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L'ammazzafavole
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E-book200 pagine2 ore

L'ammazzafavole

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Narrativa - romanzo (147 pagine) - Lucilla, dodici anni e un’innocenza rubata troppo in fretta. Il coraggio di una giovane donna che trova la forza di opporsi ad anni di dolore e ipocrisia, portando con sé un unico desiderio: svegliarsi senza paura.


Abusi, rabbia e indifferenza sono gli scenari quotidiani della vita di Lucilla Carminati, ragazzina timida e introversa, che vede la sua innocenza spezzarsi fin dall’età di dodici anni, vittima degli abusi di un cugino viziato e protetto dalla famiglia materna.

Offuscata da una madre che preferisce tacere, anziché urlare, e ignorata da un padre assente e poco incisivo, Lucilla, in una afosa giornata di luglio, appena dopo il diploma, decide di fuggire dalla sua casa di Napoli per raggiungere l’amica Elena, studentessa a Ferrara.

Nonostante i dolorosi ricordi e i feroci incubi che la attanagliano, Lucilla riesce a costruirsi la vita che ha sempre sognato, studiando architettura di giorno e lavorando come cameriera la sera. Ma quel passato, che le aveva divorato l’anima, un giorno busserà di nuovo alla sua porta, senza lasciarle più alcuna via di scampo.

In un crescendo di emozioni, Lucilla troverà il coraggio di reagire e di iniziare un lungo e tortuoso percorso verso quell’identità di donna da sempre agognata.

Forza, determinazione e solidarietà tutta al femminile, saranno i nuovi scenari della vita di Lucilla, una donna che subisce, piange, cade, ma che si rialzerà sempre; simbolo di donne che soffrono in silenzio, ma che cercano il loro riscatto, senza paura.


Nunzia Caricchio è nata a Napoli nel 1991. Diplomata in beni culturali, è orlatrice di scarpe, borse e portafogli. Amante della scrittura e lettura da sempre, di giorno veste gli abiti di moglie e madre; di notte, invece, si abbandona al ruolo di scrittrice. L’ammazzafavole è il suo romanzo di esordio.

Sara Ossi è nata a Copparo nel 1975; oggi vive a Ferrara con marito e due figli. Laureata in Giurisprudenza, si è occupata di credito per quasi dodici anni. Il romanzo di esordio, In un'altra vita (Alcheringa Edizioni, 2017), ha ottenuto un buon riscontro di pubblico e alcuni riconoscimenti in premi letterari. Uno dei suoi racconti, Dentro il campanile, è stato selezionato e inserito nell’antologia per i festeggiamenti del sessantesimo anniversario del premio Nobel di Salvatore Quasimodo.

LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2019
ISBN9788825409475
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    Anteprima del libro

    L'ammazzafavole - Nunzia Caricchio

    Quasimodo.

    Solo i veri guerrieri della vita

    riescono a lottare con le proprie paure,

    fino a vincerle.

    Nelson Mandela

    Prologo

    Uno, due, tre, quattro. Se inizio a contare, forse, questa sensazione andrà via; almeno per un po’.

    Sento la barba graffiarmi l’incavo del collo, mentre la saliva mi inumidisce la spalla e il petto; è appiccicaticcia e maleodorante. Ho la nausea.

    Cinque, sei, sette, otto, nove. Non devo smettere di contare. Devo pensare ad altro, altrimenti…

    Le mani sono fredde e ruvide, e troppo grandi per il mio corpo. Le sento premere ovunque con forza, mentre il suo peso mi schiaccia e mi spinge, prima su, e poi giù.

    Chiudo gli occhi e trattengo il respiro: rallenta, sembra stia per fermarsi, ma ricomincia.

    – Ti prego, smettila, mi fai male.

    Inizio a lamentarmi, e con la mano sinistra cerco di allontanarlo, battendola sul braccio tatuato.

    – Ferma, tesoro – ansima lui.

    – Basta, vattene via!

    Oscilla sempre più veloce, con più energia, mentre dentro di me sento rompersi ogni organo, ogni vena, ogni arteria. Percepisco i lineamenti del mio viso accartocciarsi in smorfie di dolore lancinante; e voglio solo che tutto questo finisca, che lui scompaia e mi lasci sola, ma non so quanto ancora ci voglia.

    Dieci, undici. Conta, Lucilla, conta. Dodici, tredici, quattordici. Resisti.

    Guardo i coni di luce attraversare i buchi semiaperti della tapparella, e proiettarsi sul pavimento. Vorrei poterli afferrare e farmi trascinare fin dove nascono, per non ritornare mai più in questo letto disordinato, sporco, non più solo mio.

    – Ti farò diventare donna. – Mi bacia la punta del naso. – Sono io l’uomo perfetto per te.

    Di uomo, lui non ha niente. Nemmeno la scritta man stampata sulla confezione del dopobarba. Mi fa ribrezzo.

    I pezzi della casa delle bambole sono ancora sparsi in giro, li ha presi a calci per rincorrermi. Ci avevo messo quasi un anno per costruirla tutta.

    E ora, la mia Susy dove dormirà? Dove mangerà? Dove si vestirà?

    Tra i frammenti di legno e plastica, cerco con lo sguardo la bambola. Non la trovo. Ho bisogno di lei.

    Lui è ancora su di me, e dalla fronte gli cadono gocce di sudore che mi puntellano il viso. Strizzo le palpebre.

    È disgustoso.

    La voce gli arranca tra i sospiri, e una zaffata mista ad aglio, aceto e birra mi si appiglia alle narici.

    Trattieni il fiato, Lucilla.

    Solleva il capo, poi inarca la schiena. Chiude gli occhi, li riapre di scatto e sorride. Lo odio.

    Non mi muovo ancora; le gambe tremano, il cuore romba feroce, ma è spento.

    Il letto cigola, e l’orco si libera della mia carne. Tira su il pigiama; movimenti rapidi e scattanti, i miei stanno per rientrare. Adagio, si chiude la porta alle spalle.

    Nella mano destra stringo qualcosa: ecco dov’era finita la mia Susy!

    È stata con me tutto il tempo, me ne ero dimenticata!

    La lancio dall’altra parte della stanza. Non ha funzionato; volevo che lui la guardasse, che toccasse lei, perché così avrebbe capito che non ho smesso di giocarci.

    Abbasso la camicia da notte, mi rannicchio sotto il piumone e lascio che una lacrima trovi sepoltura sul cuscino.

    Lucilla

    Luglio 2012

    Lo apro, lo chiudo, lo riapro.

    Appoggio la punta della matita sul foglio bianco, la sollevo, ma l’umidità della mano la fa scivolare di nuovo sul blocco da disegno. Inizio a tracciare alcune linee, ma non mi riescono diritte: onde minuscole e indecise confessano al posto mio.

    Calma, Lucilla, respira.

    Raddrizzo la schiena e cerco di far entrare aria nei polmoni, ma il caldo torrido che da settimane schiaccia Napoli non mi fa respirare. Nemmeno l’ombra di questo salice, solitario quanto me, è capace di donare sollievo ai miei tormenti.

    Ci rinuncio! Non potrò disegnare niente di buono, se ho le mani sudate dall’afa e dall’ansia. Ripongo il blocco e le matite nello zaino. Provo a regolarizzare i battiti con respiri profondi. Chiudo gli occhi alla ricerca di un po' di calma, ma lo schiamazzare che fa da colonna sonora a questo giorno di fine anno scolastico mi spinge a riaprirli. Voglio guardare la baraonda di adulti a metà, assetati di mare, spiaggia e indipendenza. Smettila di guardarli, ti farai solo altro male. Tu non sarai mai come loro. Si spintonano, si rincorrono, si baciano sotto i porticati dell’edificio barocco di fronte a me. Per cinque anni è stata la mia prigione e il mio riparo, testimone silente di una guerra che ho combattuto da sola, e ora sono in attesa dell’agognato armistizio.

    Uffa, ma quanto ci vuole ancora?

    Matteo della quinta C mi passa davanti, fa un cenno di saluto con la mano; i suoi occhi puntano le mie gambe. Allungo la gonna oltre le ginocchia. Avrei dovuto mettere i jeans, come al solito; così avrei potuto respingere gli sguardi di occhi sudici, che sembrano non aver mai visto gambe scoperte. Schifosi!

    Dietro di lui, quelle oche di Luisa e Antonella ridono sommesse, guardando nella mia direzione. Che cazzo avete da guardare? Come se non mi avessero mai vista seduta da sola sotto questo albero. Camminano tranquille in pantaloncini di jeans e canotta, sfoderando il corpo con orgoglio, come in una sorta di competizione a chi indossa meno vestiti. Abbasso il capo vergognandomi al posto loro. Okay, devo smetterla di giudicare.

    Porto la mano alla bocca e inizio a mordicchiarmi un'unghia.

    D’improvviso la Capuozzo esce dalla segreteria con alcuni fogli in mano. Tutti la seguono impazienti, mentre li attacca oltre il vetro della bacheca.

    – Piano, ragazzi, non spingete.

    Una folla si accalca, si spintona, quasi si calpesta, ansiosa di conoscere i risultati. Maturo o non maturo?

    Mi alzo in piedi, ma non mi muovo dall’ombra del mio salice. Guardo da lontano quelle schiene, mezze ingobbite dal peso dei libri, dall’età, dalla paura e dall’ansia di conoscere i risultati, che li porteranno a costruire nuove vite.

    Dietro quel vetro c’è anche il mio domani, ma aspetto di essere sola per sapere che ne sarà di me. Non sopporterei il tocco casuale di mani e braccia; soffocherei sotto sguardi interrogativi e indifferenti; le mie orecchie sussulterebbero per ogni commento.

    Alcuni esultano, altri si disperano, qualcuno sferra un pugno al muro, altri ancora si impettiscono orgogliosi. Sorrido: vorrei far parte anch’io di quello sciame spensierato.

    E quando finalmente la bacheca resta un’isola nel cemento, mi avvicino. Individuo subito il foglio della mia sezione; stringo le palpebre, il naso all’insù e le mani giunte a preghiera cercano di calmare i battiti del cuore. Il dito scorre sul vetro, fino alla lettera C. Eccomi! E mentre lo trascino in orizzontale verso il risultato, una voce baritona mi fa sussultare.

    – Carminati! Tu devi avere qualche Santo in paradiso.

    Se l’avessi a quest’ora non vivrei all’inferno. Vecchiaccia malefica! Mi giro, accenno un falso sorriso e annuisco.

    – Sei passata per un soffio – continua alzando il mento e guardandomi di sottecchi.

    – Grazie, professoressa. – Crepa, stronza!

    – Non è certo me che devi ringraziare. Comunque mi auguro che da domani in poi metterai più impegno nelle cose che farai.

    – Farò del mio meglio, professoressa – rispondo sincera.

    – Allora comincia a non mangiarti più le unghie.

    Strappo via le dita dalla bocca e accenno di nuovo un sorriso. Da domani non sarò più costretta a vedere questa tua faccia da strega! Fa un verso di disappunto e sparisce in segreteria.

    Appiccico il naso al vetro, tanto per essere sicura delle parole della professoressa di pittorico. Sessanta! Sì! Sì! Sì! D’un tratto mi rendo conto che il mio domani è giunto, corro verso il portone d’uscita incurante di tutto ciò che mi circonda. Nulla di tutto questo mi appartiene più.

    Mi guardo intorno, le mani strette a pugno, e una lacrima si affaccia ai bordi del viso. Alzo lo sguardo verso il cielo, come a voler ringraziare quel Dio che, forse, ha deciso di esserci anche per me.

    Salgo in sella al motorino e parto senza esitazione. Per la prima volta dopo tanto tempo il futuro mi sorride.

    Ora mi tocca vivere, sul serio.

    Imbocco Largo Donnaregina, spuntando in via Duomo dove la fila di negozi è oscurata dalla coda di macchine parcheggiate. Intorno a me una donna spinge il passeggino, un vecchietto si aggrappa al bastone e due fidanzati si tengono per mano. All'entrata dei Vergini mi accoglie l'insegna luminosa, ispirata alla famosa poesia Core analfabeta di Totò.

    Sfreccio per i dedali di vicoli stretti, lasciando che il vento, con il suo tepore, si aggrappi alla pelle. La musica, che echeggia dai balconi, mi investe. Sorrido e inizio a canticchiare pure io. Rallento, voglio che i miei occhi vedano un’ultima volta questo antico presepio, prima che venga inghiottito dal tempo. I panni stesi, che sventolano all’aria, sembrano salutarmi; scugnizzi che si rincorrono con le pistole ad acqua; il vociare dei venditori ambulanti di cocco e di trippa, mi commuove; fruttivendoli e pescivendoli con le loro bancarelle che esplodono di colori; l’odore di caffè, che da domani non sarà più amaro, ma avrà un sapore nuovo.

    Napule è mille culure cantava Pino Daniele. Colorato come sarà il mio domani, dopo ieri.

    Un motorino mi affianca, il ragazzo tenta di dirmi qualcosa, ma non lo sento. Non voglio sentirlo. Accelero, lasciandolo indietro.

    All’imbocco di vico Lammatari rallento. Sono sotto casa.

    Questa non è più casa mia.

    Sguardo basso, attraverso il cortile senza nemmeno salutare zia Linda e zia Annabella che pettegolano. Faccio i gradini a due a due. Devo sbrigarmi!

    Entro di corsa, dirigendomi spedita verso la mia stanza. Prendo da sotto il letto la valigia mezza fatta da qualche giorno. La apro e la contemplo incerta.

    – Ma che sto facendo? – Mi siedo sul letto con il pigiama a fiori tra le mani. – Sei sicura che scappare sia la soluzione giusta?

    Sì, sì, sì! La solita vocina che da mesi mi tiene compagnia. Non puoi stare un minuto di più in questa casa.

    Mi alzo di scatto e inizio ad aprire i cassetti per finire di riempire la valigia. Saetto da un mobile all’altro con il cuore che galoppa feroce e i denti che brucano le unghie.

    Non fermati, Lucilla, va tutto bene. Puoi farcela.

    – Mi serve la biancheria. – Chiudendo un cassetto, faccio cadere qualcosa. Noto il quadretto con la cornice rossa a faccia in giù. Lo sollevo e piego le labbra malinconica: una bambina con le treccine nere, gli occhietti ingenui e un sorriso che non esiste più.

    Niente esiste più, di quella bambina.

    La foto mi ritrae vestita da cappuccetto rosso, un cestino di paglia sottobraccio e il solito entusiasmo della prima recita scolastica.

    Di scatto, la rimetto a faccia in giù. Mi volto e lascio che la schiena, abbandonata contro il comò, scivoli verso il pavimento; le braccia sulle ginocchia e la testa nascosta dentro la torre dei miei arti. Perché? Singulti improvvisi sembrano pulirmi dentro.

    Perché?

    Non avrei mai immaginato che quel ruolo da cappuccetto rosso, iniziato con tanta gioia sul palco della scuola elementare, sarebbe continuato per anni, fino a oggi.

    Nella favola il lupo mangia cappuccetto rosso, ingannata da un aspetto familiare, ma, alla fine, cappuccetto si salva, il cacciatore riesce a sentire le sue grida d’aiuto provenire dalla pancia del lupo e così mette in salvo lei e la cara nonnina.

    Dov’è il mio cacciatore? Nella pancia del lupo non ci voglio più stare. Ci sono da troppo tempo in questa lurida e rivoltante trippa.

    Mi asciugo le lacrime, mi alzo e, senza alcuna esitazione, continuo a svuotare la stanza.

    La cameretta è il rifugio sicuro di ogni bambino, dal quale lasciare fuori tutto il resto del mondo, tutta la rabbia, tutte le paure. È il luogo che cresce insieme a te e che scandisce il tuo diventare grande, finché non decidi di portare le tue ali altrove.

    Non per me. Io odio questa stanza. Odio la porta scheggiata che non riesce a tenere a bada l’infamia che c’è fuori; odio lo specchio alla parete, perché mi guarda e osserva l’immagine di me che non è me; odio l’enorme armadio che cigola, portando spia di dove sono; odio la moquette che attutisce i passi e inghiotte i rumori; e odio questo letto, nel quale si è sdraiato il lupo cattivo per sgualcirmi i sogni.

    Lucilla, tu sei il cacciatore di te stessa. Forza!

    E odio la sedia a dondolo su cui mia madre mi cullava quando ero neonata, ma ancor di più odio i suoi silenzi, il coraggio che non mi ha insegnato, l’ipocrisia con cui mi ha fatto diventare donna.

    Per l’amor di Dio, pensa al buon nome della famiglia, mi sembra quasi di sentirla.

    Mi guardo intorno: i cassetti, l’armadio, le mensole sono pieni di cose che non mi appartengono più.

    Basta, devo andarmene prima che rientri. La fretta guida le mie mani: infilo più vestiti che posso, biancheria, tre paia di scarpe, un piumino per quando farà freddo. Dalla doga del letto tolgo la busta con i contanti accumulati negli ultimi due anni. Con questi comprerò ciò che non posso portare con me.

    Per ultimo, infilo il blocco da disegno e le matite.

    Anche questa è fatta, prendi lo zaino e vattene.

    Susy mi osserva, seduta sul cuscino. La prendo e le accarezzo i capelli, come facevo sempre da bambina.

    – Hai fatto il possibile, lo so. – La stringo al petto e inspiro: non sa più di zucchero e favole. Lui le ha ammazzate.

    Rimetto la bambola dove l’ho trovata; continuerà a sorridere, osservando il mondo seduta sul cuscino.

    Mentre chiudo la cerniera della valigia, il cigolio del pomello mi immobilizza. Un groviglio di sgomento e inquietudine mi impedisce di deglutire. Blocco l’aria nel petto, sento le gambe cedere.

    Un bruciore violento mi attacca la vescica; le palpebre si stropicciano, rifugiandosi nel buio.

    Ti prego, ti scongiuro, fa che non sia…

    – Lucilla.

    La voce smorzata di mamma mi permette di prendere fiato. Risollevo le palpebre e rilasso le spalle. Respiro di nuovo. L’esile figura si affaccia dalla porta; i capelli sciupati, il solito scialle a coprire le spalle ricurve. Lo sguardo le rimbalza da me alla valigia. Sento il tremolio del suo respiro pesarmi sul cuore.

    Non riesco a pronunciare nemmeno una parola.

    Ce l’hai quasi fatta. Forza, Lucilla, forza!

    – I r… risultati degli esami? – chiede incespicando con le parole.

    – T'interessa solo questo? – La rabbia accompagna le mie parole. – Perché non mi chiedi dove sto andando, con una valigia e uno zaino in spalla? – concludo, sorpresa di me stessa.

    – Lucilla, ti prego, ragiona – dice. – Cosa dirò a tuo padre, lui non… – si ferma.

    – Sì, lo so

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