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Cattiva stella
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E-book496 pagine7 ore

Cattiva stella

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Info su questo ebook

Seconda guerra mondiale. Un prigioniero viene liberato dai tedeschi grazie a Seneca, un professore e alto membro della Resistenza. Quest’uomo è chiamato Tempesta ed è sospettato d’essere una spia perché l’unico rimasto in vita dopo il massacro dei suoi compagni di lotta. Malgrado i dubbi però, la Resistenza lo riaccoglie e lo affida alle cure di Giovanna, divisa tra la sua vita nell’Italia fascista e la clandestinità.
Nonostante prove di grande coraggio, viene però ancora una volta accusato: un efferato crimine è stato consumato ed è Tempesta a essere imputato come il malfattore. Sarà solo Giovanna, innamoratasi di lui, a cercare di salvarlo dalla  condanna. Tentando la fuga, proveranno a superare gli ostacoli per costruirsi una vita lontani dal fragore delle bombe.
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2018
ISBN9788832040456
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    Anteprima del libro

    Cattiva stella - Dina Ravaglia

    Dina Ravaglia

    Cattiva stella

    Cattiva Stella

    di Dina Ravaglia

    prima edizione: Ottobre 2018

    © 2018, Santelli editore

    Santelli editore

    Viale Giacomo Mancini 236,

    87100 Cosenza

    0984.406939

    info@santellieditore.it

    www.santellieditore.it

    Finito di stampare

    nel mese di Ottobre 2018

    Tutti i diritti sono riservati, compresi la traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione, la comunicazione al pubblico e la messa a disposizione con qualsiasi mezzo e/o su qualunque supporto (ivi compresi i microfilm, i film, le fotocopie, i supporti elettronici o digitali), nonché la memorizzazione elettronica e qualsiasi sistema di immagazzinamento e recupero di informazioni. Ogni violazione di legge sarà perseguita a termini di legge.

    Attraverso il buio Giovanna d’Arco

    precedeva le fiamme cavalcando

    nessuna luna per la sua corazza

    nessun uomo nella sua fumosa notte

    al suo fianco

    Della guerra sono stanca ormai

    al lavoro di un tempo tornerei

    a un vestito da sposa o qualcosa di bianco

    per nascondere questa mia vocazione

    al trionfo ed al pianto

    Son parole le tue che volevo ascoltare

    ti ho spiata ogni giorno cavalcare

    e a sentirti così ora so cosa voglio

    vincere un’eroina così fredda

    abbracciarne l’orgoglio

    E chi sei tu, lei disse divertendosi al gioco

    chi sei tu che mi parli così senza riguardo

    veramente, stai parlando col fuoco

    e amo la tua solitudine

    amo il tuo sguardo

    E se tu sei il fuoco raffreddati un poco

    le tue mani ora avranno da tenere qualcosa

    e tacendo gli si arrampicò dentro

    ad offrirgli il suo modo migliore

    di essere sposa

    e nel profondo del suo cuore rovente

    lui prese ad avvolgere Giovanna D’Arco

    e là in alto e davanti alla gente

    lui appese le ceneri inutili

    del suo abito bianco

    E fu dal profondo del suo cuore rovente

    che lui prese Giovanna e la colpì nel segno

    e lei capì chiaramente

    che se lui era il fuoco lei doveva

    essere il legno

    L. Cohen/F. De André

    Il male

    Professore, devo parlarle. È urgente. La prego. Spero di vederla all’osteria dal Baffo, stasera.

    Arianna rilegge le parole scarabocchiate sul biglietto, poi le rilegge ancora. Non sembrano esserci errori di ortografia. Del resto, non è che una riga, una serie di parole sconnesse. E in ogni caso non scherziamo, lei l’ha fatta la terza elementare, e con ottimo profitto.

    Quindi non è per questo che appallottola quel pezzo di carta tra le dita, e non è per questo che lo lancia in fondo, in un angolo della stanza, tra fili viola e turchesi e ritagli di stoffa bianca, azzurra e a righe.

    Lo appallottola e lo butta via perché è un tempo e un luogo, quello, in cui anche uno stupido lo sa, messaggi scritti è meglio non lasciarne, non si può mai sapere in che mani possono andare a finire, e anche se è questione di vita o di morte, come in questo caso, per una svista o uno scherzo del destino può in un attimo diventare questione di altre vite, e di altre morti.

    Un bambino bello, seduto sul seggiolone, gli occhi grandi e chiari.

    È meglio che io al Professore vada a parlargli di persona. È meglio che faccia di tutto per parlargli, a costo di passare la notte là fuori, seduta davanti all’università. Prima o poi si stanca, di respirare la polvere di quelle carte. Prima o poi si stanca, gli viene fame, e il naso fuori lo mette.

    Un bambino bello con le mani paffute e la pappa sulla faccia, il cucchiaio tra le mani, i capelli scuri e mossi. Ne ricorda esattamente il colore, dei capelli e degli occhi. Gli occhi sono andati scurendosi e ingrigendosi con l’età, ma allora, li ricorda, erano perfettamente, assolutamente azzurri, azzurri da mozzare il fiato. Li guardavi infatti quegli occhi, e potevi anche scordarti di respirare. Occhi così intensi per un bambino, così veri. E quel bambino era il suo.

    Professore, devo parlarle. La prego.

    Sente il bisogno di scrivere di nuovo come per dar forma a un pensiero, come per renderlo più efficace. Ma scrivere è inutile, è talmente semplice quello che ha da dire, e anche la risposta che può avere è semplice: un sì o un no, nient’altro. Le due lavoranti che l’aiutano, la sua coetanea e l’altra, ingenua, una ragazza che ha passato la trentina da un pezzo ma non ha ancora visto niente, se ne sono già andate, hanno paura del buio, del coprifuoco. Un po’ forse hanno paura, anche, di lavorare. Ma da fare ce n’è ancora, il lavoro non è finito, ed è a lei che vengono a chieder conto, l’indomani.

    Tuttavia, quello che ha in mente è più importante.

    Arianna si copre il viso con le mani, i gomiti appoggiati accanto alla macchina da cucire. Sospira, e poi si tira su, raddrizza le spalle, si alza in piedi.

    Si affannano tanto, certi studenti, sforzandosi di studiare e studiare, e di comportarsi come se niente fosse, come se il mondo fosse uguale a quello che è sempre stato e non sul punto di finire, come se gli eventi esterni, insomma, non li riguardassero. E di questo, di come si possa esser così stupidi, lui è sempre sbalordito.

    Anche l’ultimo esce finalmente e il professore ha dell’altro da fare, dell’altro da pensare, ma lo studio polveroso, la scrivania piena di libri all’improvviso gli sono venuti a noia, quindi quello che ha da fare lo farà da un’altra parte, magari a casa di Matilde che non è lontano. Quello che ha da fare non è poi così diverso da pensare, e pensare può anche disteso sul letto di Matilde, in vestaglia, con Matilde magari distesa accanto a lui, o tra le sue braccia.

    L’uomo che chiamano Seneca si infila il soprabito e si accende una sigaretta mentre esce dalla stanza.

    È soltanto ottobre, eppure l’aria è fredda come se la stagione corresse più del calendario. Istintivamente alza il bavero dell’impermeabile e tira una boccata, brace arancio vivo, fumo azzurro chiaro nell’atmosfera cupa e senza luce.

    «Professore!» è una voce di donna, un’ombra, sta contro il muro come se fosse lì da ore. È buio e c’è il coprifuoco, così per vederla in faccia deve avvicinarsi molto, e anche lei quasi con fatica si stacca da quel muro, e cammina verso di lui.

    «…Professore, mi scusi il disturbo, non le farò perdere molto tempo, ma ho bisogno di parlarle.»

    Ora l’ha capito chi è, l’Arianna, la camiciaia dell’Oltretorrente, dalle sue mani esperte escono le migliori camicie della città. Quanti anni sono che non va a farsi fare una camicia? Quattro? Cinque? Ah, ma questo è grave.

    L’Arianna è una donna alta e prosperosa, ancora piacente, quanti anni avrà l’Arianna? Dunque, di lui è più vecchia, ne avrà quarantacinque, forse cinquanta. Però è ancora bella e gli fa un sorriso triste di denti bianchi e occhi che non riescono proprio a sorridere, occhi che tirano in giù ma ormai è troppo buio e non si vede niente a parte il bianco dei denti, a parte il disegno delle sopracciglia.

    La strada non è ancora del tutto deserta, il bidello che si chiama Gianni esce in quel momento e lo saluta, «A domani professore,» poi passa la segretaria, «Buonasera, professore,» una zitella che gli sorride sempre come una civetta e lui si tocca il cappello e dice all’Arianna di seguirlo. «Venga con me,» le dice. Non c’è da fidarsi a parlare lì, in strada, e poi l’ha capito, l’Arianna in strada non è che parla, sono troppo pesanti, troppo delicate le cose che ha da dire.

    Girano giù di borgo e poi camminano spediti, l’Arianna lo segue.

    È ancora bella, sì, l’Arianna, alta e prosperosa, le spalle un po’ curve, le mani rovinate dal lavoro, ma bella, i capelli ancora scuri e folti, è rimasta vedova più di vent’anni prima e non si è mai risposata, chissà perché.

    Sono arrivati sotto casa di Matilde, e il professore suona il campanello. Il cancello sulla via non è ancora stato chiuso.

    Ma dove mi porta, si chiede l’Arianna, in un palazzo bello e ricco del ghetto vecchio, chissà chi ci abita e speriamo che sia sicuro, e mentre si chiede queste cose il portone si apre e salgono le scale fino al secondo piano.

    La porta socchiusa e, dietro, un’atmosfera rosata, un filo di luce sul pianerottolo, un’ombra.

    «Buonasera, Matilde. Questa è l’Arianna. Aveva bisogno di parlarmi, così l’ho portata qui.»

    L’ombra si fa da parte, e Arianna segue dentro il professore. L’ombra che si chiama Matilde è una donna distinta ed elegante, in vestaglia color cipria ma elegante, evidentemente non si aspettava altre visite, a parte il professore. Si fa avanti e nonostante una contrarietà passeggera che le attraversa lo sguardo le tende la mano (unghie curate, lunghe, laccate. Pelle morbida come una ragazzina). L’Arianna imbarazzata la guarda e vede un paio d’occhi liquidi e nocciola, trasparenti come miele in quella luce. Il viso è allungato, il naso leggermente aquilino. I capelli sciolti e ondulati sono lunghi fino alle spalle, sembrano appena lavati, appena pettinati. Un aroma dolce e intenso, speziato, avvolge l’Arianna e sembra provenire da quei capelli, anche se è evidente, non era lei la destinataria originale di quel profumo.

    Il corridoio, luci soffuse alle pareti, quadri di paesaggi, ritratti stranamente sorridenti di una coppia in nero, conduce in un salone grande con il soffitto a volta. Il fuoco arde nel camino. In mezzo alla stanza un pianoforte a coda, nero e lucido. Davanti al camino, un tappeto persiano enorme e pregiato, un disegno complesso e prezioso, colori delicati e rosso ai bordi. Roba da ricchi, pensa l’Arianna, mentre la signora che si chiama Matilde siede sul divano, prende a sfogliare una rivista, solleva le gambe fino a raccogliere i piedi sotto di sé mettendosi comoda, lasciando ad Arianna e al professore tutto il tempo che serve.

    Il professore, come se fosse a casa sua, le fa cenno di seguirlo, apre la porta che mette nello studio e poi la richiude dietro di sé. C’è una scrivania bianca decorata con volute dorate, una sedia uguale, una poltrona rossa. Il professore siede alla scrivania. «Si accomodi,» le dice, e lei obbedisce anche se non ha nessuna voglia di mettersi comoda, per le cose che deve dire non può pensare di stare comoda, così siede sul bordo, ginocchia strette, schiena tesa, e stringe la borsa sulle ginocchia con entrambe le mani.

    Esita, adesso le sembra di avere osato troppo e non ha più il coraggio. Forse leggendole nel pensiero il professore prende da un mobile due bicchieri, ci versa dentro un dito di roba trasparente, gliene porge uno.

    Allora per la prima volta lo guarda bene in faccia e vede che il professore è proprio quello che si dice un uomo affascinante, alto e distinto, con i capelli lisci sale e pepe tenuti fermi dalla brillantina, la riga perfetta da una parte, il viso però ancora giovane e quasi imberbe, e neppure i vestiti che indossa sono dozzinali, il borsalino marrone, l’abito di vigogna grigia, l’impermeabile chiaro di fattura sicuramente inglese. E la sua faccia, poi, è davvero interessante, per così dire, lineamenti regolari che gli danno un’aria seria e compassata alla quale sfuggono gli occhi che, a dispetto del resto, ridono sempre.

    «Avanti, mi dica tutto» la invita, e lei butta giù un sorso lungo dal bicchiere per scoprire che la roba trasparente è grappa. Il bruciore che si allarga dentro le fa venire voglia di parlare, e allora parla, non è venuta lì per stare zitta, è venuta per parlare, e parla. Lo sa che è inutile girare intorno alle cose, e non vuole far perdere tempo al professore che senza di lei già sarebbe impegnato di sicuro in altre faccende, così dice subito:

    «Mi hanno detto che sta preparando una lista di nomi. Nomi per uno scambio di prigionieri.»

    E chi gliel’ha detto, pensa Seneca. Be’, certo, l’Arianna è iscritta al partito da più tempo di lui, l’avrà ben trovato, qualcuno che le racconta le cose giuste al momento giusto. Non dice niente e allora lei incalza, «è vero, professore, che sta preparando un elenco?» E lui butta giù un sorso di grappa e poi fa segno di sì con la testa, una volta sola, gravemente, e fissa le carte sulla scrivania; l’ha capito l’Arianna dove vuole andare a parare, all’improvviso si è ricordato di una cosa, e l’ha capito.

    «Volevo chiederle se c’è una possibilità per mio figlio. La prego, gli dia una possibilità.» Seneca sospira, aveva inteso giusto infatti, e dice: «eh, Arianna, se sapesse quanti nomi avrei da aggiungere a quella lista…» e poi subito si rende conto che non è una frase da dire a una madre, cosa importa a lei degli altri nomi, a lei importa solo di uno.

    «Lo so. È proprio per questo che sono venuta a pregarla.»

    Seneca lo conosce il figlio di Arianna, l’ha visto alcune volte su in montagna, prima della cattura.

    Gli uomini, in montagna, salvo rare eccezioni dopo un po’ si trasformano tutti in selvaggi, barbe lunghe, capelli sporchi, e smettono di lavarsi con una certa voluttà, con compiacenza, come se avessero finalmente trovato la giustificazione che cercavano.

    Bene; Angelo detto Tempesta, il figlio di Arianna, era senz’altro il più selvatico di tutti. Lo ricorda alto, spalle larghe, gambe lunghe e nervose, occhi azzurri eppure pieni di fuoco, un diavolo più che un angelo, una sigaretta dietro l’altra, scontroso e in disparte eppure coraggioso al limite dell’incoscienza quando veniva l’ora del combattimento.

    Fosse stata solo una questione di coraggio, sarebbe subito diventato comandante; ma era anche questione di cognizione, di buon senso insomma, per questo Tempesta era finito nel distaccamento di Attila, quarantenne sobrio e moderato, che nonostante i colpi di testa per cui andava famoso l’aveva ben sopportato arrivando a nominarlo suo vice.

    Poi aveva trovato una compagna e si era dato una calmata.

    E poi c’era stata l’imboscata. Era stato l’unico a sopravvivere, l’unico a esser preso prigioniero, e le voci in giro, inquietanti, dicevano che solo per un motivo era sopravvissuto, ed era lo stesso per cui gli altri erano morti: Tempesta, dicevano, proprio lui, aveva chiamato i gatti nella tana dei topi. Ma Seneca non era convinto. Non ci credeva. Perché nell’imboscata era morta anche Emma, la compagna di Tempesta, incinta di otto mesi. Incinta di suo figlio.

    «…Non so,» prende tempo Seneca, «abbiamo tre ufficiali della Wehrmacht, e un tenente della SD. Dobbiamo stare attenti a non eccedere nelle richieste, a non esagerare. Alcuni nomi sono già stabiliti, non li ho decisi io.»

    «Professore, è mio figlio, l’unico. È un po’ matto, ma non è cattivo. Io ho sbagliato tutto con lui, professore. Suo padre era morto da tre settimane e io ero già a lanciare pietre dalla barricata. È  cresciuto senza un padre, nel borgo, e anche senza una madre: io dovevo lavorare. Pagare l’affitto. Vestire il bambino, dargli da mangiare. Ed ecco com’è finita: per vestirlo, per dargli da mangiare ho tralasciato tutto il resto. Guardi le mie mani adesso: ho l’artrite, ma allora no, allora lavoravo anche tutta la notte. C’era da lavorare, e si lavorava.»

    Il padre di Angelo, il marito di Arianna, lo sciopero di inizio agosto 1922. Lui, Seneca, era solo un ragazzo ma abitava nel cuore dell’Oltretorrente e lo ricorda bene quell’uomo alto e grosso che mentre lavorava cantava arie dell’opera a squarciagola, lo sentivano fino in piazza del duomo.

    Il primo di luglio era stato indetto lo sciopero. L’occupazione della fabbrica era durata tre giorni, poi la carica degli squadristi. Alcuni ci avevano preso male, e lui, Bruno, era tra questi. L’avevano portato all’ospedale ed era morto il giorno dopo, quando ormai altri eventi stavano scrivendo altre pagine di storia, e la notizia della sua morte non era stata nemmeno riportata sul giornale.

    E se la immagina l’Arianna sulla barricata, vedova da nemmeno due giorni, il vento forte della battaglia, le pietre, le grida, la immagina, più rabbia che dolore nello sguardo per Bruno che non c’è più (però gli uomini in camicia nera, gli uomini di Balbo, alla fine sono stati ricacciati indietro).

    «A questi figli non insegniamo niente, professore, o meglio, gli insegniamo tutto, ma senza volere, senza dire nemmeno una parola. Viviamo la nostra vita giorno per giorno e ogni gesto, ogni comportamento ricade sui nostri figli, fa di loro quello che saranno. E anche i nostri ricordi ricadono, pesanti come pietre, su di loro. Il ragazzo il padre non l’ha nemmeno conosciuto, si può dire, perché quando è morto non aveva ancora tre anni; ma alla fine guardi cosa è venuto fuori: un impulsivo come me, un pazzo, un anarchico, come suo padre. Ho sbagliato tutto con lui, perché non gli ero accanto, ero troppo giovane, e lavoravo troppo; ma la prego, professore, non posso pensare che non lo vedrò mai più. Vorrei stargli più vicina. Vorrei fare quello che non ho fatto quando era piccolo; dico questo, e mentre lo dico lo so, che non è più possibile, perché lui è un uomo adulto ormai, un uomo che stava per diventare padre. Ma la prego. Gli dia una possibilità.»

    L’Arianna ha alzato la voce, accalorandosi, ed è stata sul punto di alzarsi dalla poltrona; ma poi una volta dette quelle parole si è accasciata all’indietro, ricadendo sullo schienale come un sacco vuoto, ha scosso il capo e a bassa voce ha aggiunto: «Ha avuto una vita disgraziata. Nel trentanove è stato richiamato, è stato al fronte per un anno, Albania e Grecia. E non si era comportato neanche male a quanto ne so, del resto il coraggio non gli è mai mancato, pare abbia anche salvato della gente, dei civili in un villaggio in fiamme. Proprio negli ultimi giorni, nel marzo del quarantuno, l’hanno colpito a una gamba. Ferito, è stato internato in un campo di prigionia e da lì poi è scappato, aveva deciso che l’esercito non faceva per lui. L’avevano stancato, così mi ha detto. Io non lo so come ha fatto a tornare a casa, però so che mi si è presentato davanti all’uscio sei mesi dopo in uno stato pietoso, pelle e ossa, coperto di stracci e polvere, i piedi rovinati, la ferita non ancora guarita. Pensavo mi morisse tra le braccia. Invece niente, è entrato in casa si è seduto a tavola e si è messo a mangiare, poi si è buttato sul letto e ha dormito venti ore filate, e quando si è svegliato era solo sporco, solo magro. Aveva disertato, però, e dovevo nasconderlo. Allora l’ho mandato da mia cugina Brunilde all’arco di San Lazzaro, non so se ne ha mai sentito parlare, io devo farle un monumento: me l’ha tenuto nascosto in soffitta per un anno e mezzo, forse più. Dopo l’otto settembre se n’è andato in montagna, il resto lo sa. Attila l’aveva nominato vicecomandante. Si era perfino messo a posto, aveva trovato una ragazza, Emma, avevano fatto un bambino. E poi guardi cosa è successo.»

    Scuote un’altra volta la testa, con le mani che tremano si copre il viso. «Però è ancora vivo, finché c’è vita c’è speranza, come dicono, e io non posso pensare che non lo rivedrò più. Non ce la faccio.»

    Seneca versa altra grappa nei bicchieri, e beve tutto il contenuto del suo. Ha un brivido. Si alza dalla sedia e si avvicina all’Arianna, le sfiora la spalla con la mano. «Si fermi a cena con noi.»

    L’Arianna è venuta per una risposta, un sì o un no, e adesso però non ha il coraggio di insistere. Così si alza, muta, e segue il professore nel salone.

    Matilde si è andata a vestire, gonna e camicetta dello stesso colore rosa cipria della vestaglia, ha raccolto i capelli, un accenno di rossetto sulle labbra. Neppure Arianna ha la forza di decidere, non sa accettare e non sa rifiutare, la sua forza l’ha usata tutta e adesso non ne ha più, sta a fissare il vuoto con le mani abbandonate in grembo.

    Seneca invece è andato in cucina a mettere su la minestra e, nonostante la situazione, la cosa è tanto strana che Arianna si scuote dal torpore e guarda, non ci può credere, due donne sedute in salotto e un uomo, anzi, un professore, in cucina a scaldare la minestra.

    Matilde sorride, e spiega: «A lui piace fare da mangiare, ed è anche bravo. A me, invece, non piace.»

    Si affaccia dalla porta della cucina, ha indossato un grembiule bianco sulla camicia azzurrina (prima l’ha notato, è un cotone fine ma la fattura non è perfetta, fa una brutta piega sotto la manica), e dice: «E’ quasi pronto.»

    Matilde infila una sigaretta in un lungo bocchino d’avorio. Ne offre una anche a lei, che rifiuta.

    Le guarda il viso, gli occhi nocciola subiscono il riverbero del fuoco, enigmatici.

    «Ha dei figli anche lei, signora?» chiede Arianna con voce sommessa.

    «Mi chiamo Matilde,» le sorride appena, «i figli con mio marito non sono arrivati, e adesso lui è morto. Ma io non ho ancora smesso di sperare.»

    «Oh, mi scusi. Mi dispiace,» dice Arianna, e pensa, perché non son stata zitta. Guarda il fuoco e, senza poterci far nulla, sente due lacrime che scendono a rigarle le guance.

    Matilde le porge un fazzoletto, e senza una parola posa una mano sulla spalla di Arianna. Guardano il fuoco. Le lacrime scendono giù e non può fermarle, non può farci niente l’Arianna, così si copre il viso con le mani e aspetta, semplicemente aspetta che sia passata.

    Poi Matilde si alza, la cena è pronta, passatelli in brodo.

    Anche Arianna si mette a tavola, e comincia a mangiare meccanicamente.

    Il calore della minestra nello stomaco la risveglia, le trasmette un effimero senso di conforto.

    «Sono buonissimi,» dice, e Matilde: «Li ha fatti lui, ieri sera.»

    Il professore minimizza: «è una cosa da niente. Mia nonna era romagnola di Forlì. I passatelli in brodo sono la prima cosa che ricordo di aver mangiato, prima ancora del latte di mia madre. È soltanto pane grattato, formaggio grattugiato, noce moscata. Io però di uova ne metto sempre due, perché uno da solo là in mezzo mi fa tristezza. Comunque, è una cosa da niente.»

    «…No, sono buonissimi,» ripete Arianna.

    Appena finito di mangiare si alza, chiede scusa e ringrazia, dice che deve andare.

    Riceve un sorriso e una stretta di mano da Matilde, e una stretta di mano anche dal professore che l’accompagna alla porta, un perfetto padrone di casa.

    «Farò quello che posso, per suo figlio,» le dice, e lei butta fuori un sommesso grazie e niente altro, poi si precipita giù per la scala, mentre il nodo alla gola si scioglie in un singhiozzo.

    E non ha avuto nessuna risposta, né sì, né no.

    Stanno distesi sul letto grande, dopo. Seneca e Matilde. I capelli di lei, lunghi, gli fanno solletico sul petto come serpenti. La pelle di Matilde, se la accarezzi, è morbida e perfetta, e ha un profumo dolcissimo che fa girar la testa più del vino.

    «Cosa voleva, quella donna?» Matilde alza la testa per vederlo in faccia, e i serpenti si ritraggono uno ad uno per ricadere ai lati del suo viso.

    «…Suo figlio è prigioniero da tre mesi alla SD. Voleva chiedermi di inserire il suo nome nella lista.»

    «E tu cosa le hai detto?»

    «Le ho fatto capire che avrei valutato la cosa. Lo sai, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Il problema è quali nomi togliere, non quali aggiungere.»

    «Come lo sa l’Arianna, che suo figlio è ancora vivo?»

    Seneca scuote appena il capo: «Non lo sa, lo spera, credo. Fatto sta che il nome del ragazzo non è nell’elenco di quelli che sono stati giustiziati, da tre mesi a questa parte. Quindi, se ne deduce che dev’essere ancora vivo. Insomma, sua madre spera, cosa vuoi che faccia.»

    Matilde torna a girarsi sulla schiena e fissa il soffitto.

    «Nella storia del ragazzo c’è qualcosa che non ti convince. Perché non ti convince?»

    Seneca alza le spalle.

    «Girano strane voci sul suo conto. È stato catturato in un’imboscata dai tedeschi, però tutti i suoi compagni sono morti. Dicono che è stato lui a chiamarli, per questo è ancora vivo.»

    «E tu, cosa pensi? Ci credi a queste voci?»

    Seneca alza le mani, sulla difensiva: «…No. Nell’attacco è stata uccisa anche Emma, la sua compagna. Era incinta di otto mesi.»

    «Quanti anni ha il ragazzo?»

    «Ne avrà venticinque, più o meno. Si chiama Angelo. Tempesta è il soprannome. Dicono che sia un pazzo, uno scriteriato.»

    «Quanti anni aveva la sua ragazza?»

    «Credo una ventina. Non più di ventuno, o ventidue.»

    Silenzio. Seneca pensa che Matilde abbia finito con le sue domande, e infatti è così. Ma non ha finito con le risposte.

    «Fammi il favore, professore. Vai a scrivere quel nome nell’elenco.»

    Ma lui, a scrivere il nome, non ci va subito.

    Spengono la luce e, di nuovo, si abbracciano.

    Poi Matilde dorme, lui no.

    Si gira e si rigira nel letto, che gli sembra freddo ed enorme.

    Magari è un pazzo come dicono. Magari è una spia, uno senza principi, senza morale. Magari è un rompiscatole, e io lo faccio liberare, e lo mando su da Garibaldi. Così Garibaldi se la lega al dito, e poi me la fa pagare.

    È coraggioso, però. Questo lo dicono tutti. Coraggioso nel combattimento, il suo comportamento incosciente gli ha permesso di salvare anche delle vite. E questo, coi tempi duri che si prospettano, a Garibaldi non può che far comodo.

    Si gira nel letto fino alle prime luci dell’alba. Poi si alza e va di là, a scrivere quel benedetto nome.

    Come d’accordo, incontra la ragazza apparentemente per caso.

    Si incrociano davanti alla chiesa, ma lui che ci vede come un’aquila l’aveva già adocchiata da lontano, il cappotto marrone strizzato in vita, lungo, le bavaresi grandi, i capelli biondi tagliati corti appena sotto le orecchie, mossi, il passo deciso delle scarpe allacciate e lustre, nere, senza tacco. E poi, più da vicino, ne ha distinto i tratti del viso, le guance tonde, le labbra carnose ma piccole sempre atteggiate in un minuscolo broncio, il naso minuto, gli occhi verdi e grandi allungati verso le tempie da una piega naturale e, unica civetteria, da una riga di matita di un verde un tono più scuro di quello degli occhi. E ha pensato, ma quanto sono belle, e quanto mi piacciono, le donne? Be’, quelle belle, è ovvio. Ha pensato: se non fossi la persona integerrima che sono, se non fossi un signor professore e dottore e così corretto, anche Giovanna la spingerei dentro un portone e gliel’assaggerei volentieri, quella bocca, imbronciata e raccolta al centro del viso come una ciliegia.

    Ma sono quello che sono, Seneca il professore, e ho scelto Matilde, e lei ha scelto me, è la mia donna, e io sono io.

    «Buongiorno, Giovanna»

    «Buongiorno, professore»

    Si fermano un momento a parlare davanti alla chiesa. Giovanna gli chiede di quel libro, un trattato di anatomia dell’ottocento, in francese. Gli chiede se può prestarglielo, gliel’aveva promesso.

    «Meglio non andare allo studio,» dice il professore dando un’occhiata intorno, «camminiamo,» e Giovanna intanto arrossisce, le manca la prudenza, le manca, ancora, l’esperienza.

    Girano dentro al borgo, i rari passanti non badano a loro, sono sagome che si avviano rasente i muri e finiscono con l’essere inghiottiti dalla nebbia, come certe idee sbagliate.

    «Ho un compito da affidarti,» dice il Professore, «te ne avevo già accennato, ricordi?»

    Giovanna fa segno di sì, l’espressione seria, una ruga fine di espressione ha inciso la pelle molto liscia della fronte. «Di che si tratta?»

    «Tra tre giorni ci sarà uno scambio di prigionieri, ti comunicherò l’ora esatta e il luogo. Accompagnerai uno dei prigionieri fin su da Garibaldi, in montagna.»

    La ruga si distende impercettibilmente: «Non sembra difficile.»

    «E’ il prigioniero che è difficile; o, per lo meno, così dicono. Inoltre, da tre mesi è nelle loro mani, e non sappiamo nulla sul suo stato. Paradossalmente, potrebbe anche essere morto.»

    «Ma non risulta fucilato, evidentemente.»

    «Fucilato no, però potrebbe essere morto nelle cantine, o durante gli interrogatori. Non abbiamo la certezza che sia vivo. Ma ci proviamo. L’ho inserito nell’elenco.»

    «Cos’ha di tanto strano, insomma, questo prigioniero?»

    «E’ l’unico sopravvissuto all’imboscata di luglio. Gli altri sono morti tutti, compresa la sua compagna. Aspettavano un figlio. È chiuso dentro da tre mesi, e in più dicevano che era matto anche prima.»

    «…Ah.» Pensierosa, Giovanna si guarda le punte delle scarpe, una e poi l’altra, un passo e poi un altro. E allora Seneca si ferma, e quasi si scorda di parlare sottovoce:  «…Senti, Giovanna, te lo dico subito perché è inutile tacere, verresti a saperlo comunque: molti dicono che il ragazzo è una spia. Dicono che per questo, da solo, si è salvato.»

    Anche Giovanna smette di camminare, volta indietro la testa, poi tutto il corpo, poi ripercorre gli ultimi due passi, giusto per essere sentita, anche se parla sottovoce, e alza lo sguardo su di lui, una luce verde e attenta alla quale non si sfugge.

    «E allora perché l’ha messo nell’elenco?»

    Seneca distoglie lo sguardo, annusa l’aria, sorride, alza le spalle.

    «Lei non crede a quello che dicono, vero, professore? Non ci crede, che si tratta di una spia.»

    Lui scuote il capo e, per un altro attimo, sorride.

    «…No, forse non ci credo.» E poi me l’ha chiesto sua madre, personalmente. E chi ero, io, per negarle una speranza?

    «…E in tutto questo, io cosa dovrei fare?»

    «Lo accompagnerai su da Garibaldi, in corriera fino a Lagrimone, e poi a piedi. Preferisco che abbia una guardia del corpo, finché non arriva su. Non vorrei che fuggisse. Che facesse qualche pazzia. Preferisco che sia guardato a vista, perché non voglio grane per causa sua. Tu fingerai di essere sua sorella, o la sua fidanzata, come vuoi. Una coppia non dà nell’occhio, è più facile che passi inosservata.»

    «Insomma, professore, quello che gli serve è un angelo custode.»

    «…Angelo, ecco, è il nome del ragazzo. Ma tutti lo chiamano Tempesta, ti lascio immaginare il perché.» Giovanna fa segno di sì, grave. Vuol dire che ha capito, e non c’è bisogno di aggiungere altro. Sorprendendoli, la sera cade all’improvviso. La nebbia si infittisce, spessa come lana da materassi.

    Giovanna guarda avanti e riprendono a camminare.

    Seneca la guarda e pensa che no, lei non è come gli altri; lei è immersa nel mondo e vuole capire, vuole sapere tutto, non vuole accettare, non vuole stare ferma.  È stato lui a tirarla dentro a tutto questo ed è colpa sua se lei, adesso, è coinvolta. Ma è stata lei con le sue domande, con la sua curiosità, a tendere le mani, a stringere con forza, a farsi tirare dentro.

    Era solo una studentessa. Veniva a chiedere libri, a parlare degli esami. Poteva accontentarsi di essere come gli altri, quelli che non gli piacciono. E invece no. Lei voleva sapere. Voleva capire. Non voleva restare in disparte.

    È questo che lo affascina dei giovani, quando lo trova: questo guizzo di luce, questa voce che non vuole tacere, questo essere vivi.

    In questo, lui, si riconosce; rivede se stesso vent’anni prima, risente il brivido del rischio che drizza i capelli sulla nuca, e a volte ha paura; ha paura per Giovanna e per quelli come lei, e ha paura per se stesso, anche se lo sa, ormai è troppo tardi e bisogna andare avanti, non si fa più in tempo a chiamarsi fuori, neanche Giovanna forse fa più in tempo.

    «Devo andare, adesso. Buona serata, professore.»

    La saluta con la mano e resta a guardarla finché non sparisce dietro l’angolo, capelli chiari come piume, cappotto scuro lungo quasi fino ai piedi.

    A giudicare dalla direzione presa, immagina che Giovanna vada dal fidanzato.

    Già, perché Giovanna ha un fidanzato.

    Tale Bernardo Boni, avvocato. Uno di buona famiglia, e di sani principi. Uno che non ha scelto, non sta da una parte e nemmeno dall’altra, appartiene alla zona grigia come la maggior parte della gente e si salverà, di sicuro si salverà. Infatti fa il minimo che deve fare per restare a galla, quel tanto che basta: al sabato si mette la divisa della Brigata Nera e va alle parate, va alle riunioni, fa il saluto.

    Li ha visti insieme una volta, Giovanna e il fidanzato. Lei sembrava più piccola del solito, lui uno spilungone innocuo, non brutto, ma dai suoi occhi mancava la scintilla, mancava del tutto, non erano come gli occhi verdi di Giovanna.

    E Seneca sa che lei è libera, i suoi genitori e sua sorella sono sfollati in campagna a Porporano e lei invece, appena ha potuto, con la scusa dell’università è tornata in città, e ora vive sola nella grande casa sul viale (incredibile come la guerra possa dare tanta libertà a una ragazza che, in tempo di pace, non potrebbe nemmeno sognarselo). Gli ha raccontato che le basta solo una stanza, ha chiuso tutte le altre a prender polvere e del resto non le interessa.

    Il fidanzato, che ha in casa il padre la madre il maggiordomo e la governante, per via di quei sani principi famosi non si ferma mai a dormire la notte a casa di Giovanna, lui ci scommette che non si ferma, torna a casa sua lasciandola sola, e Seneca pensa: che spreco, che scempio, lasciare una ragazza così a dormire da sola in una casa enorme. Ma chi ha il pane non ha i denti, questo si sa.

    A volte gli sembra di sapere tutto di Giovanna, di sapere troppo e si sente colpevole, ma del resto lui ha bisogno di conoscere tutto, delle persone di cui si fida, è questione di vita o di morte.

    Eppure, questa storia del fidanzato preoccupa Seneca. Perché che una racconti storie ai genitori passi, a quelli fa comodo crederci, ma quando una comincia a raccontare balle anche al fidanzato per giustificare assenze e mancanze, allora sì che c’è da preoccuparsi, perché il fidanzato indaga, si insospettisce e magari chissà cosa scopre.

    Sarebbe molto meglio, insomma, che Giovanna non ce l’avesse, un fidanzato. Ma tant’è, e Seneca non può farci niente, non può appostarsi fuori dal portone di casa ad aspettare l’avvocato Boni per poi sparargli un colpo quando scende. Anche se l’idea, tutto sommato, ha cominciato a non dispiacergli.

    Rivede Giovanna due mattine dopo. Le ha fatto trovare un biglietto nella cassetta della posta e lei, puntuale, alle otto e mezza è già all’università sulla porta del suo studio, e bussa.

    La fa entrare e mentre la porta è aperta vede che c’è la sua amica con lei, Annachiara o Annamaria, quella iscritta a Lettere, non tanto alta, con gli occhiali.

    Sono molto amiche e Seneca immagina che sappia tutto, che Giovanna l’abbia messa al corrente di tutto, a cominciare dal fatto che la ragione per cui si trova lì quella mattina non è soltanto un libro di anatomia, vecchio di un secolo, scritto in francese.

    E da come Annachiara (o Annamaria) lo guarda attraverso le lenti spesse, uno strano misto di ammirazione e disapprovazione, ne ha la conferma, sa tutto.

    Giovanna chiude quello sguardo, come tutto il resto, fuori della porta.

    «Ecco il libro,» le dice. Preso il volume da uno scaffale, lo posa sulla scrivania, lo spinge verso di lei.

    Sulla copertina ocra sono disegnati dei fiori con un tratto nero e sottile.

    Giovanna lo apre, lo sfoglia. Le pagine ingiallite dal tempo presentano illustrazioni preziose: i muscoli, lo scheletro. L’apparato cardiovascolare.

    «Puoi tenerlo,» le dice Seneca, «portalo pure a casa. Puoi tenerlo finché vuoi.»

    La mano di Giovanna tra le pagine del libro, la mano di Seneca su quella di Giovanna, che alza lo sguardo e sente sulle guance un segno di fuoco rosso, e non è solo il contatto a farla arrossire, in qualche modo a spaventarla, ma anche quello che Seneca sta per dirle.

    «Allora è per domani notte,» dice il professore, e si sforza di cogliere un tentennamento nello sguardo verde, un’incrinatura nella voce. Invece, non arriva niente.

    «Senti, Giovanna, se non vuoi non hai che da dirmelo.»

    «Io non ho detto niente.»

    «Allora va bene. Domani notte. Fatti trovare sul viale, nei pressi di casa tua. Alle due. Non uscire prima.»

    Giovanna fa segno di sì con la testa, trattenendo il fiato, poi dice:

    «Spero che non sarà una cosa tanto lunga. Perché lo sa, professore, per non far nascere sospetti io devo farmi vedere dal mio fidanzato, e ogni tanto anche dai miei genitori.»

    «Non sarà lunga, no. Si tratta solo di arrivare su in montagna, massimo due o tre giorni. Puoi raccontarla, una storia che stia in piedi per due o tre giorni? Poi sarai libera.»

    Tra quelle quattro mura hanno già parlato anche troppo.

    Giovanna riprende a sfogliare il libro. Commentano un’ illustrazione, alzando di nuovo la voce. Come d’accordo, Seneca il professore è passato a raccoglierla sotto casa, alle due di notte, a bordo di una macchina nera.

    Quello che guida Giovanna l’ha già visto una volta: lo chiamano Gigi, è uno di poche parole, con un paio di baffetti sottili e i capelli come piccole onde incollate alla testa.

    Il luogo dello scambio Giovanna non lo conosce. I due uomini stanno in silenzio, uno concentrato sulla guida, l’altro a pensare. Entrambi fumano. Giovanna darebbe qualsiasi cosa per una sigaretta, ma non gliela offrono, e lei non ha il coraggio di chiedere.

    Ha il cuore in gola, ma non saprebbe dire perché. Non sa cosa aspettarsi. È come se, girato l’angolo, tutto dovesse perdersi e rimanere invisibile, senza trama.

    Le strade deserte e silenziose. La città addormentata, buia e deserta, lascia il posto alla campagna. Alcuni chilometri percorsi nel buio assoluto; poi una fioca luce, il portone di una chiesa. Si fermano. E’ il sagrato della chiesa di una frazione, quattro case appena fuori dalla città. Da direzioni diverse arrivano altre due macchine scure in tutto quel buio, ne scendono degli uomini. Anche Seneca è sceso, si stringono la mano.

    Gigi è rimasto al volante, e anche Giovanna resta in macchina, indecisa sul da farsi. Quelli là fuori le sembrano dei pezzi grossi, gente come Seneca insomma, di un livello superiore; per cui non si sente di mettersi in mezzo.

    Il tempo passa nell’attesa.

    Gigi lancia un richiamo trattenuto verso il lato dell’auto che dà sui campi, e un uomo subito emerge dall’oscurità per un cenno di saluto. Ha una pistola in mano. Nascosti intorno aspettano molti altri uomini armati, in silenzio, protetti dalle tenebre.

    Il tempo passa ancora, sono le tre. Giovanna appoggia la testa allo schienale dell’auto e chiude gli occhi.

    Seneca e gli altri, fuori, parlano e fumano. Uno ha preso a camminare avanti e indietro, sta perdendo la pazienza, evidentemente.

    «…Avevano detto alle due e mezza!» impreca a voce troppo alta. Seneca con un gesto espressivo gli intima di tacere, e, a quel punto, arrivano.

    Prima si vede il cono giallo dei fari, è una macchina nera come le altre, anonima. Si ferma, spegne il motore. Subito dietro una camionetta della Wehrmacht, è li dentro che stanno i prigionieri.

    Poi un’altra macchina simile alla prima. Ne scendono degli uomini armati, Giovanna lo vede subito, sono italiani.

    Nella lista, Giovanna lo sa, ci sono i nomi di sei prigionieri.

    C’è un momento di tempo sospeso, di calma irreale ed è esattamente quando tutti sono ai loro posti fermi ad aspettare, Seneca e i suoi da una parte, i tedeschi dall’altra, gli italiani in mezzo che vorrebbero fare gli interpreti ma nessuno parla e non c’è niente da dire, tutto è immobile come in un quadro. Gigi allora scende dalla macchina e anche Giovanna, ed è a quel punto che dalle auto scure escono i tre ufficiali della Wehrmacht, e il tenente della SD. Giovanna vede che sono in buone condizioni, solo un po’ ingobbiti tutti e quattro, come se il tempo per stare con le spalle dritte fosse ormai trascorso.

    Ma è solo un cambio di auto, da un’auto nera a un’altra auto nera, i prigionieri tedeschi spariscono subito alla vista prendendo posto sui sedili, in silenzio.

    Alcuni soldati della Wehrmacht scendono dalla camionetta, uno fa un cenno.

    Ed è allora che, uno alla volta, prendono a scendere a terra uno, due, tre, quattro, cinque prigionieri, qualcuno più giovane e qualcuno più vecchio, uno appare malfermo sulle gambe, un altro socchiude gli occhi come se la luce fosse troppa invece che poca, e Seneca e gli altri prima di precipitarsi a stringere loro le mani scorrono la lista dei nomi, è ancora presto per mandare al diavolo la tensione, ne manca uno.

    Arriva un comando secco in tedesco, e i due soldati tornano dentro, dove non si vede nulla. L’ultimo prigioniero devono portarlo fuori a braccia, e Giovanna intercetta lo sguardo di Seneca e trattiene il respiro, lo capisce, è il suo.

    I soldati lo lasciano lì in mezzo, contemporaneamente lo lasciano, e lui non sembra in grado di stare in piedi. Però non cade, inciampa nei suoi passi ma mantiene chissà come l’equilibrio.

    Oddio, pensa Seneca, mentre il ragazzo forse lo riconosce o forse è soltanto la persona più vicina, comunque avanza verso di lui e Seneca vede subito che zoppica vistosamente, tiene il braccio sinistro premuto contro il fianco e non lo muove, e la testa è

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