertito.

    « Meglio così, — pensava con una certa amarezza — meglio che se ne stia sola col suo cuore ferito e la sua desolazione. Domani, uscendo da questa casa, si sarebbe sentita anche più tremendamente desolata ».

    — Dàscali, — disse Delfina — bisogna pensare qualche cosa.

    — Ho pensato, — egli disse con una voce ridente che però aveva un fondo di amarezza. — Telefono ai carabinieri perché vengano a prendere questo ragazzo che è scappato di casa.

    — No! No! — gridò la piccola voce, disperatamente.

    Delfina tese le braccia, e il bambino vi si rifugiò singhiozzando.

    — Non piangere, caro. Lui scherza sempre. No, non telefonerà a nessuno. Ma tu devi dirmi chi sei, e poi penseremo insieme, solo tu ed io, che cosa è meglio fare.

    — Massimo, — singhiozzò il bambino; — sono Massimo.

    I singhiozzi scuotevano la delicata persona in modo preoccupante. Delfina la teneva stretta a sé, carezzava i capelli, le esili spalle. Il bambino pareva senza peso, un fantoccio abbandonato.

    — Massimo, sono contenta di sapere il tuo nome. Caro Massimo, ti voglio bene, son tua amica, non ti darò un dispiacere. Dimmi perché sei fuggito. Fidati di me caro.

    « Anche lei ha voglia di piangere, — pensava Dàscali. — Dopo tutto potevamo restare qui tutti e tre. Credo che non ci siano sulla terra tre esseri più desolati ».

    Poi sedette al tavolo e continuò a disegnare.

    — Non voglio più stare con Tilde e miss Mary — disse finalmente il bambino, mentre Delfina si asciugava il viso tutto bagnato di lagrime. — Papà non è mai a casa, e io non voglio stare con gli altri. Non voglio tornare a casa! Non voglio!

    Delfina si era presa il bambino fra le braccia, lo teneva stretto a sé; il corpo esile si era adesso veramente abbandonato. Una inaspettata, inesplicabile corrente di tenerezza si era stabilita fra le due creature che si conoscevano da pochi minuti. Il piccolo essere volitivo e caparbio cedeva a poco a poco alla insinuante soavità della voce e dei modi di Delfina. Ora Delfina stessa si stupiva di sentirlo così abbandonato nelle sue braccia.

    — Massimo, da quanto tempo sei qui?

    Il bambino rispondeva sommessamente, con incertezza, ma rispondeva.

    — Non so… sono corso su… la porta era aperta…

    — Quella signora che chiami Tilde ti aveva forse sgridato? O l’altra?

    — Miss Mary… Sì, miss Mary non sgrida, ma è forse peggio di Tilde.

    — Massimo, — disse Delfina dopo un silenzio — ora andiamo via io e te. Ti porto io dal tuo papà e gli dirò che non vogliamo più né Tilde né miss Mary.

    — Come farai? — chiese il bambino, smarrito, eppure improvvisamente attento.

    — Farò così, Massimo. Dirò al tuo papà: « Caro signore, io sono Delfina, quella del mare. Tilde e miss Mary sono insopportabili e se voi non le mandate via, io mi porterò Massimo sul mare, andremo in un’isola e non torneremo mai più ».

    — Pare una novella, — disse il bambino subito distratto.

    — Sta tranquillo, Massimo, — riprese Delfina seriamente. — Io ti porto via davvero, se le cose non vanno bene. I delfini ci vengono incontro, saltiamo sulle loro groppe, e siamo i padroni del mare.

    Si era alzata, tenendosi in braccio il bambino.

    — Mi dici la storia dei delfini?

    — Certo, Massimo. So tante storie bellissime, io.

    — Quando siamo a casa mia, resti con me a raccontarmi le storie?

    — Fin che vuoi, caro.

    Non c’era altro modo di persuadere il bambino a tornare a casa. Delfina si rimise il cappello. Poi si preoccupò per il bambino che era poco vestito.

    — Che idea, Massimo, uscire senza pastrano! Dàscali, non ci sarebbe qualche cosa per coprire questo bambino?

    Si trovò finalmente un vecchio scialle rustico che era servito una volta al pittore come sfondo a una natura morta.

    — Ti ricordi bene dove è la tua casa, Massimo?

    — Forse sì, — rispose il bambino.

    Ma era meglio non insistere, e andarsene fin che era in buone disposizioni, prima che si pentisse. I grandi occhi lucenti di Massimo fissavano Delfina, la seguivano in tutti i suoi movimenti.

    La ragazza bisbigliò al pittore:

    — Dàscali, potete prestarmi venti lire?

    Egli sapeva che la ragazza non sarebbe tornata da lui. Non immaginava che cosa avrebbe fatto, non osò domandarglielo. Forse avrebbe avuto bisogno di più di venti lire: ma lei, con una strana sicurezza, insistette perché egli non le desse di più.

    — Ho fede, Dàscali. E poi, se fossero più di venti lire, chi sa quando potrei restituirvele…

    La guardò scendere la scala, tenendo per mano il bambino avvolto nello scialletto rustico, incrociato sul petto e legato sul dorso.

    — Massimo, — disse il pittore sorridendo, — ti farò un ritratto a memoria! Qualcheduno scriverà la novella del bambino coi pantaloni lunghi e lo scialle a rose selvatiche.

    Il bambino si voltò a sorridergli e a salutarlo con la mano.

    — Dàscali, tornerò presto. Grazie, Dàscali, — disse Delfina, un po’ pallida, senza sorridere.

    Egli avrebbe accettato anche la restituzione delle venti lire, pur che fosse tornata.

    C’era tanto freddo nella strada, tanta nebbia intorno ai fanali opachi, che Delfina si prese in braccio il bambino e lo strinse a sé per tenerlo caldo.

    — Ti peso, — disse Massimo.

    — Nemmeno per idea. Non voglio farti prendere un malanno. Dunque ti chiami Massimo… e poi?

    — Massimo Ravaldo, — disse il bambino dopo qualche attimo d’esitazione.

    — E la tua casa dov’è? Sai il nome della strada? E il numero?

    Questa volta il bambino disse sottovoce, in un soffio, il nome della strada e il numero. Forse sperava che Delfina non udisse. Ma Delfina udì, e fu contenta che la strada fosse molto vicina.

    — Ti peso, — disse ancora Massimo.

    Ora le aveva stretto le braccia intorno al collo, come per distribuire meglio il peso intorno alla persona della ragazza.

    — No, non mi pesi, Massimo. Ecco, la strada è questa, vero?

    — È la casa col giardino, — disse Massimo.

    Allora Delfina ricordò una villa grande e

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