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All'ombra dei fichidindia: Storie elbane quasi tutte vere
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E-book356 pagine5 ore

All'ombra dei fichidindia: Storie elbane quasi tutte vere

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Info su questo ebook

L’Isola d’Elba è nota per le sue spiagge multicolori, per i bellissimi fondali, ma l’Elba non è solo mare. È anche terra. Una terra nella quale un tempo si mandavano gli anarchici al confino, dalla quale si partiva per cercare una vita migliore al di là dell’Oceano e nella quale, nel primo Novecento, si consumarono aspre lotte sindacali tra i minatori e i padroni delle miniere.
Pier Luigi Luisi ricostruisce trenta storie dell’Isola d’Elba e dei suoi abitanti raccontandole con gusto, ironia e partecipazione; storie legate tra di loro, così da costituire un unico romanzo. Storie di un passato non troppo lontano, dalle quali emerge un vivido microcosmo di marinai, minatori e pescatori, di emigranti e di anarchici. La loro ricerca dell’avventura, dell’amore e della passione politica rappresenta il mondo intero e la vita stessa.

«Una saga familiare i cui protagonisti si passano il testimone, regalando punti di vista diversi delle vicende storiche. Un testo interessante e anche ben scritto»
Mangialibri

«Il lettore tocca la carne viva di un Paese in trasformazione, con la nascita dell’extra-parlamentarismo, con gli ultimi intellettuali battaglieri del movimento operaio. Una stagione politica che le pagine di Luisi ci aiutano a comprendere»
Sapereambiente

«Una storia familiare tutta da leggere, nella quale l’autore ritrova il proprio sé riflesso. Il viaggio ha inizio tra i ricordi propri e quelli di coloro che si sono avuti intorno, per conoscere l’essenza della nostra esistenza»
Sololibri
LinguaItaliano
Data di uscita9 feb 2022
ISBN9791220897457
All'ombra dei fichidindia: Storie elbane quasi tutte vere

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    Anteprima del libro

    All'ombra dei fichidindia - Pier Luigi Luisi

    All’ombra dei fichidindia

    All’ombra dei fichidindia

    Storie elbane quasi tutte vere

    PIER LUIGI LUISI

    Prefazione di

    Dante Isella

    Illustrazioni di

    Hong Zhang

    All’ombra dei fichidindia. Storie elbane quasi tutte vere

    © 2022 Pier Luigi Luisi. Proprietà letteraria riservata


    Copertina e illustrazioni di Hong Zhang

    Fotografie dagli archivi personali dell’autore

    Consulenza grafica: Valentina Marinacci

    Consulenza redazionale: Chiara Prex


    Il testo di questo libro elettronico non può essere riprodotto, adattato, trasferito, distribuito, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo, né in tutto né in parte, senza l’esplicito consenso dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo costituisce un illecito che sarà sanzionato secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Indice

    Prefazione

    di Dante Isella

    Presentazione

    di Paolo Ferruzzi, Accademia del Bello, Poggio, Isola d’Elba

    Prefazione dell’Autore

    PRIMA PARTE

    Maria isolina

    Filomena di San Piero

    Rositta

    Emilia di Grassera

    Ferro di Vigna

    Pietro e l’asino

    La domenica del riccio

    Pino il mozzo

    La magia nera

    Il viandante di Marciana

    Matrimonio a mezzanotte

    Maddalena la Siciliana

    Dalle stelle alle stelle

    Il grande sciopero

    Dopo lo sciopero

    SECONDA PARTE

    I fichidindia

    Enea e Anchise

    Dopo lo sciopero

    Il Napoletanino

    Una strana coppia

    Rosina

    L’orto delle lucciole

    I libriccini in tela rossa

    Elvio e la suora portoghese

    Elvio racconta

    Le storie della panchina

    Paride del Delfino Verde

    La spiaggia dell’innamorata

    La storia verace dell’innamorata

    Gli zii d’America

    Gli Astronauti

    Cala Baroccia

    Note

    L’autore

    L’illustratrice

    Prefazione

    di Dante Isella

    Pier Luigi Luisi è stato professore di chimica macromolecolare al Politecnico di Zurigo. È qui che mi è accaduto di conoscerlo: alto, massiccio, il viso scontroso e intelligente. Un giorno mi sono sorpreso a osservare fra i miei allievi che seguivano un corso su Le occasioni montaliane questo insolito uditore, e più volte in seguito me lo vidi davanti, al primo banco, con altri suoi colleghi di materie scientifiche.

    Nei corridoi scompariva subito, con passo svelto: ne intravedevo la sagoma incappottata, nei rigori dell’inverno zurighese, con un grosso colbacco di pelo; e ricordo che non avevo potuto fare a meno, una volta, di riflettere, sapendo che era stato prima che a Zurigo in America, e aveva una moglie americana, figli che non parlano l’italiano, se a me sarebbe stato possibile vivere una vita così sradicata dalla mia terra. Già solo l’affacciarmi a una simile idea mi dava un senso di vertigine.

    Fu così che nacque tra noi quel minimo di confidenza iniziale che consentì a Luisi di portarmi da leggere le sue prime storie elbane, che erano destinate a crescere, e a formare via via una struttura di libro, con un inizio e una fine, ciascuna storia trovando il suo posto lungo l’asse temporale di un’unica narrazione continuata. Fu come se egli avesse sentito quella mia domanda interiore e avesse scritto anche per rispondere alla mia smarrita meraviglia.

    Erano storie familiari, in cui il tono non era quello dimesso e un po’ pettegolo della cronaca, ma, pur nella misurata discrezione di un monologo che si sforza di farsi dialogo con pochi, dichiaravano una sorta di pulsione epica, ciascun eroe e ciascun episodio acquistando evidenza in una memorabilità da leggendario privato: figure e vicende che riempiono tutto l’orizzonte della propria vita passata, prima che messe in carta, ingombranti e pur indispensabili presenze a cui sentirsi affidati, quali che siano i casi della vita mutevole. Eroi e casi mitici nel senso in cui tali li fa il sentimento di chi li rievoca: lo stesso, si direbbe, che a un poeta romagnolo faceva desiderare che le tabelle viarie non portassero i nomi solo di Mazzini e di Garibaldi, ma anche quelli di uomini da ricordare per ragioni più ordinarie: per essere andati a cavallo, per essersi seduti all’ombra di un ciliegio.

    Luisi ha così voluto ricostruire una sorta di albero genealogico e, da uomo di scienza, portato cioè per abito all’analisi, ci ha anche fornito, con le pagine che fungono da epilogo del libro, la chiave d’interpretazione del clic che ha messo in moto il suo processo rievocativo: dove entra lo straniamento, rispetto all’oggetto del ricordo, creato dalla distanza temporale e topografica: e si dica pure la differenza, quasi antitetica, tra costumi e aspetti della quotidianità nordica e un mitica adolescenza mediterranea (Nel paese del Nord dove vivo, ci si sveglia la domenica in un silenzio di tomba, e il brusio delle voci di Rio mi sorprese come il saluto di un amico che non vedi da vent’anni): che è lo scatto anche di un recupero, per chi ormai da anni parla diversamente, della propria lingua, dei suoi suoni, che fanno tutt’uno con il colore dell’aria, dei tetti delle case, del paesaggio sedimentato nella memoria. Ma si aggiunge anche, ingrediente più segretamente produttivo, l’avvertimento di un’incrinatura nel battito vitale che all’uomo è dato di possedere: Poi d’un tratto questo inviluppo di ricordi amici si trasformò in un piccolo brivido che mi sorprese: trasalimento di paura, melanconia, insomma avvertimento.

    Da qui, nell’accensione solare del mito, l’insinuarsi di tenui ombre, e la difesa, qua e là, di un’ironia pietosa, che danno alla narrazione alcune delle sue armoniche più intime, pudicamente dissimulate, quasi nel timore dell’elegia. L’anamnesi familiare tende infatti all’autoritratto indiretto, non per un narcisistico compiacimento di sé, ma per un bisogno quasi biologico di sentirsi vivo: di una vita forte che appena alle nostre spalle si è fatta cenere.

    Presentazione

    di Paolo Ferruzzi, Accademia del Bello, Poggio, Isola d’Elba

    Se uno nasce in un’isola sulla sua pelle sente della pioggia l’energia che vibra nell’aria e del mare la robustezza senza appello.

    Se uno nasce in un’isola sul suo viso conosce l’esistente vigoria del sole e del vento ne annusa il percorso.

    E io sono nato in un’isola, la stessa isola da cui proviene la stirpe di Pierluigi e di cui lui è così intriso – e come uomini vivi siamo nati da quel vento che si leva alto a occidente come un’onda d’irragionevole felicità portando con se la gelida ubriachezza del mare e che in mille buchi e cantucci ristora la gente come un boccale di vino fresco e la sorprende come una percossa. Da quel vento che giunge, spacca il cielo e scarica a destra e a sinistra la nuvolaglia e spalanca le grandi fornaci radiose dell’oro serotino. E dall’irrompere di quel vento Pier luigi, in un inviluppo di ricordi amici, traccia le pagine del suo All’ombra dei fichidindia come percorso che attraversa un’isola, l’isola d’Elba, lungo tre generazioni nell’arco di tempo che arriva fino ai nostri giorni con episodi dall’ampio respiro storico dove si muovono personaggi e storie vere raccontate dalla viva voce di vecchi e vecchie donne elbane. Un Cent’anni di solitudine in cui si contano storie locali minime ma al tempo stesso universali in quanto vi si parla d’amore di gelosia e di sentimenti accesi. Personaggi lontani nel tempo visti come in un film da uno spettatore distaccato dai primi fotogrammi proiettati sul grande schermo. Poi questo spettatore vede passare gli anni e si accorge che anche lui è diventato personaggio come gli altri, dentro la storia, dentro il suo stesso libro. Già, l’età, il passar degli anni. Chi se ne salva? e così l’autore termina il libro con una riflessione di melanconia: …Mi sveglia il brusio dalla strada: un misto di voci festive che si chiamano, che canticchiano, che fischiano, il tutto indistinto e lontano, come un’allegrezza lieve diffusa dal vento. Nel paese del Nord dove io vivo, ci si sveglia la domenica in un silenzio di tomba, e il brusio delle voci di Rio Marina mi sorprende come il saluto di un amico che non vedi da vent’anni. Apro la finestra del piccolo albergo che dà sulla piazza, e insieme alla prepotenza del sole entrano impressioni dimenticate e al tempo stesso familiari: il rosso delle tegole dei tetti, il campanile scalcinato, i bambini che si rincorrono in mezzo alla strada.

    Dicembre 2020 — Paolo Ferruzzi

    Prefazione dell’Autore

    Ci sono libri che uno scrive, uno due anni di lavoro, si stampano, e l’opera è finita. Ci sono libri invece che ti accompagnano tutta una vita, forse perché l’opera è la tua stessa vita o una parte importante di essa. Così è per questo libro di racconti elbani, che cominciai a scrivere nella mia prima maturità. Me ne accorsi quasi con sorpresa, in quanto a quel tempo, dopo lunghi periodi trascorsi in tante nazioni diverse, mi consideravo un cittadino del mondo. A quel tempo avevo assunto una posizione stabile al Politecnico Federale di Zurigo – dove Dante Isella aveva la cattedra di Letteratura italiana, appartenuta nel passato a De Sanctis. E fu Dante Isella, figura molto importante nella letteratura italiana di quel tempo, che mi incoraggiò a scriverlo e a suo tempo mi scrisse la prefazione – prefazione vecchia ora di oltre vent’anni, ma che mi porto sempre attaccata al libro come un cimelio prezioso.

    Storie vere – o quasi, come dice il sottotitolo – della gente dell’isola d’Elba.

    Un’isola piccola, da cui erano originati i miei genitori e i loro stessi genitori, un posto dove si ritornava d’estate per lunghi mesi, attorniati da un gran numero di parenti che ti baciavano ma non sapevi chi fossero. Per questo alla domanda da dove vieni? rispondevo allora e adesso: dall’Isola d’Elba. Con tante storie di famiglia, quelle che venivano raccontate dopo cena spesso vicino al fuoco del camino, soprattutto d’inverno. Erano sempre le stesse storie, raccontate con gli stessi dettagli, con le stesse esclamazioni di meraviglia come se si trattasse della prima volta, con gli stessi commenti che facevano un gioco, o forse un rito antico. Ma ti ricordi di Poldo? E cosa disse allora Mario detto Brucia-capanne? E Natalina che andava a prendere l’acqua giù alla fonte? No, aspetta, non è così, fu lui che lui disse… e così via…

    Non capii a lungo questo desiderio strano, inaspettato, di raccogliere tutte queste storie e trovarne anche gli angoli che ne erano rimasti nascosti… davvero una specie di frenesia. Una sorta di spiegazione a questo strano moto dell’anima mi venne un giorno, quando, scrivendo le storie, feci dire a uno dei protagonisti: gli uomini sono come gli alberi, hanno bisogno di radici, di un pezzo di terra cui abbarbicarsi…

    Eppoi, anche da letterato, cominciai a vedere quanto belle, in fondo, fossero queste storie.

    Cose che avrebbero potuto succedere in qualsiasi altra parte del mondo, e per questo avevano un sapore di universalità che cominciò a piacermi. Le radici, appunto. Cominciai a perlustrare in modo serio la memoria delle più anziane donne elbane che mi stavano attorno, e allora gli amici elbani cominciarono a prendere gusto nel raccontarmene di nuove. Ecco allora le storie di Filomena, di Pino il mozzo, di Poldo, la voce di loro, vecchi amici, si commuoveva e i loro occhi qualche volta si inumidivano pure.

    Il sottotitolo storie elbane quasi tutte vere si applica ancora: prima di tutto non so quanto siano veri due o tre degli episodi che mi sono stati raccontati; inoltre, alcune storie vere le ho trasposte io nel tempo in modo da renderle consone alla storia di alcuni personaggi; e altre storie sono state da me trasposte geograficamente (per esempio la storia di Maddalena la Siciliana mi fu raccontata a Porto Ferraio; quella di Pietro e l’asino mi fu raccontata a Pomonte – anzi fu solo una frase smozzicata detta appena da un paesano: ma sai che quello lì prese a calci il suo asino perché stava morendo?)

    A proposito delle storie, vorrei cogliere l’occasione per ringraziare quelli che queste storie me le hanno raccontate. Anche se non mi ricordo di tutti i nomi, non dimentico certo Sergio Nardelli (che mi ha raccontato la storia del riccio); Norma Mari-Benzoni (la storia di Filomena di San Piero e poi quella di Rositta); Eros e Adele Santini con le loro storie di magia, Antonio Bizzarri (una delle storie delle panchine), il vecchio Paride del Delfino Verde, con le sue mille storie di Porto Azzurro e Capoliveri; Lelio Leonardi, che mi raccontato la storia di Pino il mozzo (con Lelio avevamo fatto il patto di invecchiare insieme all’isola – poi la morte se l’è preso a tradimento, come fa spesso lei, sdegnosa dei patti tra uomini). Voglio anche ringraziare chi mi ha aiutato con il materiale fotografico: l’archivio storico di Piombino, gentilissimi, e nelle edizioni più vecchie il comune di Rio Marina per mezzo del bel libro Memorie fotografiche (a cura di Gianfranco Vanagolli), 1984, e lo storico Lelio Giannoni di Rio Marina. Dalle opere di Gianfranco Vanagolli ho attinto anche del materiale per Il grande sciopero.

    Infine, con un salto in qua di vent’anni o quasi, vorrei ringraziare Nathalie Anne Dodd, per aver revisionato con pazienza l’edizione finale di questo libro, e la mia compagna Hong Zhang, autrice delle illustrazioni.

    PRIMA PARTE

    Maria isolina

    Vito Michele e suo figlio Giovanni, che a quell’epoca aveva dodici anni, arrivarono all’Isola d’Elba nel porto di Rio Marina con la grossa barca a vela della Finanza in una sera di fine agosto. Il viaggio era cominciato ben due giorni prima, con un primo giorno passato a cuocere in treno, e stava finendo ora con la traversata del canale di Piombino. I due, che soffrivano il mal di mare, se ne stavano accucciati a poppa senza la forza di muoversi.

    Quando la barca entrò nel porto e il marinaio lasciò cadere la grossa vela, entrambi alzarono la testa verso quella terra che doveva essere la loro per tutti gli anni a venire, e osservarono con intensa curiosità gli scogli, le case sulla riva, e le montagne spaccate dalle cave delle miniere. Giovanni guardò in su verso suo padre e disse: È bella, però!

    Michele rispose con un grugnito dei suoi e si calcò il cappellone nero in testa con un gesto burbero che lasciava intendere che anche lui la pensava così.

    Non si trattava precisamente di un viaggio di piacere. Vito Michele veniva mandato al confino come esiliato politico, perché era un anarchico inveterato. Il pretesto infame della borghesia – come diceva lui – era stato una lite in Rapone, il suo paese in Calabria, nella quale Michele era stato accusato di aver spaccato una bottiglia in testa a un compagno di osteria. Sia come sia, le autorità del Regno non lo avevano mandato in galera per così poco. Ma al confino come anarchico sì, in un paesino di un’isola lontana dove star tranquillo, e l’Isola d’Elba, detta semplicemente l’Isola dai suoi abitanti, era un posto ideale per questo.

    Antica veduta di Rio Marina

    Antica veduta di Rio Marina

    Questo paese si chiama Rio Marina, nome che viene da quel fiume lì sulla sinistra, vedete? disse uno dei due finanzieri. Ha oltre tremila abitanti, sapete, e ci sono le famose miniere di ferro, conosciute fin dai tempi dei Romani, e gli uomini qui lavorano quasi tutti in miniera oppure sono pescatori o contadini d’uva. Ma a voi mica vi ci fanno sta’ qui in paese. Vi mandano nella casa degli esiliati, lontano dal centro del paese. Non ce n’avrete da divertirvi, qui…

    Così cominciò la loro storia all’Elba, con babbo Michele che, tenendosi a malapena in piedi nella barca, cercava negli alberi e nelle case che vedeva da lontano somiglianze con la sua terra di Calabria che non avrebbe più rivisto. Gli piacquero i fichidindia, e soprattutto gli piacquero quelle colline così ricolme di uva. La terra non era così ruvida e arcigna come quella delle sue parti; ma era forte e seria, una di quelle terre che son generose solo se tu lavori duro.

    Non che Michele avesse intenzione di lavorare la terra. Anzi, lui per la campagna non ci aveva né simpatia né dimestichezza. Lo stesso per il mare: barche, vele e remi dovevano rimanere per lui, e per le sue generazioni a seguire, delle cose da guardare quasi con sospetto. Lui era un commerciante, abituato alle botteghe e agli affari – al suo paese aveva avuto una fiorente bottega di calzolaio. Ma soprattutto si interessava di libri, con una propensione per quelli di natura politica, anarchica e anticlericale, un altro marchio genetico che avrebbe tramandato alle generazioni future.


    Michele e Giovanni, appena sbarcati, emisero entrambi un respiro di sollievo, e si ripromisero di star lontano dalle barche per tutti gli anni a venire, promessa che riuscirono a mantenere quasi per intero. Alcune persone erano venute loro incontro, e Michele riconobbe subito il Maresciallo. Non che lo avesse mai visto prima, ma era così tipico, così logorato dentro il suo stesso mestiere, che non avrebbe potuto essere nient’altro. Il Maresciallo lo guardava con curiosità, anche perché, oltre alle notizie riservate sul conto di quell’anarchico, aveva ricevuto dal sindaco di Rio Marina notizia che il Ministero della Guerra voleva attribuire a Vito Michele un onore particolare come veterano dell’ultima guerra di indipendenza – forse gli avrebbero dato addirittura una onorificenza ufficiale – una cosa insomma da rispettare…

    Michele lo guardò fisso negli occhi, e fu la sua prima sfida vittoriosa contro il futuro avversario: l’altro abbassò lo sguardo, sorrise, fece un cenno amichevole con la mano, poi gonfiò il petto e disse le due o tre frasi di convenevole che la borghesia gli aveva insegnato: Siete il signor Luisi Vito Michele, confinato dalla Calabria, non è vero? Benvenuto, cittadino. Vi troverete bene tra noi, se sarete ossequioso della legge del Re e del popolo.

    Michele si limitò a rispondere con un grugnito.

    Seguitemi, prego disse poi il Maresciallo. Fece qualche passo, si fermò e aggiunse: Noi dovremmo andare a destra, verso il vostro Dormitorio, il paese è invece a sinistra. In via eccezionale vi lascio fare una passeggiata, tanto per farvi conoscere Rio Marina!

    Poi prese per mano Giovanni e si incamminò verso il paese. Vito Michele emise un altro grugnito: il fatto che l’avversario di classe mostrasse d’essere una persona gentile, era contro i suoi principi, una delle cose che lo mettevano in difficoltà…


    In paese era giorno di mercato, con tanta gente e tanta roba colorata esposta nelle bancarelle, e nell’aria molte voci allegre e rumorose. Michele e Giovanni si sentirono subito meglio, sorrisero perfino. Il Maresciallo si accorse di quella loro gioia, fu gentile, e disse che potevano avere un’ora per sgranchirsi le gambe prima di procedere per le formalità. Tirò fuori il suo orologio dal panciotto e disse che sarebbe ritornato a prenderli, lì al mercato, alle otto in punto.

    Il piccolo Giovanni si fermò incantato davanti a un pentolone enorme che bolliva sul carbone. Dentro c’erano dei polpi giganteschi, di un colore rosa intenso, fumanti e teneri. Un omone grasso e senza capelli li vendeva tagliando a pezzi con gesti rapidi una granfia o un pezzo di borsa. Il fumo del pentolone saliva fino al cielo, e il profumo era così penetrante e buono che Giovanni, che non mangiava qualcosa di caldo da tre giorni, si sentì svenire. Il padre lo sorresse per tempo e lo sospinse fino a una panchina, facendolo sedere. Poi tirò fuori l’ultimo pezzo di pane dalla giacca e glielo porse.

    Una giovane donna che teneva per mano una bambina di circa sei anni si avvicinò a loro. La bambina, istruita dalla madre, porse a Giovanni un grappolo d’uva. Giovanni rimase un attimo incerto, poi allungò la mano. La donna allora rise e fece un passo in avanti, chiedendogli come si chiamasse. Giovanni arrossì, e chinò il capo a terra confuso senza rispondere.

    Siete nuovi? chiese la donna rivolgendosi a Vito Michele. Michele fece un cenno di sì, sorpreso che una donna gli rivolgesse la parola così apertamente. Fu il suo primo contatto con le donne del posto, e anche in seguito avrebbe faticato ad accettare quei modi aperti e a suo parere un po’ immodesti delle donne di là. Anche il linguaggio era troppo spregiudicato per lui, gli appariva indecoroso. Imparò presto che di una camicia non ben stirata, per esempio, dicevano che sembra uscita d’un culo a un cane; e una volta che lui al mercato, qualche tempo dopo, cercò a lungo un paio di calzoni per Giovanni, e quello scorbutico li rifiutava tutti, questi non andavano bene come colore, e quelli erano troppo ruvidi, questi erano troppo lisci… si sentì dire di dietro dalle due commesse un’altra delle tipiche frasi del posto: Questo qui non trova un palo che gl’entri in culo.

    Michele guardò dunque quella sua prima donna elbana negli occhi, e trovò uno sguardo azzurro e quieto, ma molto forte. Con sua sorpresa fu lui che dovette abbassare gli occhi. Li lasciò allora scorrere in giù, percorrendo tutti i di lei vestiti leggeri fino ai piedi scalzi; e poi di nuovo in su, rapidamente, fino ai capelli biondi. Michele non aveva mai visto una donna bionda così da vicino, e sentì il cuore battergli furiosamente nel petto, ma non lo dette a vedere. Non glielo confessò mai quel turbamento iniziale, nemmeno quando si sposarono, una decina d’anni dopo, e nemmeno quando lei gli dette due figlie, una più bella dell’altra.

    La donna se ne andò con un sorriso breve, e Vito Michele la seguì con gli occhi finché poté. Poi padre e figlio si allontanarono dalla folla camminando verso una grande piazza sul mare. Di là, si poteva vedere la costa di Piombino e l’isolotto di Cerboli e quello di Palmaiola. Il mare appariva calmo e quasi amichevole, con una decina di vele che scorrevano rapide sulla superficie azzurra.

    Veduta dell’Isola d’Elba

    È bello, però! disse di nuovo Giovanni. E Vito Michele di nuovo grugnì. Poi si sedettero su una di quelle panchine di pietra dura e si addormentarono seduti, l’uno appoggiato all’altro. Così li trovò il Maresciallo, che li svegliò bruscamente, quasi per pareggiare la sua gentilezza di poco prima. Era accompagnato da due carabinieri, e tutti insieme ritornarono verso il porto e cominciarono a camminare verso la casa degli esiliati, il Dormentorio, come lo chiamavano i paesani.

    Il piccolo Giovanni camminava volentieri nella sera tiepida, assaporando gli odori nuovi nell’aria. Riconobbe quello del rosmarino, che si confondeva però con l’odore di pino. Dal mare, poi, veniva un odore come di cocomero. A un certo punto emise un sospiro di gioia e disse: Babbo, come si chiama quella donna bionda?

    Vito Michele, che stava proprio pensando a lei, fece un sobbalzo. Ma chi? Ma di che cosa stai parlando?

    Di donne bionde non ce n’era nemmeno una al nostro paese. E poi così bella! Non è vero, babbo?

    Cammina e zitto, non dire scemenze!

    Ma in cuor suo anche Vito Michele si sentiva felice, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Quel primo contatto con la nuova terra era stato buono.

    E per tutta la vita avrebbe rivissuto quel momento – in cui la donna bionda si era avvicinata a loro, con la bambina che aveva offerto l’uva – rivivendo anche quella sensazione strana di pace e al tempo stesso di frenesia che gli era entrata dentro.

    Ci vollero ancora quaranta minuti per arrivare al Dormitorio, che era un palazzone proprio sul ciglio dello stradello a picco sul mare – e il mare di lassù appariva enorme e azzurro. C’erano una dozzina di stanze, di cui solo tre erano occupate da altri esiliati, tutti uomini soli senza famiglia. A Michele gli assegnarono una stanza con due lettini, gli spiegarono di nuovo che di giorno poteva lasciare il palazzone e camminare a Rio Marina o tutt’al più fino al Cavo – un paesotto di poche case dalla parte opposta di quello stradello – ma non più oltre, e che doveva comunque presentarsi ogni notte a dormire lì altrimenti sarebbero stati guai, addirittura la galera vera. Michele dovette firmare due o tre carte, e dare due o tre altri grugniti di assenso, poi il Maresciallo se ne andò, bestemmiando per il lungo cammino all’indietro che ora doveva fare. Ah!, se almeno gli avessero dato un calesse con un cavallo, per questo lavoro...


    Per prima cosa, Vito Michele e Giovanni fecero la conoscenza degli altri esiliati che vivevano nel Palazzone. Erano anche loro forestieri. Uno veniva dal Friuli, che doveva essere un paese su su nel Nord Italia e, quando parlava, si capiva a stento quel che diceva. Vito Michele capì però che era uno che parlava sempre di Gesù Cristo e del Papa e decise subito di evitarlo. Un altro veniva dalla Sicilia e anche questo aveva un dialetto incomprensibile. Il terzo era un giovane romano, con una faccia lustra e furba da levantino, ma che perlomeno si faceva capire e sapeva ridere e scherzare. Nel Palazzone c’era anche il custode, un vecchio sempre ombroso. Era l’unico con le scarpe: un paio di stivali da caccia ereditati chissà da chi e chissà quando. L’occhio esperto di Vito Michele, il calzolaio, notò che uno dei tacchi si stava staccando.

    Che belle scarpe! Sono di vitello giovane e ben stagionato, lo so bene io! Complimenti! Ma uno dei tacchi sta cadendo. Se voi mi permettete, ve lo riparo. Sono calzolaio, io... Giovanni, vieni qui che c’è da lavora’!

    Fu così che Vito Michele si fece il primo amico e il primo cliente. Mentre martellava il tacco dello stivale, tenendo i chiodini in bocca, Vito Michele alzò gli occhi verso il custode che lo osservava ancora insospettito, e portò il discorso sulle donne del paese. Voleva sapere qualcosa della giovane donna bionda con la bambina, ma da quell’orso non riuscì a cavare una sola parola utile. Già l’indomani mattina Vito Michele, con Giovanni che gli volle andar dietro, ritornò a piedi al paese con la speranza di rivedere quella donna bionda. Si era sbarbato, e indossava una camicia pulita sotto il cappellone nero. La vide che camminava sul molo del porticciolo tenendo per mano la bambina. Vito Michele cominciò a fare piani per capitarle vicino, ma in modo tale che sembrasse un incontro fortuito.

    Guarda, babbo, quella donna di ieri! gridò Giovanni, puntando la donna bionda con il dito. Bella, vero?"

    Zitto, scemo! rispose Vito Michele allungandogli uno scappellotto. Ma di che stai parlando?

    La donna bionda si volse, li riconobbe, e venne loro incontro con quel suo sorriso. Si fermò davanti a Michele, che rimase impalato senza saper dire una parola. Fu

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