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Ossessione
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E-book250 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Celeste, una ventisettenne dall'umore altalenante, ma dall'accentuata sensualità, riesce a stregare e a coinvolgere Mara, quarantenne disincantata e fedele al compagno Enrico, in una torbida ossessione amorosa. Ossessione che avrà un risvolto conturbante, insolito, e finirà per destabilizzare e per impartire una direzione inaspettata all'esistenza dei tre protagonisti.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2018
ISBN9788863938449
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    Anteprima del libro

    Ossessione - Angela Civera

     Capitolo 1

    Iole

    Tutto ciò che mi si riversa addosso in questa sonnolenta ora del mattino, il benessere, il calore dell’acqua termale della piscina all’aperto e il suo vapore sottile, m’induce a occhi socchiusi a rincorrere il passato. Così mi giunge la sonorità di una voce misurata eppure che sapeva essere sgradevole, arrogante, scaltra, quando era intenzionata a far passare per verità certe bugie. Celeste aveva stravolto la mia vita minando la mia consolidata storia con Enrico. L’aveva scardinata con la sua aria seducente da ruffiana, che aveva turbato me e stregato lui. Forse sarebbe potuta andare diversamente. Forse erano stati i dettagli a non funzionare.

    Celeste non era bella, ma strana e attraente, e la moda dei capelli corti le donava. Ambigua, sensuale, pallida, con labbra sottili segnate da una piega di disgusto, nello sguardo aveva un misto di torbido e di tenero che sapeva catturare. Eppure avrei dovuto diffidare perché, con il tempo, avrei conosciuto un’altra Celeste: inaspettata, gelida, poco compiacente e animata da una crudeltà sottile. Non c’è via di scampo per i cuori teneri, e Celeste tendeva a sbarazzarsi d’ogni cosa prima che questa perdesse d’attrattiva. Quanto ho sofferto, quanto sono stata gelosa e malata di lei. Non ci si abitua alla gelosia.

    Di tanto in tanto la ripenso con commiserazione: eternamente insoddisfatta, sapeva trasformarsi in genio della menzogna pur d’instillarmi il sospetto nel cuore, mentre sulla bocca le si disegnava una linea crudele. La rivedo annoiata, sprofondata nell’insoddisfazione, sempre pronta e intenzionata a buttarsi in esperienze al limite pur di riempire i vuoti della sua vita.

    Un sorriso mi si allarga sulle labbra. Non è il sottile piacere di rifugiarmi nel passato che mi riporta indietro, ma l’ozio e la pigrizia di questo momento mi conducono, senza che io riesca a opporre resistenza, ai vecchi ricordi.

    Sono quasi le otto. Ho nuotato per mezz’ora nella vasca deserta, mi sono tuffata, mi sono inabissata e sono tornata in superficie. Ho raggiunto il lato opposto e ho ripetuto il percorso all’indietro mantenendo il controllo costante dei muscoli, concentrata in quello che facevo. Il mio corpo di sessantenne attenta è ancora scattante. Per me si tratta quasi di un dovere morale. Ora, dopo lo sforzo che trasforma la fatica in una buona abitudine, galleggio in piscina. Questi momenti sanno di eternità. Il vapore sale dall’acqua calda, mi appanna lo sguardo e tenta, immateriale e volatile, di mischiarsi con la foschia sempre più luminosa. Il sole prova a farsi spazio, ad allargarsi tra la sottile nebbia di una piacevole mattina primaverile.

    Iole mi aspetta in camera; l’ho lasciata nel letto tiepido: il corpo morbido abbandonato su un fianco, i muscoli distesi e stanchi, le ginocchia piegate al seno, i lunghi capelli ramati sparsi sul cuscino, le palpebre abbassate sugli occhi vivi, azzurri e un braccio abbandonato sopra la coperta. 

    Le nostre valigie sulla moquette biscotto della stanza al quinto piano, quella con il terrazzo con la vista sulle morbide rotondità dei colli Euganei, sono a terra, ancora chiuse da quando siamo arrivate ieri sera. È rassicurante ritrovarsi nella camera di sempre, in quest’albergo, un elegante edificio d’epoca sapientemente ristrutturato, che da anni mi accoglie nei periodi di stanchezza. L’euforia che mi pervade all’arrivo, certa della calorosa accoglienza dei proprietari e del personale, non ha prezzo.

    Quello con Iole è un rapporto che invecchia bene ormai, nessuna sbavatura o errore. Un altro caposaldo della mia vita. 

    In questo momento, come molti clienti dell’hotel, anche lei sta concludendo la notte di sonno nella stanza. Solo chi è afflitto dai reumatismi e si cura con le fangature si è svegliato prima di me, per raggiungere il centro termale ricostruito esattamente com’era a inizio secolo. Poco fa, attraversando il corridoio del centro, prima di dileguarmi in piscina, dalle porte socchiuse ho intravisto gli ospiti racchiusi nell’intimità di piccole stanze, avvolti in teli e accuditi dalle mani abili dei massaggiatori esperti che, ogni giorno, spalmano il fango per farlo penetrare attraverso i pori nei corpi indolenziti. Quindi provvedono a lavare e a massaggiare la pelle per donare un certo benessere.

    L’odore sulfureo del fango, che ribolle in nuvole bianche, invade l’aria e s’innalza dalle vasche oltre la siepe che delimita la zona delle piscine. I vapori mi offuscano la vista, ma questa nebbiolina sembra destinata a dileguarsi presto. Il silenzio intorno è interrotto dal tubare cadenzato e ritmico dei piccioni e mi fa sprofondare in uno stato d’indolenza.

    Galleggio nel tepore dell’acqua, sposto lo sguardo al parco circostante e al cielo che lentamente si fa terso. Dalle spalle mi giunge il buongiorno del bagnino. Con la mano indolente gli rivolgo un cenno di saluto e dietro di lui intravedo i primi ospiti, reduci dalla colazione, che stanno iniziando a occupare le sdraio intorno alle piscine. Alcuni restano dentro, altri sfidano la stagione e raggiungono l’esterno, dove mi trovo anch’io. Un uomo atletico, dalle tempie bombate, la chioma canuta e lo sguardo stanco dietro gli occhiali, si dirige, sfogliando il quotidiano, verso una panchina del parco. Una donna, con la sigaretta fra le labbra carnose, è impegnata nella lotta disperata con l’accendino che rifiuta di funzionare e lei, irritata, sbuffa parole incomprensibili contro l’aggeggio. Tre amiche, suppergiù della mia età, sembrano disorientate e si spostano, con i teli di spugna stretti al braccio, in cerca di dove collocarsi. La più temeraria, la rossa che sfoggia un accappatoio lilla, si avvicina al bagnino e, con l’aria di quella che passa di lì per caso, chiede consigli sulla sistemazione migliore per il suo gruppetto.

    «Qual è il punto in cui si può stare al sole per più ore?»

    Il bagnino l’accompagna e le amiche la seguono. L’ambiente inizia ad animarsi di voci, seppure nel rispetto degli altri clienti in cerca di tranquillità e di quiete. 

    Decido di abbandonare la piscina. Mi serve del caffè scuro e forte per iniziare la giornata: il bagno nelle acque tiepide mi ha lasciato in uno stato semi-ipnotico di eccessiva tranquillità.

    La sala per la colazione è aperta da un po’ e il personale sarà già al lavoro. M’infilo sotto il getto gelido della doccia. Un brivido di freddo misto a piacere mi rigenera con una sferzata. Indosso l’accappatoio, delicato quanto una morbida carezza sul corpo, e compio con lo sguardo il giro della piscina prima di andar via. Con l’ascensore salgo dal piano terra alla mia camera. Mi cambierò per scendere nella sala della colazione. Mi risulta incomprensibile l’abitudine di chi si siede a tavola avvolto nel semplice accappatoio.

    Nella nostra stanza Iole, la bocca grande e sorridente, la figura giovanile dei suoi cinquant’anni, la camicia chiara aperta sul collo e i jeans che lasciano scoperte le scarpe da ginnastica, mi appare scandalosamente bella con quell’aria assente. C’è qualcosa d’intrigante in quel modo tutto suo di spostare i capelli dal viso. Le sfioro la guancia liscia con un bacio rapido e percepisco quasi il profumo di animale tiepido che, nonostante la fragranza vanigliata del bagnoschiuma, le è rimasto appiccicato addosso dalla notte precedente. Avverto una leggera tensione in lei, come se fosse rinchiusa nell’abbraccio di un nemico invisibile. 

    «Mara, ho aperto i bagagli e ho appeso anche i tuoi vestiti» m’informa con l’aria di chi si è tolto un peso. 

    Nella quotidianità sono io quella che appartiene al gruppo degli attivi, degli impazienti, di quelli che odiano perdere tempo inutilmente. Iole, al contrario, ha quasi paura di essere padrona della sua vita e ingrossa le file dei generosi, di quelli che si adoperano e si fanno in quattro per il prossimo.

    «In questi giorni sarebbe meglio evitare di farci prendere dalla fretta e sarebbe meglio non programmare, per non avvelenarci la vacanza» ribatto, in contraddizione con ciò che sono ma consapevole del fatto che alle terme non esistono urgenze. Non insisto però, perché percepisco un moto di disagio in lei. Mi trattengo e lascio perdere; è superfluo indurre gli altri a ridimensionarsi e ad allargare le proprie vedute. Conosco Iole, è riservata e poco propensa a esprimere pareri. Come tutti quelli di buon carattere, è una persona apprensiva, la infastidisce continuare a replicare. Incontestabilmente, riconosco che tutti abbiamo dei limiti, ognuno è fatto a modo suo e nessuno è come lo vorremmo. Iole sarà per sempre quella che è, indipendentemente da ciò che cerco di fare per convincerla a cambiare.

    I pensieri oziosi si stanno impegnando a disturbarmi. Li allontano. La giornata si prospetta rilassante. Tra poco, chissà, anche Iole rinuncerà alle sue manie altruistiche. Dopo la colazione, si prenderà cura di se stessa con il massaggio rilassante che ha prenotato all’arrivo al centro benessere.

       Capitolo 2

    Celeste – Enrico

    Celeste, quando la conobbi circa vent’anni fa, era venuta nel mio studio a Milano per un consiglio. Scorgendo in sala d’attesa, infossata nella poltrona di pelle scura, quella paziente dai tratti decisi, dal viso scavato da pesanti occhiaie e dallo sguardo attraversato da un’ombra di disagio, dovetti convenire che, a un’occhiata superficiale, la si sarebbe potuta scambiare per un ragazzo vestito in maniera originale. La sua ambiguità mi disorientò: emanava una strana malia. 

    «Buongiorno. S’accomodi.» 

    Si alzò incerta senza ricambiare il saluto e lasciò che s’insinuasse fra noi un silenzio profondo, che diede voce alla città che pulsava fuori da lì. Lasciammo la stanza semibuia per entrare nel cerchio di luce del mio studio. Si accomodò di fronte a me, rigida, con il corpo dritto sotto il cappotto antiquato color smeraldo intenso che, lasciato aperto, scopriva un maglioncino arancione sopra un busto fragile e gambe lunghe, sottili, fasciate in pantaloni bordeaux démodé. Unica nota di modernità nel suo abbigliamento, notai, quella che rendeva il suo stile misto così particolare, erano i mocassini nuovi fiammanti di vernice rossa. Si presentava avvolta da un mix violento di colori, un’emulsione cromatica, quasi una scossa se associato al bagliore dei capelli in bilico fra il biondo e il bianco. Li portava corti sulla nuca rasata ad arte, che evidenziava la pelle sottile e trasparente. Sulla fronte le ricadeva indisciplinato un ciuffo lungo e liscio. 

    In attesa d’infrangere il momento d’iniziale imbarazzo, appoggiai il busto allo schienale della mia poltrona e accavallai le gambe, quindi mi rivolsi alla paziente. Da anni esercito con serietà la professione di dietologa e ottengo buoni risultati. La clientela non manca; passo ore ad ascoltare individui che vorrebbero perdere chili e altri che desiderano ingrassare. So essere cordiale, ma con la giusta distanza.

    «Perché ha scelto di venire da me?» indagai.

    Celeste non rispose, quasi si fosse scordata di dove si trovava. Esalò con fatica un respiro, mentre i minuti trascorrevano eterni per una come me, abituata a rincorrere il tempo. Sembrava inabissata in un nulla dal quale è difficile riemergere. La sua borsa, una capace e consumata sacca rossa da persona pratica, era semiaperta, posata con noncuranza a terra accanto a lei. La fissò e indugiò, la bocca sigillata come se non riuscisse a trovare le parole, sepolte in qualche angolo della memoria.

    Attesi, prima di sollecitarla di nuovo. La scrutai senza imbarazzo, accettando il rischio di metterla a disagio e di ricevere una risposta insofferente. Sembrava disorientata.

    D’un tratto, però, con voce vaga iniziò a raccontare: «Sto attraversando un periodo difficile. Sono tormentata dalla nausea e mangio pochissimo».

    La invitai a fornire più dettagli.

    Si fermò incerta a riflettere, come fosse disposta a far sapere solo l’indispensabile. L’avvio del nostro rapporto non sembrava dei più promettenti. 

    Improvvisamente il cielo si fece nero; lo studio fu inghiottito dal buio e scoppiò un temporale fuori stagione, tra tuoni fragorosi e boati che si propagarono all’interno. La finestra ci separava dalla pioggia battente che sembrava cercasse di penetrare attraverso il vetro. Avevo acceso la lampada a braccio sulla scrivania e gettato un’occhiata preoccupata alla paziente. Non posso dire che mi interessassero in maniera particolare le sue paure, ma con i rombi avevo percepito una strana inquietudine in lei. A occhio e croce avevo giudicato la donna un po’ sofferente, seppure non ostentasse un malessere visibile. Sospettavo che di lì a poco l’avrei trovata ansimante oppure paralizzata dal frastuono tanto violento. Celeste però, con le spalle leggermente incurvate, la mano abbandonata in grembo e il respiro leggero, sembrava più stupita che spaventata. Come se quella sorta di tempesta d’autunno, arrivata a squarciare il torpore di una giornata novembrina, l’avesse semplicemente colta impreparata. Quella reazione m’incuriosì. C’era qualcosa d’ambiguo nel suo modo di fare.

    «Si presentano spesso gli episodi di nausea?» la sollecitai, riportando l’attenzione al suo disturbo, intenzionata a valutare i sintomi.

    «Sì» affermò dietro un sorriso tirato che non si obbligava a essere spontaneo; non aggiunse altro. Ridestò lo sguardo e scandagliò con fare attento lo studio, dove da anni svolgo la mia professione. Le avevo scrutato la pelle del volto tentando di definire la sua età, mentre, lievemente seccata, rimanevo in attesa che si decidesse a spiegare con chiarezza. La scarsa luce rendeva difficile individuare segni profondi sul suo viso, fatta eccezione per piccole rughe agli angoli della bocca e altre concentrate in mezzo alla fronte. Era molto più giovane di me, dedussi; poteva avere da poco raggiunto i vent’anni. I miei, al contrario, erano quasi il doppio: ne avevo compiuti trentanove la settimana prima.

    Enrico, il mio compagno, mio coetaneo, come regalo mi aveva fatto recapitare dalla gioielleria di fiducia un girocollo di corallo rosso sanguigno. Un dono che aveva soddisfatto la mia vanità. Enrico era ricercatore universitario e i suoi impegni lo portavano spesso in trasferta. Mancava da casa da circa quattro settimane e la sua assenza si sarebbe prolungata per altri sei mesi. Una prassi, non certo una novità, perché lavorava molto all’estero ed era impegnato ventiquattro ore su ventiquattro.

    C’eravamo messi insieme a quasi trent’anni quando lui, dopo avermi incontrata, era riuscito a districarsi dalla relazione che da più di un anno aveva intrecciato con Agnese, una divorziata cinquantenne con una figlia di diciotto anni che studiava a Londra, dove si era stabilita con il padre. Non avevo mai avuto modo di conoscere o vedere quella donna. Ricordo solo la sua voce astiosa che, per un periodo prolungato, mi aveva augurato ogni giorno per telefono una sorte simile a quella che era toccata a lei con l’abbandono di Enrico. 

    Grazie a Dio, i suoi pronostici, senz’altro frutto della mente d’una persona sfiduciata, non si erano realizzati. Enrico e io eravamo una coppia ben assortita, con certezze granitiche, innamorati l’uno dell’altra. Il nostro amore si basava sulla reciproca attrazione, carica di vibrazioni, ed era migliorato nel tempo. All’inizio la gelosia aveva tentato d’insinuarsi fra noi, ma eravamo sufficientemente lucidi per capire che la fonte della felicità consiste nell’astenersi dalla possessività. Dopo nove anni ci desideravamo ancora. Avevamo la sicurezza di esserci scelti bene e potevamo constatare che era sulle sue trasferte, sull’alternanza dei periodi trascorsi da soli e di quelli condivisi, che si reggeva la nostra solidità di coppia e la voglia di cercarci.

    L’amore non esige spiegazioni razionali, ma potevamo affermare che la nostra fosse una bella realtà, con problemi veri che allontanavano le inutili seccature dettate dall’eccessiva emozione. Vivevamo un rapporto non scosso da frustrazioni personali o dalla sfiducia. Conducevamo una vita appagante, mai avvelenata dalle nevrosi, e riuscivamo a evitare pensieri spinosi, la degradazione del sentimento e tutti i conflitti inerenti all’egoismo. In questo modo, indaffarati entrambi dalle nostre professioni, potevamo portare avanti gli impegni serenamente. Il lavoro riempiva parecchie delle nostre ore e io spendevo con entusiasmo il tempo nel mio studio, dove in quel piovoso giorno di novembre mi stavo occupando di Celeste, che non si decideva a fornire dettagli.

    Un forte boato nella stanza squarciò il forzato silenzio. Mi riscossi dalle riflessioni sul mio rapporto con Enrico e riportai l’attenzione alla paziente. Nei suoi occhi infossati, bui e senza un lampo di luce, sentii come se stesse cercando di inquadrare chi fossi: una donna dalla mascella forte, con la pelle olivastra, lo sguardo deciso, i capelli lunghi, ben curata nell’aspetto, che indossava con disinvoltura e insistente ricercatezza un abito, tutt’altro che banale, del proprio stilista preferito.

    Impaziente per quell’indagine invasiva, mi mossi infastidita. A nessuno, senza il mio consenso, è dato cercare di conoscermi.

    L’atmosfera si stava appesantendo. Insabbiai però il disagio e l’irritazione. Sono una persona cauta, di buonsenso e oculata nella gestione dei rapporti. Cercando di essere tollerante, tornai al disturbo della donna e le domandai: «Le risulta difficile ingerire tutti i cibi?».

    Una sorta di smorfia le contrasse le labbra; le inumidì con la punta della lingua e mosse in un gesto vago la mano ma, finalmente, si decise a fornire dettagli: «Il cibo per me è un pensiero ossessivo. È l’estraneo che mi fa stare male. Mi sento prigioniera di un vortice che mi travolge: la testa si svuota e la nausea sale dallo stomaco quando tento di mangiare».

    «Che cosa dice il suo medico?»

    A quell’osservazione, si ritrasse come per uno schiaffo ben assestato e mi liquidò con irritazione. «Il mio medico incolpa di tutto lo stress.» Intrecciò nervosa le dita.

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