Ossessioni
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Anteprima del libro
Ossessioni - Francesca Crisi
1.
Sirmione, lunedì 20 settembre 1999
«Lei si ostina a volermi dare un passato, glielo leggo negli occhi. Vede, la vita mi ha offerto una nuova possibilità, ho solo il presente, quest’attimo in cui sono immersa. Il nostro destino è abbandonare chi amiamo ed essere abbandonati da chi amiamo, e allora perché ricordare, dottoressa? Lei è una dottoressa, giusto? Dovrà ricordarmelo più volte durante questo colloquio, così come il motivo della sua visita. La diverto con le mie amnesie? Se ci pensa bene, ho il privilegio di godere di quel che ho, e di non soffrire per quel che ho perduto. È difficile comprenderlo, me ne rendo conto, lei è giovane, il futuro è ai suoi piedi, ma gli anziani vivono di rimpianti, sa… per me, invece, contano solo le mie mani come sono oggi. Perché vuole io ricordi la bellezza delle mani di una ventenne? Non esistono più quelle mani, o meglio, esistono solo nel ricordo, ma non nel mio. Osservi con attenzione i miei movimenti, come inclino il capo o accavallo le gambe, raccontano di me molto di più questi gesti che non fatti e fatti messi uno accanto all’altro, non crede? Ci pensi bene, dottoressa, ogni ruga come ogni espressione del volto, così come ogni cellula del nostro corpo sono il risultato e il condensato di tutti i sentimenti che ci hanno attraversato. Sul corpo è scritta l’essenza della nostra storia. Mi guardi, dottoressa, lei è una dottoressa, giusto? Troverà più verità nel suo sguardo che si posa nel mio che non nei numerosi fatti che potrà rintracciare della mia vita. Non crede?».
Andrea spense il registratore e, dondolandosi sulla sedia, rilesse quel che aveva appena sbobinato; indubbiamente, Elsa Ginanni aveva mantenuto una notevole proprietà di linguaggio, nonostante la grave amnesia di cui soffriva. Chissà cosa si prova emotivamente, si chiese la giovane donna, a trattenere i ricordi per pochi minuti, al massimo per un’ora, non di più. Non la convinceva quello stato di calma interiore con cui la signora Elsa l’aveva accolta la mattina. Le pareva innaturale. Non aveva avuto la percezione, in quei trenta minuti di colloquio, della sua amnesia, le era sembrata una signora un po’ svagata, nulla di più; probabilmente, questa impressione dipendeva dal fatto che la sfera del linguaggio della donna per fortuna non era stata lesa.
La comprensione del mondo da parte di Elsa, come le avevano annunciato i medici nel breve colloquio di alcuni giorni prima, era paradossalmente ottima: lucida, chiara, intensa, anche se rapidamente ne perdeva il ricordo. Elsa era in grado di interagire con il mondo esterno e di ragionare, ma non di ricordare. La costruzione delle frasi, i termini appropriati e suggestivi erano tutto ciò che le rimaneva; del resto, pensò Andrea, era stata una scrittrice e tra le più apprezzate. E se la sua amnesia fosse solo un gioco?, si domandò. Anzi, più che un gioco, una precisa strategia per allontanare i curiosi, che come lei, volevano indagare e avere notizie su cosa le fosse accaduto negli ultimi mesi? E se la perdita di memoria fosse invece vera, come sostenevano i medici, cosa l’aveva provocata? Nessuno si era pronunciato con chiarezza, si parlava di un probabile forte stress emotivo come causa scatenante. Cosa era accaduto di così sconvolgente per la mente di Elsa da dover essere dimenticato? Era quello che lei intendeva scoprire.
Rilesse le parole della signora Ginanni sperando potessero in qualche modo illuminarla, ma non ottenne nulla, così chiuse il computer, si alzò e stiracchiandosi si affacciò al balcone della sua camera d’albergo. L’aria fresca di fine settembre la rinfrancò. Le piaceva quell’atmosfera fuori dal tempo che avvolgeva Sirmione, le trasmetteva un senso di malinconia e di attesa che non le dispiaceva. Il lago sonnecchiava e una leggera foschia nascondeva la costa di fronte dando allo sguardo la possibilità di perdersi in un’illusione di infinito.
Ma lei non aveva a disposizione così tanto tempo: solo una settimana per risolvere il mistero di quella donna, era stato chiaro il suo capo, poi tutto sarebbe stato archiviato.
Andrea era nervosa. Il doversi confrontare con una possibile perdita della memoria la turbava più del previsto. Se non hai un passato, aveva sempre pensato, non hai neppure un’identità, senza ricordi non sei nessuno. La serenità di Elsa Ginanni la infastidiva: non un attimo di smarrimento aveva percepito nei suoi occhi per tutto il colloquio, mai un accenno di paura. Recita a fare la smemorata, come poteva essere altrimenti? Ma questa ipotesi si scontrava con il parere espresso dai medici: amnesia globale transitoria per un forte stress emotivo.
Basta, si disse Andrea, se proseguo così esco fuori di testa, atteniamoci ai fatti e concediamoci una pausa.
Aveva scovato, il giorno precedente, una stradina in terra battuta che costeggiava il lago per alcuni chilometri: una corsetta al tramonto l’avrebbe distratta e rimessa al mondo. Un attimo prima di allontanarsi dal balcone vide la signora Ginanni al braccio della sua segretaria, così si era presentata la donna, attraversare il giardino dell’albergo e dirigersi verso il pontile che si allungava nell’acqua. Maria, questo era il suo nome, aiutò Elsa ad accomodarsi su di una poltroncina di vimini, poi si tolse le scarpe e si sedette accanto a lei sulle doghe di legno del pontile, con i piedi nell’acqua. C’era intimità tra le due donne, era evidente. Avrebbe dato chissà cosa per conoscere almeno parte dei loro pensieri, ed era soddisfatta di aver deciso di alloggiare nel loro stesso albergo, il Marconi: costava un pochino, e aveva dovuto faticare per avere l’approvazione del suo capo, ma ne era valsa la pena. Aveva così poco tempo a disposizione per risolvere il mistero che, al di là dei colloqui formali con Elsa, le era forse più utile osservare con discrezione la vita delle due signore. Ne poteva ricavare molte informazioni. Maria la incuriosiva. Quella donna sapeva più di quel che dava a intendere, doveva conquistarsi la sua fiducia e farsela amica.
2.
Dal diario di Elsa
Mercoledì, 3 febbraio 1999
Ho finito il mio ultimo racconto e ora il vuoto mi circonda. Quando scrivo il cuore pulsa di vita e di forti passioni, la mente è attiva e curiosa, le ore volano, e se riesco a procedere di buona lena sono felice e appagata. Ma ogni racconto ha una rapida fine. I romanzi mi garantirebbero un benessere più prolungato, ne sono consapevole, ma non sono capace a scriverli. Il romanzo ha bisogno di tempi lunghi, e io ho un carattere vorace, sono ingorda e mi stufo presto. E così, ora che ho finito il racconto, vengo nuovamente assalita da pensieri orribili e la realtà, da cui tento di fuggire scrivendo, mi soffoca. Sono piena di rabbia e di rancore, sentimenti utili a camuffare l’angoscia di questi ultimi anni, da quando ho avuto la chiara percezione di ritrovarmi, a sessant’anni, con un pugno di mosche in mano. Il mondo mi è crollato addosso. Ho molto amato e intensamente vissuto, ma ora tutto appare morto dentro di me. Il cuore è arido. E anche i rapporti con le persone care si sono consumati. Sono diventati vuoti e formali, mi galleggiano intorno, e moribondi sopravvivono, li tengo in vita per abitudine, per un senso di fedeltà più utile a me stessa che altro. Il dolore è intollerabile e non mi permette di cercare altrove ciò di cui ho bisogno. Ho perduto il mio paradiso, il tempo in cui la linfa vitale scorreva esuberante rendendo pieni i corpi e le anime. Non so farmene una ragione. Il presente è solo rimpianto, il futuro, nella migliore delle ipotesi, un inesorabile prolungamento del presente. E la scrittura, l’unica attività che mi dia sollievo, non è altro che finzione, creazione fantastica ed effimera, un surrogato della vita che dalla vita vera tiene lontani, un atto narcisistico… mi sbaglio, forse? Dio mio, quanto a lungo ho sostenuto che la scrittura può essere essa stessa vita!
Mercoledì, 10 febbraio 1999
Oggi l’aria frizzante e il cielo terso hanno reso meno lugubri i miei pensieri. Mi sono alzata di buon mattino, poco dopo la partenza di Alberto per Roma, e mi sono sentita felice, quasi con tutta la vita davanti e desiderosa di lavorare. Per qualche ora non ho avvertito quel dolore cupo che sempre mi provoca la presenza di mio marito. Lui mi ricorda costantemente un’intesa perduta. Incarna il fallimento di una relazione. Il silenzio del cuore. Non accetto che il desiderio si sia spento e sono stufa dei soliti giochini per rintuzzare una parvenza di passione. La tenerezza, che a volte ci accompagna, spesso è allontanata da rancori mai chiariti. Ma la mia disperazione nasce dal terrore di pronunciare la parola fine. Dalla mia dipendenza emotiva. La presenza di Alberto, il suo esserci, garantisce la mia esistenza, lasciarlo equivarrebbe a dissolvermi, e impazzirei se lui mi abbandonasse. Detesto questa dipendenza da cui non riesco a emanciparmi. Come con tutte le dipendenze ci sono caduta dentro a poco a poco, senza rendermene conto. E una volta che