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Una vita come la tua
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E-book247 pagine3 ore

Una vita come la tua

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Info su questo ebook

Liberamente ispirato a recenti fatti di cronaca (ma con personaggi e situazioni di pura fantasia) il romanzo offre uno spaccato della professione forense vista dal suo interno e di chi, ogni faticoso giorno, cerca di sopravvivere al mondo della (in)giustizia. Ma soprattutto è il racconto del rapporto di un padre con suo figlio e di un amore reciproco forse mai perduti, ma sicuramente rinnovati dalla ricerca della propria identità e del senso perduto delle cose.
Una vita come la tua, vincitore del Premio “Il Dubbio – Letteratura per la giustizia”
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2023
ISBN9791222080086
Una vita come la tua

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    Anteprima del libro

    Una vita come la tua - Domenico Tomassetti

    Prefazione

    Che c’entra un concorso letterario con gli Avvocati?

    Tutto c’entra con gli Avvocati, anche un concorso letterario.

    Un avvocato è una persona che ha scelto di dare assoluta priorità, nel lavoro come nella sua vita quotidiana, alla tutela dei diritti, al rispetto della libertà di pensiero e di parola di ciascuno, all’indipendenza da vincoli gerarchici, obblighi e necessità economiche o conflitti di interessi nell’esercizio della difesa.

    Un avvocato è un tecnico del diritto e delle sue regole, e la sua competenza spesso si misura con la sua capacità di parola, orale o scritta, che è lo strumento con cui interloquisce con chi dovrà giudicare, tecnico a sua volta. Ma grazie alla parola l’avvocato può e deve saper far comprendere l’importanza dei valori che difende e la complessità delle pratiche per attuare tale difesa.

    Grazie alla parola, ed alle espressioni letterarie più consone, come quelle adottate nella scrittura di un romanzo, l’Avvocato rende più facilmente accessibile il mondo giudiziario a coloro che tecnici non sono i quali, grazie alla lettura dell’opera, si avvicinano ai temi del diritto ed in generale al mondo forense.

    In questa prospettiva sono paradigmatiche le selezioni del primo concorso Fai – Il Dubbio inaugurato in occasione del Salone del Libro 2021, perché hanno premiato nelle va rie categorie – romanzo racconto e poesia - proprio quelle opere che, pur scritte da tecnici, offrono scorci di vita ricchi di umanità, e nel filo narrativo privilegiano proprio il fattore umano tanto ricco di sfaccettature, con le sue peculiarità e le sue debolezze, spesso sorprendenti rispetto a quella determinata sicurezza che nell’immaginario caratterizza il difensore dei diritti.

    L’operazione – vincente – è quella di far cogliere a tutto tondo, a seconda del tema trattato, ricchezze e povertà, successi e sconfitte, certezze e dubbi, verrebbe da dire gioie e dolori, del mondo che l’Avvocatura vive quotidianamente.

    Il romanzo vincitore, delinea una trama credibile e coinvolgente grazie alla figura di un avvocato che perde la memoria di una porzione della sua vita, ma non le competenze giuridiche e le ragioni che lo hanno portato a scegliere la professione forense.

    Il mondo degli affetti quotidiani risulta sconvolto e disperso, ma l’identità di avvocato resta salda e orienta il percorso del protagonista, che si affida al figlio per ricomporre i dieci anni perduti. Paradossalmente, proprio grazie alla perdita di memoria il rapporto tra figlio e padre, intessuto da dialoghi fitti e credibili, si fa inedito e vero, al punto che entrambi troveranno la propria strada.

    In equilibrio tra vicende private e professionali, tra il mondo di mezzo del protagonista e quello di Roma capitale, il romanzo sa tradurre con efficacia la giustizia e il diritto in realtà narrata; e ci regala un’acuta riflessione sui fondamenti deontologici della professione forense, basata sul valore della parola esatta e migliore [1] .

    Francesca Sorbi

    FAI (Fondazione Avvocatura Italiana)


    Ad Antonio e Pietro per i quali è stato scritto

    A Francesca senza la quale non sarebbe stato pubblicato

    Il passato non è morto, anzi, non è neppure passato.

    William Faulkner

    Con quale frequenza raccontiamo

    la storia della nostra vita? Aggiustandola,

    migliorandola, applicandovi tagli strategici…

    la nostra vita non è la nostra vita,

    ma la storia che ne abbiamo raccontato.

    Agli altri, ma soprattutto a noi stessi.

    Julian Barnes

    I

    Il dovere di ricordare

    Roma, 21 febbraio 2016

    «Dovrei ricordarmi qualcosa che riguarda noi due? Io e te? Insieme?» chiede Marco, così, quasi all’improvviso, seduto, anzi sdraiato sul divano dell’ampio e soleggiato salone della casa di via Valadier, quartiere Prati. In mano ha il cellulare su cui ogni tanto poggia lo sguardo, distratto.

    «Così ha detto il medico. L’hai sentito? c’eri pure tu» risponde Andrea, che continua a guardare gli oggetti di quella casa come se fosse la prima volta. Eppure quello è l’appartamento in cui ha vissuto negli ultimi venticinque anni, quasi la metà della sua vita.

    «A dire la verità non è che mi ricordi granché.»

    «E meno male che ero io quello con l’amnesia» sorride Andrea.

    Marco fissa dritto negli occhi il padre per qualche istante.

    «Io ci ho pensato e anche parecchio. Ma non mi viene in mente niente… Non abbiamo nemmeno quei ricordi tipo fiction Raiuno sul rapporto padre figlio… Non mi hai insegnato ad andare in bicicletta, non facevamo il bagno insieme

    al mare, non giocavamo quasi mai a pallone …»

    «E perché?»

    «Boh – risponde Marco. – Non sembravi molto interessato a queste cose.»

    «E a cosa ero interessato?»

    «Al lavoro soprattutto, ma anche a me… a modo tuo.»

    «Che vuol dire «a modo mio?»

    «Chiedevi, ti informavi.»

    «E tu rispondevi?»

    «Quando volevo, cioè finché ho voluto…» Marco si interrompe per rispondere a un messaggio WhatsApp.

    Andrea si alza dalla poltrona e cammina per il salone, arredato con mobili moderni, alternati con alcuni pezzi di antiquariato. È evidente il gusto femminile.

    «Così, però, non mi aiuti… e, se permetti, mi sembri anche un po’ ingeneroso.»

    «Con te?»

    Andrea annuisce, facendo una piccola smorfia con la bocca.

    «Può darsi. Ma le giornate passano veloci e spesso uno non ha il tempo di ricordare. E neppure di riconoscere meriti di chi ti sta vicino.»

    «Oddio che frasona, in una domenica pomeriggio: l’assoluto dei diciottenni… oppure sei davvero così?» gli chiede Andrea, guardandolo come se lo vedesse per la prima volta. «Così come?» Marco alza gli occhi dal cellulare.

    «Così freddo… Anzi, no: così intransigente.»

    «Non lo so – Marco è ancora concentrato sul cellulare, o forse fa solo finta di esserlo per evitare di guardare in faccia il padre. – Certo tu e i tuoi casini non aiutate…»

    «Io, che c’entro io?»

    «Non ti ricordi proprio niente?»

    «Non mi ricordo niente prima del risveglio in ospedale. Oppure sono ricordi lontanissimi nel tempo.»

    Marco lo guarda incredulo. I medici possono fare tutte le diagnosi che vogliono, ma a lui lo sguardo del padre sembra lo stesso che aveva il giorno prima dell’incidente.

    «Comunque una cosa me la ricordo, me la ricordo bene – aggiunge il ragazzo – il vostro matrimonio. Quante persone possono dire di essere state al matrimonio dei genitori? Io mi ricordo tutto: la chiesa, il pranzo, gli invitati, i nonni che mi hanno tenuto con loro… è stato un giorno felice. O forse ero solo troppo piccolo per capire se lo fosse davvero…» «Hai visto che qualcosa di memorabile c’era?»

    Marco si mette a sedere sul divano e, finalmente, appoggia l’iPhone sul tavolino davanti a lui.

    «Una volta, credo in seconda elementare, comunque ero piccolo, la maestra ci fece raccontare il giorno più importante della nostra vita…»

    «Che domanda è? – lo interrompe Andrea. – Si può chiedere a un bambino di sette anni quale sia stato il giorno più importante della sua vita? Io sono arrivato a cinquantacinque anni e non me ne ricordo uno.»

    «Eccola qua l’ironia del cazzo, adesso sì che ti riconosco! Bravo, stai tornando in te… e, comunque, di anni ne hai cinquantaquattro.»

    Andrea sorride al figlio: «Almeno avevo il senso dello humor.»

    «Vabbè, però se proprio dobbiamo fare ’sta cosa dei ricordi, fammi finire…»

    «Sì, scusa, hai ragione.»

    «Insomma a sette anni, a scuola, rispondo alla domanda della maestra e racconto il vostro matrimonio. All’inizio gli altri bambini non capiscono, poi succede il finimondo… Una bambina, quanto riescono a essere stronze le donne fin da piccole…» Mentre fa quel commento, Marco guarda il cellulare che sembra stranamente tacere.

    «Perché guardi il telefono mentre dici che le donne sono str… ane?»

    Marco sorride sinceramente «Mi fai finire ’sta storia?

    Sono tre giorni che penso a cosa raccontarti…»

    «Ok, ok… c’era questa bambina particolare.»

    «Stronza – ribadisce Marco con decisione. – Proprio stronza… Davanti a tutta la classe, dice che se vi eravate sposati solo dopo quattro anni che ero nato io, voleva dire che non vi volevate bene, che l’avevate fatto per mettere a posto le cose…»

    «Scusa, ma ’sta ragazzina era ripetente? Non si possono pensare queste cose a soli sette anni!»

    «Aveva solo sette anni.»

    «Davvero stronza» commenta Andrea. «E la maestra?»

    «Boh, chi se lo ricorda… Comunque era donna pure la maestra…»

    «Non ti ha risposto al messaggio, vero?» chiede Andrea sorridendo.

    Marco prende in mano il cellulare.

    «No… ma tu che ne sai?»

    «Be’ tutta questa misoginia…»

    Marco si alza con la scusa di prendere il telecomando e ricomincia il racconto.

    «Lasciamo stare… il punto è un altro. Torno a casa, pensando che la stronzetta avesse ragione, che tutti gli altri genitori si sposavano prima di avere figli e che noi eravamo una famiglia strana. Allora tu mi hai preso da una parte, insieme a mamma, ma ricordo bene che sei stato tu a parlare, e mi hai spiegato che una famiglia nasce dall’amore e non dal matrimonio, che noi ci volevamo un gran bene e che questo solo conta, perché l’amore conta…»

    Detto questo Marco si rituffa sul divano, cadendo « come corpo morto cade» 1 col telecomando in mano.

    «E questo ti tranquillizzò?»

    «No, per niente – sorride Marco. – Poi con il passare degli anni…»

    Andrea ricambia sinceramente quel sorriso.

    «Ma insomma, anche se non ti ho insegnato ad andare in bicicletta e non ho quasi mai giocato a pallone con te, sono stato un buon padre?»

    «No, questo non lo puoi pretendere. Già ti devo aiutare a ricostruire il tuo passato, che poi non sono nemmeno così sicuro che sia una buona idea… Non puoi costringermi pure a dire che sei stato un buon padre. Ho solo diciotto anni, è troppo presto: di solito queste cose si ammettono dopo la sepoltura del genitore… eventualmente, peraltro.»

    Marco accende la televisione. Sullo schermo le immagini dello stadio Olimpico che canta l’inno di Venditti: «… core de

    ’sta città… unico grande amore…» «Te la vedi la partita?» chiede Marco.

    «Lo facevo?»

    «Sempre, quelle della Roma.»

    «Ero romanista?»

    «Sei romanista! Mi hai portato spesso allo stadio quando ero piccolo… anche bei momenti» chiosa Marco con la stessa ironia del padre.

    Andrea si siede accanto a lui. Chissà se con il passare degli anni quel modo di scherzare lo avrebbe aiutato o sarebbe diventato la prova definitiva della sua incapacità di adeguarsi al mondo che lo circonda? Sembra un marchio di famiglia. Andrea lo conosce bene. È una delle poche cose che ricorda.

    La partita, intanto, « procede stancamente, la Roma stenta a verticalizzare il gioco e a rendersi pericolosa» commenta Caressa; « hai ragione, Fabio, manca la ricerca della verticalità, perfino nelle transizioni, figuriamoci quando la squadra attacca a pieno organico» conferma Bergomi.

    Marco, alquanto deluso soprattutto dalla mancanza di risposte sul telefonino, non sembra così concentrato sull’incontro.

    «C’è una cosa che dicevi spesso – si volta a guarda il padre negli occhi. – Era una specie di mantra quando parlavo male o sbagliavo qualcosa. Dicevi che chi parla male, pensa male, che le parole sono importanti, credo fosse una citazione di un film. Bisogna avere l’orgoglio delle proprie parole.» pronunciando quest’ultima frase fa il verso al padre.

    «Orgoglio delle proprie parole?»

    «Sì, dicevi che le parole sono le uniche cose che ci possono donare integrità, restituire innocenza, allontanare dai compromessi… Poi scherzavi e dicevi che due cose ci allontanano dai compromessi: le parole e il sesso. Più le parole, però anche il sesso.»

    «Ma che significa?»

    «Non l’ho mai capito, nessuno l’ha mai capito.»

    « EE-D-WIN—DZE-KO, la Roma è in vantaggio» irrompe la voce di Caressa.

    Marco salta in piedi e abbraccia il padre.

    «E daje, mica può sempre dicce male!»

    «Sono contento – sorride Andrea – non so perché ma sono contento.»

    Marco sembra improvvisamente felice.

    «Segna la Roma e sei contento: vuol dire che stai guarendo!!!»

    II

    Onestà

    Roma, 15 novembre 2015

    Rivestirsi, a volte, è più imbarazzante che spogliarsi. Forse perché percepisci l’inutilità di quello che hai appena fatto.

    Per fortuna è quasi buio e questo aiuta.

    Valentina ha 45 anni ed è ancora un bella donna.

    Andrea, che di anni ne ha una decina in più, fa la sua figura, ma in giacca e cravatta.

    Sarà per questo che non si spoglia mai completamente; o forse è perché si vedono nello studio di lei, dopo le 21, quando sono andati via tutti.

    «Io non capisco perché non vuoi che mi trasferisca a studio da te: hai due stanze libere, mi porto pure la segretaria: ci guadagni in tutti i sensi» e lo dice, con voluta malizia, mentre si riallaccia il reggiseno.

    «Perché il cane dove mangia non fa la cuccia.»

    «Le grandi frasi dell’avvocato Armati – ironizza Valentina. – Ma scusami, tu mi giri il penale che non sai fare e io faccio lo stesso con l’amministrativo. Questa cosa va avanti da oltre cinque anni, ma teniamo aperti due studi a 100 metri di distanza uno dall’altro.»

    Andrea non risponde e, mentre si fa il nodo alla cravatta, si avvicina alla scrivania di lei dove campeggiano una serie di fascicoli poderosi, aperti in un apparente disordine.

    «Io ero venuto a parlare di altro.»

    «Certo, ma poi ti sei fatto prendere un po’ la mano» scherza Valentina.

    «Che ne pensi di quello che ti ho raccontato?»

    Valentina torna dietro la scrivania, inforca gli occhiali e ricomincia a fare l’avvocato, come se quello che hanno appena fatto fosse stato un puro esercizio fisico, senza altro senso che il gesto in sé: «Quelli sono la casta degli intoccabili per eccellenza… Non c’è mai stata un’indagine che sia andata in fondo…»

    Andrea è preoccupato anche se non vorrebbe darlo a vedere: «Saranno pure intoccabili, ma l’anno scorso, però, un giudice del TAR se lo sono bevuto, quello con quattro cognomi, Mirelli Pozzi…»

    «… Mazzanti vien dal mare – Valentina era anche simpatica, quando voleva. – Andrea, quello se la faceva con un capocosca della ’ndrangheta… è la conferma che non li toccano proprio. È come se gli avessero detto: fate un po’ il cazzo che vi pare, ma senza esagerare: la criminalità organizzata, no.»

    Andrea accende con il piede la piantana che illumina la stanza. Valentina, con un riflesso quasi pavloviano spegne l’elegante lampada da scrivania che prima era la sola luce a rischiarare la scena.

    «Il problema è un altro – afferma l’avvocatessa mentre mette nella sua ventiquattrore i fascicoli delle udienze del giorno successivo. – Perché lo dovresti fare?»

    «Perché me l’hanno chiesto i clienti – risponde Andrea – lo sai benissimo.»

    «Tu sei un avvocato onesto, lo sai benissimo – gli fa volutamente il verso. – Anzi, lo sanno tutti.»

    Andrea la guarda negli occhi, sa che Valentina ha ragione, che ha toccato il fondo del problema.

    «Chi sa di questa storia?» gli chiede.

    «Nessuno, cioè tu, io e i clienti.»

    «Allora rischi poco o niente; siete tutti nella stessa barca:

    questa è sempre una buona garanzia.»

    «Non decisiva, però» commenta Andrea.

    «Sì, non decisiva, ma piuttosto valida… D’altronde non c’è un investimento senza rischi. Puoi solo limitarli, i rischi.»

    Andrea è sempre più confuso. Valentina si avvicina e lo bacia da dietro sul collo.

    «Non mi hai risposto: perché lo vuoi fare?»

    «Perché ho paura di perdere i clienti. Sono stufi di prendere bastonate anche quando hanno ragione e altri «offrono questo servizio» – risponde Andrea con sincerità – sono il 40% del fatturato dello studio.»

    Valentina torna dietro la scrivania e chiude la sua borsa da lavoro.

    «L’onestà in questo paese non è un dovere civile, ma una scelta morale.»

    «Adesso è il turno delle grandi frasi dell’avvocato Giani.»

    «È la verità… La verità di venti anni di esperienza… Non c’è quasi mai sanzione effettiva per queste cose.»

    «La saggezza dei vecchi» scherza Andrea, mentre si infila il Fay per andarsene.

    Valentina lo accompagna verso la porta dello studio. «Fra tre settimane c’è la Champions.» Andrea la guarda perplesso.

    «Manchester-Juventus, in Inghilterra – continua Valenti-

    na. – Pierfrancesco ci va con i suoi amici.»

    «Orgoglio bianconero?»

    Valentina annuisce: «A Manchester, due giorni.»

    «E immagino che io abbia un’udienza fuori Roma gli stessi giorni?» domanda retorica dell’avv. Armati.

    «Sarebbe carino» chiosa l’avv. Giani.

    Andrea la bacia sulla bocca ed esce velocemente. Sembra quasi che scappi.

    Potrebbe prendere l’ascensore, ma scende per le eleganti scale con il poggiamano in malachite. Ha bisogno di muoversi, se potesse correrebbe. Si domanda se sia stata davvero una fortuna accorgersi, quasi cinque anni prima, che una delle avvocatesse più belle del foro di Roma rideva alle sue battute («Ironia del cazzo» la definirebbe suo figlio con inconsapevole precisione), lo guardava con ammirazione durante le udienze al TAR, leggeva i suoi atti con un’attenzione che nemmeno il giudice più onesto e volenteroso. E tutto questo dopo dodici anni di matrimonio, sedici di paternità e quasi una ventina vissuti con tua moglie. Si comincia con i messaggini, poi i pranzi «di lavoro» (c’era quel film francese divertente in cui il protagonista diceva « gli sposi cenano, gli amanti pranzano» 2) e la fine è nota…

    Adesso che è arrivato per strada, Andrea non si ricorda

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