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Senzatarì e il sogno della Merica
Senzatarì e il sogno della Merica
Senzatarì e il sogno della Merica
E-book261 pagine3 ore

Senzatarì e il sogno della Merica

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Info su questo ebook

Trabia, a pochi chilometri da Palermo, si affaccia sul mare. È il paese degli spaghetti, della pesca dei tonni e delle nespole. Qui hanno sempre vissuto gli Schiera, conosciuti con la ‘nciuria di Senzatarì. Una famiglia di grandi faticatori. Una famiglia sempre onesta, anche se considerata un po’ fuori dalle regole, dove ogni tanto ne nasce qualcuno segnato dal destino della ‘nciuria, un po’ folle e senza soldi.
È il 1970 e l’ultimo dei Senzatarì in ordine di tempo è Antonino, sicuramente il più spiccioliato, disgraziato e malo combinato di tutti. Mai, dai tempi di nonno Peppino, operaio del pastificio del paese e capostipite dei Senzatarì, e di suo padre Rosario, la reputazione della famiglia era scesa così in basso. Perennemente senza lavoro, Antonino, oramai rassegnato, vive di espedienti giornalieri; non ha nulla, se non una bella moglie e il figlioletto Filippo (sicuro erede della vena dei Senzatarì) e non è nemmeno padrone della casa dove abita perché, anche se sua, è invasa dalla famiglia della moglie che, stabilitasi per qualche giorno, da allora non è più andata via. Ha un amico, Mastro Ercole, il puparo, che ogni tanto gli regala una carta di 50.000 lire e gli racconta sempre storie sulla Merica, che ad Antonino pare così lontana che forse neanche esiste; ma nel momento più nero della sua vita, accade un evento imprevedibile che ha del miracoloso e che cambierà per sempre ogni cosa.
Antonino Schiera è insicuro, sfortunato, confusionario. È un sognatore incapace di difendersi ma, anche nelle avversità della vita, resta sempre una persona genuina e onesta. A suo modo è un eroe, anche se tragicomico, fortemente tragicomico...
LinguaItaliano
Data di uscita4 apr 2023
ISBN9791255470182
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    Anteprima del libro

    Senzatarì e il sogno della Merica - Gianluca Tantillo

    Introduzione

    Ai tempi dell’università capitava che ogni tanto mio padre mi convocasse nella sua stanza da letto. Appena entravo lo vedevo seduto nella poltrona con le gambe accavallate. Poi, guardandomi severamente, mi diceva :

    «Apri l’armadio. Prendi quel vestito color fumo di Londra.»

    « Papà, ma se non sei uscito mai da Trabia, come lo devi sapere che colore ha il fumo a Londra?»

    Una volta tirato fuori il vestito e messo in bella mostra, recitava sempre il solito mantra, che oramai avevo imparato a memoria perché la partenza era sempre la stessa.

    «Lo vedi stu vestito?» Mi chiedeva minaccioso. «Me lo devo mettere per la tua laurea e quando muoio. Il fatto è, visto il bello rendimento che hai, che non so quando me lo dovrò mettere prima.»

    Papà tre cose aveva: la riga dei capelli sempre a posto, le bretelle immancabili e sgargianti, e un malo carattere di quello internazionale. Per questo motivo lo chiamavano u prufissuri , non perché se ne intendesse di letteratura o altro, ma perché di qualsiasi cosa si parlasse, aveva sempre ragione lui. E se per papà la ‘nciuria di u Prufissuri stava a indicare un suo lato caratteriale, in altri casi, invece, diventava necessaria e anche più efficace dell’ufficio anagrafe. Vengo e mi spiego. Come molti di voi sapranno, i cognomi e i nomi nei paesi gira e rigira sono sempre gli stessi. Per questo motivo se qualcuno chiama per esempio, Totò Maniscalco va a finire che si girano dieci persone. L’uso della ‘nciuria in questo caso (e qua entra in gioco l’ufficio anagrafe) è quello di scremare e risolvere i casi di omonimia: ergo, se chiamate Totò Spardamunnizza , fra tutti i Maniscalco si volterà solo quello giusto. Spardamunnizza se è accattone, ‘nzivatu se non si lava, sciancato se è zoppo, babbo funnutu se non è proprio un’aquila. Poi c’è un caso in cui la ‘nciuria indica una stirpe, una famiglia, e come le proprietà o i debiti, si tramanda a figli, nipoti e pronipoti. Questo è il caso dei Senzatarì , i protagonisti della storia in questione, e che se ne avrete il piacere, imparerete a conoscere pagina dopo pagina. La loro, di ‘nciuria , faceva riferimento all’antico sistema di monetazione siciliano. Senza perdere troppo tempo perché sono cose di dottori e banchieri: ci stava la moneta più grossa che si chiamava onza , e girava nelle mani dei ricchi signori, poi il grano , il carlino e, proprio tra l’ onza e il grano , il tarì , che era quel soldo giusto giusto per tirare a campare con un minimo di dignità, ma senza farsi passare per la testa né lussi né pulci. Senzatarì , oggi come allora, sta a significare senza piccioli, senza denari, poveri, squattrinati. Nel caso dei Senzatarì aggiungiamo anche un malo carattere e, per un verso o per un altro, tenevano sempre il broncio, o come diciamo noi a funcia, di chi le cose gli vanno sempre male. Questa storia parla di Antonino Schiera Senzatarì , il più affunciato e spicciuliato di tutta la stirpe, ma sarà sempre così, giacché il proverbio dice che il treno passa per tutti una sola volta nella vita?

    Gianluca Tantillo

    1

    Quella mattina, mercoledì 8 marzo, era la festa della donna. Come tutti gli anni, Antonino Schiera, mal conosciuto da tutti con la ‘nciuria di Senzatarì, per portarsi a casa un pezzo di pane, si doveva fare il giro delle strade di campagna in cerca d’alberi di mimose, che in Sicilia crescono spontanei, per raccogliere un poco di mazzi da vendere a mariti, amici, conoscenti, nulla facenti che volevano cambiare il mondo dentro i bar, e ai masculazzi che avevano da farsi perdonare qualche ficcatella occasionale, che poi tanto occasionale non era. Ora Antonino, giustamente, prima di affidarsi a Dio e alla ventura, tanto per farsi due conti in tasca per capire se almeno ci rientrava con i piccioli della benzina, il giorno prima si era fatto il giro delle persone che solitamente si compravano una mimosa in quel giorno dell’anno.

    Quella mattina, prima di andare a devastare selvaggiamente gli alberi si era fermato al bar di Totò: soldi o non soldi qualche santo che gli offriva il caffè e magari la colazione lo trovava sempre.

    Nonostante avesse passato da poco i quaranta e l’unica malattia di cui soffriva era la povertà, Antonino cominciava a essere scordatizzo e ad avere i primi acciacchi della vecchiaia che si erano attaccati nella casa dei nervi: lo stomaco, ma a un buon caffè e un pezzo di rosticceria non sapeva proprio dire di no.

    «Totò, ma che c’è polistirolo dentro ‘sta ravazzata?»

    «Polistirolo? Io ci ho messo sempre carne e piselli... polistirolo nella ravazzata originale non ce ne va!»

    «Eh... diglielo al dottore ca mi disse ri evitare cose pesanti perché, dice sempre lui, stu polistirolo è in tutto quello ca mi piace a me.»

    «Ma che dici, Antonì? Ah! finirono i tempi ca le nostre matri facevano cose genuine... ormai ci mettono dentro cose chimiche pure nell’aria ca respiriamo.»

    « Colpa dei mericani, delle gomme da masticare, della minigonna e del cinematografo: levando mia moglie tutte buttane diventarono! Ah, Totò, mimose te ne servono?»

    «Sono quarantaquattro anni ca sono schietto, Antonì... ma a chi gliele devo regalare?»

    «Eh caro mio, pure tu però... se non ti armi ri forchetta, pasta nel piatto non ne arriva mai.»

    Mentre il barista stava preparando il caffè Antonino aspettava nella tipica postura dei Senzatarì, con la schiena un po’ all’indietro e le mani incrociate all’altezza del culo, questa volta a stringere la MS scroccata come sempre allo stesso Totò. Si sentì rinascere solo al contatto della tazzina con le labbra, ma messo piede fuori dal bar e accesa la sigaretta a Schiera gli venne un colpo di sangue .

    «Nchià, a 500 si sono futtuti! E cu è stu miserabile ca ci mangiarono le mani?»

    Quella volta ci andarono male tutti: fottuta la 500 di Antonino Schiera con ampio portabagagli di ferro montato sul tetto, mimose non ce n’erano per nessuno e di conseguenza problemi di quelli grossi con le mogli, prima di tutti per il povero maresciallo Lumia che comandava dovunque tranne a casa sua.

    La sua 500 era un veicolo brutto, arrugginito, con la frizione bruciata, la targa scritta a mano, assicurazione manco a parlarne e le frecce, poi, erano cose che appartenevano agli indiani, ma soprattutto la tragedia era il colore. Il vecchio proprietario prima di regalargliela, aveva ben pensato di ravvivare la tinta originaria, che già non era bella, con la vernice marrone avanzata dalla pittura delle persiane di casa, insomma: una cacata con le ruote.

    «Antonì, manco a presentare la denunzia ai carabinieri, non ci perdere tempo, tanto ‘sto ladro dove deve arrivare? Tempo niente e si ferma.» Anche se Totò lo diceva per sdrammatizzare, nei fatti lo pensava vero. E pure Antonino:

    « Ma sì, ‘sta machina la posso portare solo io ca la conosco. È senza frizione, senza freni, senza cambio ca solo Dio lo sa come entrano le marce.»

    «Tranquillo, tempo un kilometro e si ferma.»

    «Ma manco quello ca è senza benzina.»

    Salutato l’amico a Schiera non gli restò che aspettare e affidarsi al Signoruzzo affinché gli facesse una bella tirata d’orecchie a san Disma che è il protettore dei ladri; e siccome tempo che aspetti non passa mai, decise di andarsi a fare un giro al cimitero per sputare nella foto del sindaco di tre elezioni prima (pace all’anima sua) che gli aveva promesso un posto di lavoro come bidello e invece non gli aveva dato manco quello di raddrizzatore di banane.

    Ma tanto, mio caro sindaco, tutte te le faccio scottare. L’anno scorso ti sono venuto a rubare i vasetti ri rame della sepoltura, a te e a tutti i tuoi parenti, e me li sono andati a vendere, e quest’anno in quelli ri plastica ca ci avete messo ci vengo a fare la pipì! E ho piacere ca tua moglie si scordò ri metterti la dentiera dentro la cassa da morto, perché quando eri vivo ti masticavi tutte cose e adesso le banane scafazzate te le mangi tu!

    Divergenze politiche a parte, Antonino Senzatarì, era persona tutto sommato tranquilla.

    Ogni tanto gli capitava di sognare tanta cacca nel piatto, o di pestare la cacca, che poi magari pestava veramente, e allora chiedeva subito a sua nonna Maruzza che era da tutti acclamata come la massima autorità nella smorfia dei numeri.

    «Piccioli sono, nipote mio! Sono piccioli ca devono arrivare!»

    Ormai quella dei sogni era più una scusa perché, onestamente, alla storia della cacca e dei soldi manco ci credeva più che per quanta ne aveva sognata e per quanta ne aveva pestata, già da un bello pezzo doveva essere ricco come uno zio d’America.

    Come fu come non fu, quel giorno Antonino Schiera pensò che era meglio non tornare a casa, anche perché sua moglie Angelica (solo nel nome) era da un periodo sul piede di guerra e gli avrebbe fatto vedere un inferno che quello di Dante al confronto era la festa del paese. Dunque, per non sapere leggere e scrivere, visto che è cosa risaputa che l’aria di mare allevia tutti i problemi, decise, uscendo dal cimitero, di prendere la strada che scendeva alla marina per passare un paio d’ore nella spiaggietta della vecchia tonnara dove andava a pensare da quando era picciriddo, cosa che sentiva prepotentemente di rifare quel giorno.

    In quel paese Antonino c’era nato, cresciuto e non sapeva ancora se ci sarebbe voluto morire. Trabia Al Tarbiah la chiamavano gli arabi che significava La Quadrata perché questa forma doveva avere, prima delle case abusive; tuttavia certi panorami bene o male erano rimasti sempre gli stessi. Nonostante lui di scuola non ne aveva voluto sapere, sta cosa della Quadrata gli era rimasta impressa e ogni tanto ci pensava.

    Sarebbe bello poter dire che Antonino pensava all’infinito, all’esistenza o meno di Dio mentre taliava l’orizzonte e tirava i ciottoli piatti per farli saltare sulla superficie piatta del mare, ma invece aveva sradicato una frasca fiorita e succhiandosela seduto su un pietrone pensava a una cosa sola: come fare i piccioli per andare avanti.

    Oggettivamente dov’era seduto lui si stava nella pace degli angeli. Abbuccava la testa a manca e si vedeva il pizzo di Mongerbino, abbuccava la testa a dritta e riusciva a scorgere lontano il golfo Cefalù. Dritto, nelle giornate limpide che non c’era foschia, sempre se si aveva una vista buona, si scorgevano le Isole Eolie che Antonino non era riuscito a sapere come si chiamassero, ma, in compenso se ne fotteva e campava lo stesso. Però, per quanto cercasse di consolarsi col mare, in verità, non gli poteva dare pace: ah, se ci fosse stato suo nonno Peppino.

    2

    Peppino Schiera, suo nonno, anche se non aveva manco la prima elementare, lavorava al pastificio del paese come responsabile dei macchinari. Era lui il capostipite di tutti i Senzatarì, che chiamavano così perché erano sempre scorbutici e imbronciati come gente che non ha mai piccioli. In famiglia si raccontava che a tale mala virtù corrispondesse per contrapposizione una buona genialità e Peppino di genialità ne aveva! Costruiva certi macchinari di sua invenzione che nessuno sapeva spiegarsi come fosse possibile. Una volta, per esempio, quando era ancora giovane, visitarono il pastificio degli industriali del nord che avevano intenzione d’investire in Sicilia. Data un’occhiata al posto, vollero subito sapere chi fosse l’ingegnere che aveva costruito i macchinari e chi ne faceva la manutenzione. «Dottò!» Rispose Fofò, uno dei dipendenti. «Ma quale ingegnere? Li ha fatti Peppino Schiera e quello a scuola ci andava solo per fare danno!» E alla domanda di portelo incontrare, perché erano molto curiosi di conoscerlo, sempre lo stesso rispose: «Se volete stare tranquilli voi e volete fare stare tranquilli anche a noi, lasciatelo stare dov’è, che è la meglio cosa! Sentite a me.»

    Poi, qualche anno dopo, venne ad abitare a Trabia un nuovo casellante ferroviario di Palermo. Ai casellanti era concessa in comodato d’uso una piccola casa, ma ben fatta, in prossimità del passaggio a livello poiché in caso di problemi, giorno o notte che era, pure in mutande, si doveva subito provvedere a sbrogliare la matassa. Il casellante, però, ripeteva sempre che il suo incarico a Trabia era provvisorio e che prima o poi sarebbe tornato alla stazione centrale di Palermo perché lui, uomo evoluto com’era, di stare nei paesazzi non ne voleva sapere manco ammazzato.

    Oltre la casa, una discreta paga e la moglie, il casellante aveva pure una figlia: Maruzza. Nutriva per lei grandi progetti e aveva pure rifiutato il fidanzamento con un giovane capostazione perchè per Maruzza sua bedda, minimo minimo, il marito doveva arrivare dagli uffici dell’amministrazione centrale.

    Un giorno che Peppino Schiera, il nonno di Antonino si intende, andò a fare una consegna di farina a casa del casellante, perché il garzone del pastificio aveva deciso proprio quella stessa giornata di organizzarsi la fuitina e non si trovava più, bussò alla porta e si presentò Maruzza. Peppino si vergognò, tanto gli parse bedda, e non riuscì a spiccicare una parola. Niente, restò muto come un pesc e.

    Lui che si occupava di viti, bulloni, cacciaviti e martelli non riusciva a spiegarsi che tipo di guasto aveva il suo corpo visto che stava sudando come se fosse agosto e il cuore gli batteva come un motore a scoppio mezzo ingolfato.

    P assarono i sintomi di questo strano malessere e gli venne la fede. Non che prima non l’avesse, ma ora aveva un motivo in più per credere a nostro Signore, perché la domenica era l’unico giorno che Maruzza usciva di casa per andare alla santa messa in compagnia dei suoi genitori, e così poteva vederla.

    Il vestito delle feste Peppino non l’aveva e allora se lo faceva prestare dagli amici che per fortuna erano tutti così secchi che quello di uno veniva pure all’altro, l’importante che fosse pulito e senza toppe. Per le scarpe ci pensò invece il calzolaio che s’accordò in cambio di un sacco di farina.

    Domenica dopo domenica si sentiva mancare il fiato. Lui che non conosceva rossore in viso per nessuna cosa, era lì bloccato, come pietrificato da Medusa, alla ricerca di uno sguardo o di una grazia da Santa Oliva (a lei era intitolata la chiesa del paese) che intercedesse per farla innamorare di lui. Maruzza però era dura come la pietra; e peggio del rifiuto, che comunque mette l’anima in pace, c’era l’indifferenza che Peppino sperimentava per la prima volta nella sua vita perché a dispetto di altre situazioni, come era già capitato con qualche elemento di spiaggia, non poteva arrotolare le maniche e sistemare le cose.

    «E girati! E girati! Porco ri qua e porco ri là!»

    «Peppì.» Gli diceva Fofò, che era il suo migliore amico. «Secondo me se te la pigli con quelli del piano ri sopra peggio è! Se vuoi ca li santi ti fanno la grazia ci vuole fede e animo pulito... quant’è ca non ti confessi?»

    «Io mi devo confessare cu padre Giacinto? Ci fosse chi confessa a lui... ne ha combinate più lui da parrino ca Don Coppola caca ‘nta carta

    «Picciotti!» Intervenne don Mimmo Ferrazzo, il macellaio del paese, dalla panca davanti. «Non dissi niente, ma è da un’ora ca parlate e ci scassate quello ca in chiesa non si può dire... Se permettete a mia sta cosa dell’agnello ri Dio mi interessa e la voglio ascoltare!»

    «L’agnello ri Dio, lei? Pure quello vuole scannare?»

    «Peppino Schiera!» Don Mimmo Ferrazzo impazzì. «Ringrazia ca la buonanima ri tuo padre non c’è più sennò ti facevo dare quattro colpi ri cinto ca ti levavi il vizio!»

    «Picciotti...» Rimproverò mutriato padre Giacinto dall’altare. «Ma che vergogne sono? Manco arrivò u casellante nuovo ca ci dobbiamo fare riconoscere subito, ah!?»

    Peppino, sconfitto per l’ennesima domenica, ascoltò le parole dell’amico Fofò: forse era ora di andarsi a confessare.

    « Padre Giacì...»

    «Cu è? Figliolo lo sai che, la fede sì, ma la vista non m’accompagna... »

    «Io sugnu, u figghio ri Giovà Senzatarì... Peppino Schiera.»

    «Gesù, Giuseppe e Maria! Quando ti diedi la comunione, non ti dissi ca meno ci venivi qua dentro meglio era? Ti assolvo da tutti i tuoi peccati e via discorrendo, nel nome del padre, del...»

    «Ma che sta dicendo, padre Giacì? Manco li vuole ascoltare i miei peccati?»

    «Sentì ‘ccà, Senzatarì, io già ho la mia età, i miei acciacchi, e cose ri vecchi ca tu non puoi capire... cerca ri farti una camminata da un’altra parte ca ci fai più figura.»

    «Ma io peccai, padre... mi sento sporco... ho bisogno della confessione!»

    «E che cosa mai combinasti ca ti abbisogna il perdono urgentissimo?»

    «Mi innamorai, padre. Persi la testa per una femmina... un grande pezzo ri sticchio! »

    «Fuori, Senzatarì! Fuori e non ti fare più vedere nella casa ri Dio perché il bastone ce l’ho messo da parte pi tìa!»

    N on c’era verso. Era andato in chiesa, aveva fatto le consegne della farina a suo padre al posto del garzone, l’aveva pedinata ad arte mentre insieme alla famiglia andava a comprare la carne da Don Mimmo Ferrazzo, che mentre i clienti non lo guardavano si mozzicava il palmo della mano e gli faceva segno che gli avrebbe fatto fare la fine del capretto. Ma la verità era una: Maruzza non se lo filava manco per sogno.

    «Fofò, io non saccio più che cosa devo fare... Mi feci prestare il vestito bianco dal figlio dell’avvocato Cimiciolla e manco co’ questo mi guardò ri striscio.»

    «Peppì, ti sei buttato su un partito sbagliato. C’era la figlia ri Mangiafuoco ca ti squagliava con gli occhi e tu manco l’hai degnata ri un saluto... Eppure quelli sono un bello partito per te, hanno trenta pecore, quindici capre, quattro maiali e un pollaio ca ci vogliono occhi a taliarlo... pensaci.»

    «Fofò, ma che minchia dici? Peppino ‘na parola sola ha... o Maruzza o m’ammazzo!»

    «Peppì, tu sei ‘gnorante e certe cose non le accapisci... Io, invece, ho fatto gli studi a Palermo e vidi altra società...»

    «Studi a Palermo tu? Ma se tuo padre ti raccomandò per la seconda elementare...»

    «Ma tu vuoi mettere la seconda elementare a Palermo con quella ri Trabia? A Palermo la seconda elementare a livelli internazionali è! Senti a me ca ste cose le so, domani fatti un bagno...»

    «E che è domenica ca mi devo fare il bagno?»

    «E tu fattillu u stissu... Ti presenti a casa ri suo padre, il casellante, gli porti un bellissimo mazzo ri fiori, e chiedi la mano ri sua figghia. È così ca fanno le persone per bene.»

    « E che me ne devo fare solo della mano? Io tutta la vogghio a Maruzza!»

    «Lo vedi ca sei ‘gnorante come la calia!?»

    Non fu cosa che gli consigliò Fofò, che Peppino l’indomani si andò a fare il bagno di mercoledì. Fu evento così strano assai che tutti i membri della famiglia, vicini di casa compresi, si allarmarono .

    «Donna Nina! Donna Nina!» gridava dal balcone la mamma di Peppino. «O mio figlio si prese la febbre oppure ri demonio si tratta: si sta facennu u bagno oggi ca è mercori.»

    I n quattro e quattr’otto la mala notizia si sparse in tutto il quartiere. Donna Nina, appena le riportarono il cattivo presagio saltò in piedi come un soldato e andò subito a chiamare Donna Cecilia, Donna Tatè e la signora Margherita che vista l’emergenza aveva chiuso la bottega perché sicura che si trattasse di spiriti maligni. Tempo niente tutto il gruppo di preghiera di via Arcanà si armò per la Guerra Santa e dalle vanelle, da tutte le stradine laterali, spuntarono devoti, esperti di malefici, conoscenti e gente che non ci appizzava niente.

    Appena Peppino uscì dal bagno tutto profumato e impomatato trovò ad aspettarlo fino alla settima generazione a venire nella stanza da letto perché, dai poverazzi, il bagno di casa sta proprio lì dentro.

    Sua madre piangeva disperata, sua zia Giustina aveva avuto un collasso e provavano a rianimarla con acqua e sale perché lo zucchero costava troppo

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