La grande meretrice
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Anteprima del libro
La grande meretrice - Vincenzo Ieracitano
Vincenzo Ieracitano
La grande meretrice
UUID: c203c74e-1b40-40db-881c-26a3365fcc61
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Vincenzo Ieracitano
LA GRANDE MERETRICE
Romanzo
ISBN: 979-12-5547-004-5
© Copyright anno 2021 by
I BUONI CUGINI EDITORI
di Anna Squatrito e Ivo Tiberio Ginevra
P. IVA: 06477650821
www.ibuonicuginieditori.it - ibuonicugini@libero.it
Curatore dell’opera: Ivo Tiberio Ginevra
Elaborazione grafica copertina e Ebook: Maria Squatrito
Gli Editori ringraziano
Ivan Ficano, Giambi Leone e Vincenzo Verderosa
la loro generosa collaborazione.
Vincenzo Ieracitano
LA GRANDE MERETRICE
Romanzo
Ad Annamaria, mia madre,
stella polare di generosità,
bontà e amore per la vita.
A Claudia
la luz de mi vida.
A Ivo fratello,
sodale, complice senza la cui perseveranza
questo papocchio non sarebbe mai nato.
Mia amata e amante
Palermo
Se mai fosse estate
questo deserto di movimenti
che non toccano mai terra
e fanno cessare il mare delle tue gambe
sarei un ombrello nella tasca
dei tuoi ancestrali desideri.
Vincenzo Verderosa
Capitolo 1
A Palermo l’iris fritta è una specie di monumento al peccato di gola più sfrenato. Il suo cuore è costituito da crema di ricotta lavorata finemente, canditi tagliati in maniera piuttosto grossolana, coriandoli di cioccolato fondente e un pizzico di cannella. Questo goloso nucleo di perdizione è racchiuso in una sfera di soffice pasta di pane, poco più grande di un pugno, appena impanata e fritta in olio bollente. L’iris a regola d’arte è uno scrigno magico, dorato e irregolare, che già al primo morso libera un sapore inebriante, frutto della commistione tra il forte aroma della cannella, i richiami lussuriosi del cioccolato fuso, e i dolci ricordi d’infanzia dello zucchero candito. Il tutto è sostenuto da persistenti note erbacee figlie della candida ricotta, da quel sentore di caramello brunito della frittura e al suo croccante sigillo dorato. Una volta aperto il varco, fuoriesce una colata di lava golosa, dovuta alla ricotta bollente che impera ben presto di finire la sua corsa felice nella gola e nello stomaco del fortunato avventore.
Queste iris fritte erano la passione di Vincenzo Geraci e ogni giorno, di prima mattina, si recava a far colazione in un’antica friggitoria del Capo, dove a suo dire, u Zu Ninu e sua moglie Rosa facevano le migliori iris fritte della città, il che equivale a dire: del mondo.
Non c’era delinquente a Palermo che non conoscesse Geraci per il suo intuito e la sua feroce determinazione; quanto a coraggio non c’era collega che non pregasse di averlo accanto durante un’irruzione pericolosa o in uno scontro a fuoco. Quell’uomo era una macchina da guerra, o meglio, un cane da combattimento, che fiutava, attaccava, azzannava con inaudita ferocia. Un mastino, u cane i mannara , come lo chiamavano i picciotti delle borgate, accomunandolo a quei grossi e minacciosi cani di campagna pronti a difendere il gregge o la proprietà a costo della vita. Anche i suoi superiori temevano l’ispettore Geraci. Temevano quello sguardo duro, dritto e indagatore, la sua lingua tagliente e quella volontà di ferro che non si arrestava davanti a nulla. Per questo le alte sfere della polizia e la classe politica locale preparavano la sua promozione a incarichi più prestigiosi in altro loco. Incarichi istituzionali in modo da togliere l’osso dalle fauci di quel cane affamato di verità e giustizia. Ma il destino aveva voluto diversamente. Adesso era un Ex ispettore di polizia. Un Ex sbirro, e forse anche un Ex se stesso. Aveva dovuto rivedere al ribasso gli steps della sua coscienza. In buona sostanza non gliene fotteva più nulla di nulla, tirava a campare stancamente giorno per giorno senza un obiettivo, senza una meta, senza un perché. Ogni giorno era incerto come un tiro di dadi, con una sola costante: tutti i soldi che guadagnava se li giocava all’ippodromo o alla sala corse. Ma ancora non poteva lontanamente immaginare ciò che la vita aveva in serbo per lui.
Subito dopo l’alba Palermo è stupenda. Il cielo, di un indaco intenso e avvolgente, appare come un enorme cuscino damascato dalle trapunte d’oro e gemme, con cui i gran visir ornavano le loro dimore, tanto che sembra proprio un invito a poggiar la testa e concedersi al sogno. Le strade deserte e silenziose sono carezzate dai riflessi dorati del sole che disegna magici arabeschi di sale e d’ocra. E poi il profumo... quell’odore di alghe e di mare, quell’aroma di miele e di spezie, che sa di libertà, che rende leggermente euforici e che sembrerebbe dire qui tutto è possibile! Purtroppo questa splendida magia è assolutamente illusoria e ben presto si dissolve. Intorno alle 7.30 la città incomincia a popolarsi. Le strade si riempiono di macchine, di frastuono, incominciano le dispute dei palermitani contro i propri simili per il posteggio, per il posto nella fila di un ufficio postale o di una banca, per qualunque cosa. L’eterna lotta di ogni palermitano per dimostrare al prossimo che lui è più lesto, più furbo, più forte e sicuramente u megghiu ‘i tutti . Il miraggio e l’incanto allora svaniscono, evaporano come nebbia, si dileguano come un alito, per lasciare il posto a un caos organizzato che ogni volta sembra giungere fino al punto di non ritorno.
In questa città, Vincenzo Geraci ogni mattina di buon’ora si alzava, compieva meccanicamente i soliti gesti di routine, poi era subito in strada con la sua macchina che aveva visto tempi migliori, una Polo blu grascia , come scherzosamente la definivano i suoi amici ed ex colleghi.
Da un bel po’ di tempo non riusciva più a riposare tranquillo. Il suo sonno era incostante, agitato, pieno di sogni e incubi stranissimi, dove quasi sempre appariva la figura di suo padre, perso circa un decennio prima, per un infarto improvviso allo stadio durante una partita di calcio del suo amato Palermo.
La vita di Geraci era un disastro: dopo il licenziamento sbarcava il lunario lavorando in un’agenzia privata d’investigazioni e recupero crediti. Le scadenze, l’affitto, le bollette da pagare, le rate dei prestiti che continuamente rinnovava per tirare avanti lo tormentavano, riducendo le sue giornate a una continua lotta per la sopravvivenza che gli stava alienando ogni voglia di vivere. L’unico momento di pace con se stesso era in quelle sue passeggiate mattutine, incoerenti e disperate, nell’antro e nelle viscere di una città che egli amava e odiava in maniera del tutto assoluta. Solo quando giungeva alla friggitoria ru Zù Ninu e della signora Rosa trovava magicamente un breve attimo di serenità e pace. Quella coppia di anziani signori per lui era come una seconda famiglia e l’affetto che nutriva per loro era profondamente ricambiato. Così quando andava a fare colazione alla friggitoria era accolto con quella gratitudine e con quell’amore, sincero, senza termini e condizioni, che rimangono segni distintivi della Palermo che fu e che ancora sopravvivono negli occhi e nel cuore della povera gente.
U zu Ninu, come al solito, era seduto sulla sua sedia impagliata innanzi all’ingresso del locale dove intratteneva amabilmente gli amici e i clienti di passaggio con le sue facezie e i racconti di una vita. Era un uomo corpulento di statura media e non dimostrava affatto i suoi anni. Gli occhi azzurri, limpidi e trasparenti come mari incontaminati, rivelavano bonomia e affettuosità ma anche acutezza e profondità di giudizio. Tra la gente del posto una sua parola era considerata Cassazione. Nel quartiere, quando nasceva qualche contrasto o qualche dissidio tra famiglie o tra gli abitanti del borgo, se la soluzione del problema era accompagnata dalla magica frase: u rissi u zu Ninu , immediatamente quella verità era accettata come magica panacea da tutti i contendenti e il dissidio, sanato. U zu Ninu non era un uomo d’onore ma un uomo che dell’onore e della dignità aveva fatto la sua filosofia. Per una vita intera aveva sempre pesato le parole e i comportamenti mettendoli su di una bilancia d’infinita umanità e saggezza, di conseguenza l’autorità di cui godeva presso la gente del posto era un fatto spontaneo, naturale, mai messo in discussione da nessuno.
Appena vide Geraci, il buon vecchio sorrise, si alzò e andò ad abbracciarlo calorosamente:
«Beato voi che sorridete sempre». Disse Geraci, grato di tanta gioiosa accoglienza. «Ma dove la trovate tutta questa forza?».
«Enzuccio ma viri che non è peccato sorridere». Rispose cingendogli le spalle con affetto. «E che ci resta della vita? Un sorriso è nostro per sempre, è l’unica cosa ca un nni puonnu arrubbare». Poi cambiò discorso. «Oggi sei fortunato, stamatina mi portarono la ricotta fresca delle Madonie e me mugghieri fici certi iris ca ci manca a parola! Rosaaaa. Arrivò u picciriddu!». Concluse rivolto alla moglie che era affaccendata in cucina. «Preparaci na para ri iris o picciriddu c’avi pitittu».
Ovviamente Geraci non aveva alcun diritto di replica, doveva solo accettare l’invito e basta.
Dopo un po’ arrivò la signora Rosa, una vecchietta esile e minuta con due occhi scuri e lucenti che custodivano tutto l’amore e la capacità di sofferenza del mondo. Si avvicinò a Geraci con passi brevi e rapidi. In mano teneva un piattino con due iris bollenti, stando bene attenta a non rovesciarne il contenuto, come se fossero una preziosissima opera da maneggiare con cautela. Prima di donargli quella prelibatezza gli carezzò il capo con mano affettuosa, poi lo guardò per un attimo con un sorriso appena accennato, dolce e rassicurante, come quello da sempre custodito nell’animo di certe mamme del sud, per allontanarsi subito dopo senza dire una parola.
A quel punto iniziò la sfida.
Geraci prese l’iris tra le mani, aiutandosi con un tovagliolo di stoffa a quadrettini irregolari bianchi e azzurri che la signora Rosa gli aveva dato per evitare di scottarsi le dita. Pensò che quella piccola bomba calorica profumata e invitante fosse quanto ci voleva per iniziare al meglio la giornata. Affondò il primo morso con impazienza e voluttà ma la sua ingordigia causò l’apertura di un altro cratere sul fronte sud orientale dell’iris da cui fuoriuscì, denso e inarrestabile, un altro fiume lavico di ricotta che terminò la sua corsa direttamente sulle dita ustionandole un po’, tuttavia la catastrofe era ormai imminente: salto all’indietro, dita in bocca per non perdere un grammo del prezioso contenuto e inevitabile schizzo sulle scarpe e sui pantaloni. Allora Geraci, persa ogni prudenza, aggredì l’iris con fanciullesca ferocia, fregandosene del bon ton , e la trangugiò in un baleno, senza ritegno, sporcandosi dappertutto. Era proprio per questo che il buon vecchio lo chiamava u picciriddu .
«Certo che a taliariti ca manci è un priu!». Disse ridendo u zu Ninu appena Geraci finì l’avventurosa colazione, poi lo guardò negli occhi con fare paterno, e continuò:
«Geraci ma che hai? Chi ti firria nna tiesta da un po’ di tempo a ‘sta parte? I tuoi occhi non hanno pace, figlio mio, sembrano carboni ardenti mossi dal vento ca un si puonnu astutare e non hanno risietto. Chi t’abbrucia? Tutto s’aggiusta».
«Zu Ninu tanti anni fa fui io a consigliare a vostro figlio di andarsene da questa città, adesso mi sa che è venuto il mio turno».
«E dove vuoi andare?».
«Che ne so, a Milano, a Roma in un posto dove posso ricominciare da zero, qua, mi sento prigioniero e costretto, non ce la faccio più». Rispose Geraci a capo chino.
U zu Ninu abbassò lo sguardo e con la mano gli fece segno di accomodarsi sulla sedia accanto e con un tono di voce dolce e lenta come un’antica cantilena gli disse:
«Tu ha sapiri che le città sono come le femmine. Dove te ne vuoi andare a Milano? Milano è come una fimmina di casa, ti runa a manciare, ti fa crescere i picciriddi, ti sistema la vita e la famiglia. Palermo invece è come una buttana, biedda e fitusa, sdisonorata e arrusa. A to tiesta ti rici di lasciarla perdere, ma il tuo cuore e le tue palle sempre con lei sono! Perciò se te ne vai farai come quelli che quannu vannu ca mugghieri, sempre a buttana pensanu! Senti a mia, non pensare che così risolvi i tuoi problemi...».
Il vecchio, ancora una volta, aveva ragione. In effetti Palermo poteva ben essere considerata come una grande meretrice, come una di quelle donne bellissime e selvagge, capaci di donare inconsapevolmente degli attimi di autentica bellezza che stordiscono, che bruciano l’anima annientando ogni volontà. Palermo è come una splendida e imprevedibile donna di strada. Magari lacera, sporca e inaffidabile, ma le basta un semplice gesto, un’occhiata maliziosa e di sottecchi, accompagnata da un ferino e osceno allargarsi delle cosce sode e tornite perché tu sia perduto per sempre. La ami e la odi, ma nulla sarà come prima.
Appena u zu Ninu finì