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Sarò la tua ossessione
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E-book268 pagine4 ore

Sarò la tua ossessione

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Info su questo ebook

L’avventura di Elisabetta, donna affascinante, decisa e sicura di sé, inizia il giorno del suo matrimonio. In quella chiesa, davanti all’altare, accanto a colui che sarebbe diventato suo marito, un pensiero subdolamente cresce sino a invadere la sua mente: un forte, intenso, piacevole desiderio di tradire, un bisogno senza vergogna che la divora giorno dopo giorno con ingordigia il fisico e la mente. Determinata a insinuarsi nelle famiglie altrui per conquistare i mariti di altre donne, progetta e mette in pratica strategie e tattiche per ammaliare uomini sposati, non fermandosi davanti a niente nemmeno al di fronte al pensiero di uccidere.
Inizialmente innamorato di lei, Ivano, un suo collega, capisce ben presto che Bet trama qualcosa e decide di indagare partendo dagli indizi criptici nell’agenda rossa di lei. Grazie alla giovane amica Alice, l’uomo scopre la vera natura della collega e rivaluta il valore della famiglia.

Clio Petazzoni vive e lavora fra la maestosità delle Alpi Apuane e la serenità del mare della Versilia. Nata a Ferrara, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, gode della rinascita industriale della città, prima di trasferirsi definitivamente in Versilia, di cui presto diventa cittadina adottiva, appassionata e fortemente attaccata. Dopo una vita di lavoro e di viaggi, grazie ai quali ha avuto modo di visitare le più belle e solari parti del mondo, inizia a raccontare e a raccontarsi, e, ispirata dal mare che vede aprendo la finestra, condivide con gli altri quello che ha nel cuore. La sua famiglia, i valori che l’hanno accompagnata nella vita, il profumo della cucina emiliana e il piacere dell’ospitalità radicata nella sua origine, sono parti integranti del suo primo lavoro, nel quale racconta anche di sé stessa, delle battaglie che ha vinto, delle soddisfazioni e dei successi che ha avuto.
Il suo primo libro Aspettando Natale, edito Europa Edizioni, è stato tra i finalisti del premio letterario “Il Giovane Holden” 2020 con la consegna del Diploma d’Onore, ha ricevuto il Riconoscimento di Merito dal Premio Internazionale “Città della Rosa”, l’Attestato di Merito del Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti”, la Menzione d’Onore al Premio Intercontinentale “Le Nove Muse”.
Il suo racconto L’Accumulatrice seriale è risultato finalista al Premio Letterario Nazionale “Giovane Holden” e inserito nell’antologia “I Giovani di Holden” vol. 7.
Alcuni dei suoi racconti, come Ninì e la gabbia a righe, Il mio amico sincero, La gioia dell’acqua e La ragazza del carillon sono disponibili sul suo sito www.cliopetazzoni.it.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9791220135306
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    Sarò la tua ossessione - Clio Petazzoni

    Capitolo uno

    Ivano

    Quel lunedì mattina Ivano aspettava con ansia l’entrata di Elisabetta in ufficio. La sua era un’attesa nervosa, impaziente, si tormentava le unghie con i denti. Fosse stato per lui, avrebbe eliminato il sabato e la domenica per passare tutto il tempo al lavoro con lei.

    Il suo era un amore a senso unico.

    Si accontentava di condividere con lei la stessa stanza, di sentire il suo odore, di maneggiare le sue penne, rovistare nel suo cassetto, guardare le sue pratiche, sfiorare la sua scrivania.

    Ultimamente, Ivano aveva preso l’abitudine di uscire dopo di lei per sedersi al suo posto di lavoro e poter toccare tutto, impugnare la sua penna preferita e aprire la sua agenda.

    Elisabetta spesso aveva lo sguardo perso nel vuoto e in quei momenti prendeva una penna o una matita e lasciava la sua mano libera di tracciare linee senza senso o disegni ben definiti sull’agenda, oppure riempiva spazi con punti o parole che per lui non avevano alcun significato.

    Ivano toccava quei fogli, senza sgualcirli, come se fossero sacri. Apriva le pagine a caso, le guardava e poi si soffermava sull’ultima. A volte, capitava che facesse tardi da un cliente e rientrasse direttamente a casa, senza poter ripassare dall’ufficio e quello lo faceva sentire male. In quelle occasioni si sentiva incompleto, curioso come un bambino a cui veniva negato di aprire un pacco regalo per vederne il contenuto. La sera dopo, però, era ancora più eccitato. Prima di aprire l’agenda alle ultime pagine, la odorava e se la stringeva con amore al petto, nell’attesa di scoprire quello che lei aveva scritto. Leggerla era sempre interessante. La parte degli appuntamenti di lavoro era piuttosto chiara, ma perlopiù Elisabetta la usava come diario personale. Lì vi era contenuta tutta la sua vita privata, i suoi sentimenti, ed erano proprio quelli che a lui interessavano. La sua scrittura non era mai chiara e semplice, come una normale donna fa quando si racconta. Quelle pagine erano maledettamente criptiche, fatte di parole sparse, numeri, disegni e lui si trovava spesso a risolvere quei rebus per giorni e giorni. Voleva sapere tutto di lei, tutto ciò che, ingannevolmente, teneva nascosto, perché era sicuro che, sotto quell’aspetto tranquillo e mansueto, si celasse una donna voluttuosa e, forse, in quella sua sfera privata ci sarebbe stato posto anche per lui.

    Ivano ricordava con minuzia di particolari ogni pagina che lei scriveva, così da riconoscere facilmente il nuovo scritto. Ogni foglio aveva una sua personalità. Le parole e i disegni non erano mai omogenei: non seguivano nessuna regola di uniformità, sia nella forma scritta e disegnata, sia nei colori dei pastelli con cui riempiva spazi vuoti o con cui sottolineava qualcosa per metterla in rilievo, per evidenziarla, ma anche il suo contrario, cancellarla, come se dovesse non solo eliminarla dalla pagina appena scritta, ma estrometterla dalla sua mente. Non ritoccava mai le pagine precedenti: le creava di nuovo, senza questo o quel particolare e colore. Ogni foglio era un pezzo unico e nella sua accozzaglia prendeva le sembianze di un quadro di particolare pregio e valore. Quando non trovava niente di nuovo si faceva prendere dal panico e, con la velocità con cui smazzava le carte, così sfogliava quelle pagine cercando di scorgere qualcosa che lo colpisse di nuovo rispetto a quello che già sapeva. Nell’attimo che riconosceva la nuova scrittura, lisciava con la mano la pagina quasi ad accarezzarla. Sapeva che anche lì c’era il trucco e la soluzione era a portata di mano, bastava guardare attentamente e saper interpretare quei segni per capirne il significato.

    Tutti la chiamavano con il diminutivo di Betty, ma lui la chiamava Bet perché voleva un nome tutto suo, lei era sua.

    Quel rettangolo rosa disegnato, con la scritta Ti voglio, lo lasciava perplesso. Avrebbe venduto l’anima per sapere chi fosse l’oggetto di quella bramosia intensa. E se fosse stato lui l’uomo che Bet desiderava? Certo, quella frase imperativa non poteva riferirsi al marito, quello lo dava per scontato, né poteva essere rivolta a un oggetto o un bene di lusso, poiché aveva già tutto: di conseguenza, quella espressione di forte volontà era sicuramente rivolta a un uomo. D’altra parte, anche lui, solo guardandola, aveva pensato mille volte alle stesse parole: Ti voglio. E poi, pensandoci bene, c’era anche un indizio da non trascurare, che rafforzava la sua interpretazione: Bet stava diventando ogni giorno più bella, ogni giorno più curata, sempre più attenta ai particolari. Toccò, quasi a consumare, quella pagina che esprimeva un desiderio così forte, così ansioso e avido. Appoggiò il viso a quel foglio e chiuse gli occhi. Avrebbe voluto essere un sensitivo, e forse un po’ lo era, sentiva energie positive, sentiva il cuore di Elisabetta battere forte. E batteva anche il suo.

    Chiuse l’agenda. Avrebbe percorso il tragitto per andare a casa immerso nel traffico milanese per poi rilassarsi davanti al computer.

    Entrando, la sua gatta, Luna, gli venne incontro fermandosi a un passo da lui. Era buffa, faceva così tutte le sere. Si sedeva con le zampe davanti ferme come due colonne e con quel musino impertinente, le orecchie dritte, lo guardava fissandolo negli occhi. Allora lui si chinava ad accarezzarla e, mentre lei si alzava e inarcava la schiena, la prendeva in braccio e percorreva tutto il corridoio sino ad arrivare alla camera dove si sarebbe cambiato. Prima di tutto voleva mettersi comodo, che per lui voleva dire indossare il pigiama e un paio di mocassini vecchi di camoscio con il tallone ripiegato a mo’ di ciabatta, tanto non sarebbe andato nessuno a trovarlo. Luna miagolando reclamava il suo cibo e anche lui incominciava ad avere un po’ di fame, ma come tutte le sere non aveva voglia di mettersi ai fornelli. Per lui era una cosa molto gravosa e quando andava al supermercato in via Papiniano cercava di prendere quel cibo da single, ovvero quelle cose già pronte solo da riscaldare nel microonde. Per fortuna a pranzo aveva mangiato con Elisabetta e quindi sarebbe bastata solo una pizza per cena, da consumare comodamente davanti al computer. Spesso mangiava con lei nella pausa pranzo, perlopiù prendevano un primo al bar, al posto del solito panino.

    Aprì il frigorifero, prese la busta del latte e lo versò nella ciotola di Luna, poi ne versò una quantità generosa in un bicchiere da birra, per sé. Schiuse l’anta della dispensa e aprì una scatoletta di salmone scelta fra le tante confezioni di cibo per gatti che teneva di scorta, dopodiché prese la bottiglia di menta Fabbri. La versò nel suo latte e con un lungo cucchiaio girò fino a ottenere un colore verde tenue. Quella sarebbe stata la sua cena insieme a un pezzetto di pizza. Si mise a sedere alla scrivania sulla comoda sedia girevole.

    Girando su se stesso si voltò verso la parete opposta ad ammirare il quadro componibile che aveva creato. Quel quadro era il suo orgoglio.

    Si era ispirato ad Andy Warhol e alla sua Pop Art. Anche Ivano aveva la sua Marilyn Monroe, la sua musa ispiratrice.

    Le aveva chiesto, un giorno in ufficio, se le poteva scattare una foto con il telefonino per poterla mettere come icona del suo contatto. Lei naturalmente, presa dal suo ego, era stata ben contenta di farsi fare uno scatto, a patto che potesse andare in bagno a sistemarsi un po’. Al ritorno era bellissima, ammaliante come una dea. Si era spazzolata i capelli e i suoi riccioli biondi erano scesi morbidi sulle spalle. I suoi occhi erano azzurri e limpidi, accentuati dalla matita blu che aveva passato sul bordo della palpebra. Le labbra erano voluttuose e sensuali ammorbidite dal gloss rosa e attiravano il suo sguardo che non riusciva a muoversi da quella bocca, che avrebbe voluto baciare all’infinito con passione, abbandonandosi voluttuosamente a quel piacere carnale.

    «Ivano… allora?»

    «Scusa, scusa. Sei bellissima! La tua bellezza mi sconvolge sempre.»

    «Dai, smettila di fare l’adulatore e scatta questa foto.»

    ***

    Guardando dentro l’obiettivo prendevo tempo, perché volevo essere sicuro della bella riuscita dello scatto. Avevo una sola possibilità, non mi avrebbe permesso di farla rimettere in posa.

    Mi batteva il cuore. Dai, mi dicevo, scatta ora, e poi clic, fatto.

    Quel giorno non vedevo l’ora di ritornare a casa e di scaricare quell’immagine sul mio computer, avrei tralasciato per una volta di guardare il suo diario.

    Battevo la matita sulla scrivania, la facevo scomparire e apparire. Guardavo Bet mentre era al telefono con un cliente. Ero invidioso, avrei voluto essere io il suo cliente, invece di essere il suo collega. Nonostante mi facessi sempre in quattro per lei, Elisabetta era sempre un po’ reticente ad aprirsi del tutto. Non riuscivo a entrare in confidenza a sufficienza per ritenermi l’amico del cuore, se non addirittura il suo focoso e appassionato amante. Rimanevo in quel limbo che mi faceva soffrire, non avevo mai l’occasione per rivelarmi a lei o, forse, non ne avevo il coraggio.

    L’unico nostro momento di intimità era la sera. Io davanti al mio computer e lei che mi guardava dallo schermo. E, finalmente, eravamo uno davanti all’altra.

    La guardavo e studiavo il suo viso, accingendomi a iniziare la mia sessione artistica: di quella fotografia cambiavo i colori dei suoi capelli, del suo volto e delle sue labbra, adattandoli ai colori del trucco del giorno, e per lo sfondo usavo il colore del completo pantalone indossato. Non portava mai gonne e vestiti in ufficio, solo tailleur pantaloni, e non le avevo mai visto le gambe, ma le immaginavo lunghe e snelle: le avrei volute tanto accarezzare. Oltre a sentirmi un artista intento a colorare sempre la stessa immagine, mi sentivo un po’ bambino come quando mia madre, mentre cuciva, mi teneva al tavolo con l’album da colorare con i miei pastelli a cera.

    E ora ero lì, a richiamare alla mente la nuance del suo rossetto. Aprivo la cartella dei colori in cerca di quella sfumatura di rosa ciclamino che tanto bene si abbinava al foulard fantasia che riempiva il collo del suo tailleur grigio chiaro. Lo sfondo lo tingevo di grigio perla come il suo tailleur, la pelle avorio e i capelli di un bel color cioccolato come la bevanda calda della macchinetta dell’ufficio versata nel bicchiere di plastica che le avevo offerto, nel pomeriggio, posandola sulla sua scrivania. Grata di quel gesto, lei aveva alzato il viso e con un sorriso provocante si era accostata le dita alle labbra soffiando un bacio, con malizia, verso la mia persona. Quel gesto civettuolo, destinato solo a me, mi aveva scatenato dentro un irrefrenabile desiderio fisico, un’eccitazione mentale che dovevo invece tenere a bada, ma che, finalmente ora, solo a casa, potevo fare esplodere senza vergogna. Poi, finito di riempire di colore l’immagine del giorno di Bet, mi appoggiavo allo schienale, appoggiavo i gomiti sui braccioli e, unendo le mani sul ventre, mi dondolavo un po’, guardandola fissa negli occhi, aspettando uno sbattere di ciglia.

    Il resto era un gioco da ragazzi, bastava girare quei quattro colori nelle altre tre immagini e stamparle con la mia stampante ad alta risoluzione. Mentre i fogli uscivano uno dopo l’altro, mi alzavo a tirare via il quadro dalla parete appoggiandolo a capo in giù sul lungo tavolo di legno di quella grande stanza che faceva da studio, sala, salotto, angolo cucina e che era il mio regno da single. Dietro, ai quattro lati della cornice, avevo fissato quattro robusti elastici che tenevano stretta quella copertura in plexiglass dove appoggiavo ogni sera le nuove icone di Bet per poi facilmente e rapidamente richiudere il quadro e riappenderlo. Seduto sul pavimento a gambe incrociate guardavo il mio capolavoro. Giravo il capo da destra a sinistra e viceversa per sciogliermi il collo e le spalle, consapevole della grande opera che avevo fatto. Ora bisognava creare l’atmosfera giusta.

    ***

    Alzatosi in piedi, Ivano andò verso lo stereo e, una volta acceso e infilato il suo cd preferito, quello di Bryan Ferry, lo mise sulla traccia preferita schiacciando il tasto repeat. Le note della canzone del film 9 settimane e ½ rilasciavano sensualità e potenza riempiendo la stanza. Si versò un altro po’ di latte e ritornò nella sua posizione di meditazione. Bet, amore mio, come vorrei che tu fossi qui, in quel momento sentì un rumore provenire da fuori, un tintinnio di chiavi. Si girò verso la porta che si stava aprendo e vide spuntare la testa di Alice.

    «Ti disturbo? Sono appena stata lasciata… Mi sento uno straccio, sono devastata…»

    Quello era il prezzo da pagare quando si lasciano le chiavi di casa all’amica di pianerottolo per guardarti il gatto mentre sei fuori per lavoro.

    «Alice, vieni qua! Cosa è successo? Come è possibile che tu sia stata lasciata se non hai ancora il ragazzo? Sei una ragazzina, hai le gambe storte, chi vuoi che ti guardi.» Alice entrò a piedi scalzi con il suo peluche preferito in braccio, un cucciolo di Rottweiler, e lo seguì sul divano. La gatta vedendo il suo nuovo amico di giochi si avvicinò e saltò in mezzo a loro e incominciò a leccare il musino di quel piccolo peluche di cane.

    Dimenticando completamente Bet, Ivano si fece abbracciare da Alice. Le accarezzò la testa scompigliando quella massa di riccioli incolti. «Raccontami chi è questo lui che ti ha lasciato, che ci penso io a dargli un pugno sul naso. Questa volta è un compagno di classe o uno di cui ti sei innamorata a prima vista al supermercato? Non puoi innamorarti di tutti.»

    Alice, come tutte le adolescenti, era quasi sempre innamorata. Tutti amori impossibili, attori, cantanti, modelli e solo di tanto in tanto qualche ragazzotto conosciuto a scuola. Ma era ancora una donna acerba e, anche se si stava avvicinando alla maggiore età, dimostrava meno dei suoi anni ed era ancora circondata da ogni tipo di peluche.

    Gli faceva tenerezza, il suo bisogno di attenzione e amore era immenso.

    Unica superstite di un incidente stradale dove avevano perso la vita i genitori, era stata accolta dalla zia, rimasta vedova da poco, che aveva trovato nella nipote un nuovo motivo di vita.

    Mancava una figura maschile in quella famiglia e Alice, Ali per gli amici, viveva in un mondo tutto suo, alla ricerca di qualcuno che la coccolasse. Ma aveva una mente pronta e brillante e colmava con la maturità quello che non si era ancora sviluppato nel fisico. Ivano era sempre felice di vederla e faceva di tutto per ascoltarla e darle consigli, ma quel ruolo di amico-padre era gravoso per lui, non lo sapeva fare.

    «Hai capito, Ivano, che sono stata lasciata dal Barone Rosso?»

    «Dal Barone Rosso?» rispose facendo una faccia stupita. «Caspita! E chi è costui?»

    «È uno strafigo! Lo chiamano così perché viaggia sempre con il suo skateboard rosso lacca. Pensa, mi ha detto che lo porta anche a letto con lui. È un ragazzo bellissimo e spiritoso. Sentire il suo skate che si sta avvicinando, prima ancora di vederlo arrivare, mi fa battere forte il cuore.»

    «Ma c’è qualcosa fra voi?»

    «Sì certo. Ci siamo dati un bacio!»

    «E poi?»

    «Poi basta, mi ha mollata. Il giorno dopo sono corsa da lui per accoccolarmi fra le sue braccia, con le labbra protese verso le sue, in attesa di quella nuova bella intimità. Lui, invece, mi ha preso dolcemente il mento, abbassandomi il capo, e mi ha schioccato un bacio sulla fronte. L’ho guardato con gli occhietti di un gattino abbandonato. Lui ha ricambiato il mio sguardo e mi ha detto che non sono la ragazza adatta a lui, sono troppo piccola, e che quel bacio era solo una forma di affetto, di ringraziamento per essere sempre presente mentre lui e la sua band fanno le loro evoluzioni, i loro salti sulle panchine del parco. È stato molto sincero con me: mi ha raccontato di aver già una ragazza, di essere fidanzato in casa e che presto me l’avrebbe presentata.»

    «Ali, devi capire» spiegò Ivano, «che può capitare di innamorarsi di una persona e di non essere contraccambiati, anche se, a dir la verità, a te succede troppo spesso, ma è la vita, ti devi abituare. Anch’io non ho fortuna in amore».

    «Ivano, ma io ti voglio bene! Tanto bene: lo sai.»

    «Dammi retta: voler bene è una cosa; l’amore è un’altra, e anche quello verrà, a suo tempo. Però sono contento del Barone Rosso, è un bravo ragazzo, ti ha detto la verità, senza ingannarti e approfittarsi di te. Ascolta Ali» proseguì con tono serio, «queste cose, se non le confidi alla zia, le devi dire a me. Voglio sapere dove vai e chi frequenti».

    «Allora ti preoccupi per me! Allora anche tu mi vuoi bene.» E lo abbracciò.

    «Ora è tardi Alice. Vai a letto di corsa!» enunciò con fare finto burbero.

    Rimasto solo ripensò a lei, al bene che le voleva, al pericolo di essere da sola in un mondo insidioso.

    Capitolo due

    Elisabetta

    Sto perdendo la pazienza, eccome se la sto perdendo…

    Questo tormento mi sta divorando con ingordigia il fisico e la mente come una fiera affamata e mai sazia. L’idea di averti riempie tutti i miei giorni e le mie notti. Ogni minuto della mia giornata è pieno di te. Aspetto da troppo tempo il momento di mettere in atto il mio piano, se di questo si tratta e non di una ragionata follia.

    Ti voglio a tutti i costi, anche se so che dovrò dividerti con la tua famiglia.

    Anzi, la tua famiglia sarà anche la mia, te lo prometto, nessuno se ne accorgerà, ti assicuro, e finalmente sarete miei, tutti miei. Sì, se saprò aspettare ancora un po’ ti farò cadere nella mia trappola, nella mia ragnatela e finalmente sarai la mia preda, paralizzata, immobilizzata, totalmente mio, anzi, sarete totalmente miei.

    Non potrai stare senza di me, avrai bisogno del mio corpo come un neonato ha bisogno del seno materno. Solo io ti saprò dare ciò di cui hai bisogno, e anche di più. Entrerai in un mondo fantastico dove i tuoi sogni più profondi diventeranno realtà, ma senza accorgerti passerai da una piccola porta e ti troverai in un mondo totalmente irreale.

    Sarò totalmente tua. Sarò amica, linfa e amante segreta.

    Ti stupirò, stringendoti fra le mie braccia. Allevierò i tuoi dolori, ti imprimerò forza e sostegno. Marchierò a fuoco sul tuo cuore il mio nome, il mio amore, e sarò la tua musa ispiratrice.

    Sono consapevole di esserne capace, ho l’astuzia giusta per ingannare. Questo è il mio segreto e lo condivido solo con me stessa.

    Sarai la mia vittima. Ti ho cercato, ti ho voluto, ti ho plasmato nella mia mente e ti troverò in mezzo a tanti altri uomini. Nasce così la mia sfida, e più sarà difficile catturarti e conquistarti più caparbia e testarda diventerò.

    Ma quando arriverà questo momento? Non posso più aspettare, devo agire in fretta. Ci vogliono azione, fermezza, lucidità e tanta furbizia e di quella ne possiedo in abbondanza.

    Capitolo tre

    L’obiettivo

    L’avventura di Elisabetta iniziò il giorno del suo matrimonio.

    In quella chiesa, davanti all’altare, accanto a colui che sarebbe diventato suo marito, dentro di sé si era formato un pensiero. Subdolamente era cresciuto piano piano, sino a invadere la sua mente e infine ad apparire chiaro. Era un forte, intenso, piacevole e caldo desiderio di tradire, un bisogno senza vergogna. Era iniziato plasmandosi come un’ameba che cambia il suo aspetto, che si ingrandisce e si trasforma, nutrendosi delle sue angosce e dei suoi desideri. Era nato in sordina e poi, sviluppatosi in maniera dirompente, aveva incominciato a pulsare dentro di lei. Cosa le stava succedendo? Voleva vomitare quel pensiero, voleva espellere quel parassita, voleva urlare, voleva scappare da quel luogo sacro.

    Era solo un capriccio? Una necessità di conquista? No, era molto di più, lo sentiva, era una bramosia spasmodica di conquista che si era impossessata delle sue membra e della sua anima.

    E fu proprio in quel momento che, determinata, prese la sua decisione. Avrebbe vissuto con un unico scopo: appropriarsi dei mariti di altre donne e delle loro famiglie.

    Forse, però, pensandoci bene, quel sentimento che unificava potere, protagonismo, accentramento, pazzia, si era insinuato e sedimentato dentro di lei, in modo inconsapevole, non lì sull’altare quel giorno, ma molti anni prima.

    Quella voglia di potere,

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