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Il labirinto occulto
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E-book311 pagine4 ore

Il labirinto occulto

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Info su questo ebook

Anno del Signore 1503. Nel castello di Gorizia un mercante veneziano viene trovato strangolato nella sua stanza. Il gastaldo di Gorizia vuole fare luce sul delitto e incarica dell’indagine Tiberio di Castro, speziale romano in esilio. Affiancato dalla figlia della vittima, l’affascinante e colta Isabella, e da un misterioso frate, Tiberio inizia un’indagine che lo porta sulle tracce di un’antichissima civiltà. Per dare giustizia alla vittima e recuperare il prezioso manoscritto, lo speziale dovrà fronteggiare le incursioni dei Turchi e sconfessare falsi demoni, in un’avventurosa fuga lungo le coste dell’Istria fino alla Repubblica di Venezia. Nel frattempo a Roma muore il papa maledetto, Alessandro VI, e una forza oscura prepara la strada al compimento di un’inquietante profezia…
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2017
ISBN9788863937084
Il labirinto occulto

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    Il labirinto occulto - Luca Filippi

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    ORME

    Il labirinto occulto

    Luca Filippi

    Luca Filippi

    Il labirinto occulto

    ISBN 978-88-6393-111-2

    © 2013 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Atlantide: colui che l’ha creata l’ha anche distrutta.

    Motto attribuito ad Aristotele

    La popolazione ha derivato il suo nome da quello del monte:

    si chiamano infatti Atlanti.

    Affermano di non cibarsi di alcun animale e di non sognare.

    Erodoto, Libro IV, Storie

    Ad Antonella,

    perché insieme abbiamo bevuto il Buio

    PIANTA DI CAPODISTRIA

    PROLOGO

    Anno del Signore 1503

    Le sue mani non tremavano mai. Non lo avrebbero tradito proprio adesso, nel compimento della sua missione.

    Avrebbe voluto provare dolore, o almeno pentimento. Invece non sentiva niente. Le sue tempie pulsavano con regolarità, la bocca era asciutta, non una goccia di sudore nonostante il caldo. Solo un vuoto che stordiva, ma anche questa sensazione presto sarebbe passata.

    Prese la scala a chiocciola che portava al piano più alto della torre. Attraverso le feritoie poteva scorgere la vallata, la sagoma dei tigli, il riverbero argenteo del fiume, e uno spicchio di luna, nascosta tra i cirri violetti.

    Una calma innaturale. A giudicare dal rombo che giungeva da lontano, da un punto imprecisato tra i monti, fra non molto si sarebbe scatenata una tempesta. Meglio, considerò: il vento avrebbe attutito ogni rumore.

    Procedeva nell’oscurità, senza la fiamma di una candela a orientare i suoi passi: anche al buio, riusciva a vedere. Aveva studiato il percorso con attenzione, contato i gradini e saggiato le asperità del pavimento. Non poteva permettersi la minima incertezza.

    Il resto della notte aveva pregato il Signore perché gli concedesse la forza. Solo quando si era sentito pronto, aveva varcato l’uscio della sua camera e si era diretto verso la stanza del mercante.

    Era certo che nessuno avrebbe notato la sua presenza. Un’ombra tra le ombre di quel castello.

    La porta della camera era chiusa a chiave. Se l’aspettava e non sarebbe stato un problema. Portava con sé l’occorrente. Estrasse un pugnale dalla tasca della tunica. La vita precedente gli aveva insegnato molte cose, anche una certa pratica nello scasso.

    Gli furono sufficienti poche mosse, e la serratura cedette. Con lentezza, schiuse l’anta della porta.

    Il legno era vecchio, le giunture arrugginite. Questo non l’aveva previsto.

    Uno scricchiolio. Appena percettibile nel risuonare cupo del vento.

    Ma il mercante aveva il sonno leggero, o forse dormiva con un occhio aperto. Si issò a sedere con un balzo come se fosse stato morso da una serpe.

    Movimenti nell’ombra. Forse la vittima stava cercando a tastoni un’arma o un acciarino. Per vedere in faccia il suo aggressore, per difendersi. Per salvarsi.

    Inutile. Non sarebbe servito.

    «Chi è là…» gridò l’uomo, ma non riuscì a terminare.

    L’assassino gli fu addosso. Lo scaraventò a terra e lo immobilizzò con la forza delle braccia e delle cosce muscolose.

    Gli mise le mani alla gola e cominciò a stringere.

    Calcolò il tempo sufficiente perché il mercante potesse avvertire la mancanza d’aria, e sentisse gli artigli gelidi della morte.

    Poi allentò la presa, appena un poco.

    «La chiave. Dimmi dov’è» un sussurro all’orecchio. Solo quelle parole. Lui avrebbe capito.

    Ma forse il vecchio non teneva molto alla propria vita. Con forza inaspettata iniziò a scalciare e a dibattersi, a mugolare attraverso rivoli di saliva.

    Stava facendo troppo rumore, presto qualcuno si sarebbe svegliato e sarebbe accorso a controllare.

    Non aveva scelta.

    Strizzò il collo del mercante. Pochi istanti di agonia, e tutto ebbe fine.

    Si alzò in piedi, e si guardò intorno.

    Le cose erano andate storte. Doveva rimediare. In fretta. Fra non molto sarebbe sorto il sole.

    Come una furia cominciò a rovistare nella stanza, cercando alla rinfusa tra le carte arrotolate, in mezzo alle pagine dei manoscritti, nel fondo delle borse. Niente.

    Forse la chiave non era in quella stanza.

    Per un attimo si sentì perduto.

    E poi accadde. Di nuovo.

    Il respiro corto, le narici dilatate a cercare aria, le palpebre ridotte a fessure.

    Davanti ai suoi occhi si materializzarono i frammenti di una realtà che era ancora sogno, possibilità. Eppure riusciva a vederla. La catena degli eventi che, proprio con quel delitto, aveva innescato.

    Uno dopo l’altro i tasselli trovavano un incastro, componendosi in un mosaico.

    Qualcuno sarebbe stato incaricato di indagare sull’omicidio. Non restava che attendere.

    Le labbra si incresparono in un sorriso.

    Si coprì il volto con il cappuccio, e scivolò via.

    1

    Gorizia, castello del capitano

    I demoni amano il sangue.

    O almeno così sosteneva il manoscritto. Un trattato inglese di negromanzia, vecchio di alcuni secoli, con precise annotazioni sul rituale per l’evocazione dei diavoli. L’autore si raccomandava, tra le altre cose, di usare sangue arterioso, il cui intenso color rubino risulterebbe di grande efficacia nell’aizzare le creature degli inferi.

    Lo speziale Tiberio di Castro venne colto da un’ondata di collera, come sempre gli capitava quando si imbatteva in simili ciarlatanerie. Per lui la scienza era un affare serio, e non si poteva mischiare con la superstizione o la magia. Chiuse il libro con un gesto di stizza, spegnendo con le dita la fiamma della candela. La stanza piombò in una penombra livida.

    Aveva trascorso tutta la notte a studiare, come spesso gli capitava negli ultimi tempi. Magro come uno spettro, occhi e capelli da saraceno, Tiberio aveva trentuno anni, gli ultimi tre trascorsi in esilio in quella sperduta contea, da poco passata sotto il dominio degli Asburgo. Quando viveva a Roma si dedicava all’arte della necroscopia presso la gendarmeria pontificia. Faceva parlare i morti per aiutare i vivi, attraverso l’esame scrupoloso del corpo. Da quando era giunto a Gorizia si era adattato alle mansioni di medico e cerusico dello Spedale. Era un solitario, non frequentava la società e l’unica persona con cui aveva un poco di familiarità era il frate che gli faceva da assistente.

    Si alzò dallo scrittoio e gettò un’occhiata alle colline che degradavano verso la valle dell’Isonzo. Il vento aveva preso a soffiare forte. Alcune volte la corrente d’aria era preceduta da un ululato.

    Anche se era un forestiero, aveva imparato presto che quel verso di bestia ferita preannunciava raffiche violentissime, tali da sradicare gli alberi e scoperchiare le case. Un vento crudele che voleva portarsi via tutto. Ma l’estate era ormai quasi al culmine, e quella che scorgeva dalla sua finestra non era che una tempesta passeggera.

    Infilò le brache e fece per allacciarsi la casacca, quando un rumore proveniente dall’anticamera attirò la sua attenzione.

    «Messer Tiberio, presto, accorrete!»

    Era fra Giustino, il suo aiutante. Non era insolito che si facesse prendere dal panico per cose da nulla. Soprattutto se riguardavano il capitano, o qualche membro della sua famiglia.

    In pochi passi Tiberio guadagnò l’uscio e si trovò di fronte il fraticello, gli occhi cerulei immersi nella luna piena del volto.

    «Che ti prende, Giustino?»

    «Vi prego… Non fate domande… Non mi fate parlare!» biascicò il religioso, facendosi il segno della croce. «Il demonio… È opera del demonio! O i turchi, senza dubbio ci sono loro dietro quest’empietà!»

    Da quando l’impero ottomano si era spinto fino alle terre della contea, mettendo a ferro e fuoco i villaggi delle campagne, Giustino vedeva i figli di Maometto dietro ogni catastrofe umana o naturale.

    «Se non mi vuoi dire quello che è successo, come pretendi che io ti possa aiutare? E poi, perché sei venuto a disturbarmi? Lo sai che a quest’ora devo recarmi allo Spedale!» Tiberio cercò di schivare il frate, ma questi gli si parò di fronte.

    «Non è che io non voglia dirvelo, messere. Non posso. Ve lo dirà il capitano. Sua eccellenza. Desidera che andiate da lui nella sala del trono. Subito.»

    A Tiberio le richieste imperative non erano mai piaciute. Ma se il nobile Andrea di Liechtenstein, gastaldo e capitano della contea di Gorizia per delega dell’imperatore Massimiliano d’Austria, si scomodava a convocarlo a quell’ora del mattino, doveva trattarsi di una faccenda della massima importanza.

    «Va bene Giustino. Accompagnami dal gastaldo. Ma cerca di calmarti un po’.»

    Per risposta il frate fece un altro segno della croce e si voltò, infilando il corridoio.

    Nulla suggeriva un’idea di imponenza nella persona di Andrea di Liechtenstein. Esile, con una pelle così sottile da dare l’impressione che anche il minimo contatto potesse lacerarla.

    Lo attendeva nella Sala del Conte, un tempo adibita alle udienze dei reggenti di Gorizia, ora locale di rappresentanza del capitano designato dagli Asburgo. Un ambiente a pianta rettangolare, il soffitto con travi di legno e fiaccole che proiettavano bagliori rossastri sulle vetrate. Cinque bifore su ogni lato, come grandi occhi aperti su un cielo di ferro.

    Il gastaldo, non smentendo la sua fama di uomo pratico, non perse tempo. Parlava tedesco e qualche parola del dialetto locale, ma dopo tre anni Tiberio era ormai in grado di comprenderne l’idioma.

    «Messer di Castro, immagino che vi starete domandando perché io vi abbia convocato a quest’ora, e con questa sollecitudine. Ebbene, sapete quanto io abbia a cuore queste terre che l’imperatore mi ha assegnato. E penso di poter contare sulla vostra discrezione…» Il capitano gettò uno sguardo sul medico, come a chiedere conferma.

    Tiberio era abituato all’eloquio forbito del reggente di Gorizia. Si era persuaso che fosse una tattica usata dal gastaldo per impressionare i propri interlocutori e far pesare il prestigio della sua carica.

    Lo speziale, con un semplice gesto, gli lasciò intendere che avrebbe taciuto.

    Rassicurato, il nobile riprese a parlare: «Rammentate il mercante di libri venuto alcuni giorni fa dalla Repubblica di Venezia?».

    Tiberio aggrottò la fronte. Nella sua mente si materializzò l’immagine di un ometto, gote rosse e pochi capelli in testa, poco loquace ma dall’espressione aperta.

    «Non ricordo il nome, eccellenza, ma ho capito di chi parlate.»

    «Janus de Visser. Questo è il suo nome.»

    «Uno straniero?»

    Il capitano assentì. «La sua famiglia viene dalle terre del nord. Una stirpe con attitudine al nomadismo. Da diverse generazioni ormai, i de Visser vivono e dimorano a Venezia» e qui il Liechtenstein non poté trattenere una smorfia di disappunto. La Serenissima era la nemica storica degli Asburgo e quindi della stessa contea di Gorizia.

    «In ogni caso, ditemi in che cosa posso esservi utile. De Visser soffre di qualche dolore reumatico? Ricordo che tiene le mani avvolte da bende… forse il clima ostile della contea ha riacutizzato i sintomi?»

    Andrea di Liechtenstein volse lo sguardo in basso. Poi con voce grave, rispose: «No, non si tratta di un malanno. Il mercante è morto. Ammazzato».

    Nella sala calò il silenzio. Tiberio prese tempo, mentre nella sua mente si affollavano molti interrogativi. Perché il gastaldo era sicuro che si trattasse di un omicidio? E chi poteva avere interesse a eliminare il mercante e perché proprio a Gorizia? E, infine, qual era la ragione della sua convocazione?

    Quest’ultimo dubbio, almeno, fu presto fugato.

    Il gastaldo riprese: «So che adesso vi dedicate alla cura dei nostri ammalati, come responsabile dello Spedale, ma il cardinale Farnese non mi ha taciuto il vostro talento come necroscopo. Vi siete guadagnato una buona reputazione. So che a Roma avete prestato servizio presso la gendarmeria e che avete collaborato alla risoluzione di alcuni difficili casi…». Si umettò le labbra e rimase un istante in silenzio, come se stesse soppesando se continuare o meno: «Ebbene, questo io vi chiedo, in nome dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo: vogliate offrire la vostra opera anche per chiarire il mistero di quest’ultima morte. Non dimenticherete le numerose cortesie che vi sono state accordate!».

    Tiberio sapeva di essere in debito con gli Asburgo, per cui non gli restava che accettare l’offerta. Oltretutto, rispolverare il mai sopito istinto investigativo lo solleticava più di quanto fosse disposto ad ammettere.

    «Non mancherò di offrire il mio contributo in questa faccenda, ma mi sarebbe utile sapere qualcosa di più sulle circostanze che hanno portato il mercante a Gorizia. Visto che è stato ucciso qui, mi pare ragionevole ritenere che ci possa essere un nesso tra il suo arrivo e la sua scomparsa… Vorrei anche sapere se qualcuno è stato visto entrare o uscire dal castello. Qualcuno di sospetto o insolito, intendo.»

    «A quanto dicono le sentinelle, nessuno. Molte persone vivono all’interno delle mura. Cuochi, soldati, stallieri, religiosi… è difficile tenere sotto controllo tanti individui.»

    «Che cosa mi potete dire della vittima?» continuò lo speziale.

    «Il mercante era una vecchia conoscenza» rispose il Liechtenstein. «Ha vissuto nella contea per alcuni anni, quando ancora era retta dal conte Leonardo. Tra i due c’era una certa intesa ma, stando alle chiacchiere di corte, Janus era anche molto intimo della prima moglie del conte. Una principessa della Slavonia, se non ricordo male. Quando è morta senza prole, il conte si è procurato un’altra moglie. Raccontare il resto è superfluo, si tratta di storia recente.»

    Il resto, come lo definiva il nobile gastaldo, riguardava gli ultimi anni di vita del conte e della sua seconda sposa. Con una dote favolosa di ventimila fiorini d’oro e l’equivalente di diecimila fiorini in gioielli e vestiti, Paola Gonzaga era diventata l’ultima sovrana della contea. Affetta da una zoppia ereditaria, la nobildonna aveva dato alla luce una bimba malaticcia, morta in tenera età. Niente eredi maschi per Leonardo, e alla sua morte Gorizia era passata all’Austria.

    «Circa un mese fa, l’imperatore in persona mi ha spedito una missiva» proseguì il gastaldo. «Mi chiedeva di convocare al più presto Janus, e di fingermi interessato alla sua merce. Al momento trovai piuttosto stravagante la richiesta di sua maestà, ma la lettera era autentica, senza ombra di dubbio, con tanto di sigillo della Casa d’Asburgo.»

    «Chi avrebbe dovuto trattare gli interessi dell’imperatore? Siete stato incaricato di fare una precisa richiesta?»

    Andrea di Liechtenstein corrugò la fronte.

    «L’imperatore ha scritto che un suo legato sarebbe venuto apposta da Vienna. In ogni caso, ieri sera si è presentato da noi Sigismondo da Lienz. Un tempo era anche lui al servizio del conte Leonardo, ma da quando Gorizia è stata annessa al Sacro Romano Impero è alle dirette dipendenze di Massimiliano d’Asburgo. È inutile che vi dica che di questa faccenda si sta occupando anche il nostro bargello» il gastaldo schioccò la lingua. Il bargello Stefano era quanto di più simile a un delinquente si potesse immaginare, con la sua faccia da lupo e i denti marci. I suoi modi sbrigativi però non dispiacevano al Liechtenstein. Tiberio invece lo detestava e ne era ricambiato.

    «Tutta questa complicata cerimonia per trattare con un mercante…» osservò lo speziale. «Non vi pare strano? Se l’imperatore fosse stato interessato a qualche libro, per quanto di pregio, non poteva delegare voi invece di inviare questo funzionario? Dove alloggia Sigismondo?»

    Gli pareva sospetto che il legato dell’imperatore fosse giunto a Gorizia poche ore prima dell’omicidio.

    Non comprese se Andrea di Liechtenstein fosse dello stesso parere. Si limitava a fissarlo in silenzio. Dopo qualche istante rispose: «Sigismondo ha preso una stanza qui vicino, nel borgo. Volete che lo convochi?».

    «Convocatelo, ma senza troppa premura. Prima devo occuparmi di una questione più urgente.»

    «Ovvero?» domandò il gastaldo, inarcando un sopracciglio.

    «Devo fare la conoscenza di Janus de Visser.»

    Non c’era odore di morte. E nemmeno il sentore dolciastro che accompagna le prime fasi della decomposizione. Eppure, appena varcata la soglia della camera, Tiberio di Castro si sentì risucchiare da un vortice, che sempre aveva esercitato su di lui un potere incontrollabile.

    Quando era necroscopo della gendarmeria pontificia gli era sufficiente uno sguardo al cadavere che doveva analizzare per cristallizzare nella mente i particolari del luogo in cui era stato ritrovato. Di nuovo, come fosse passato un giorno e non tre anni, la vecchia attitudine ritornò con prepotenza.

    De Visser si era sistemato in una delle camere al terzo piano del castello, una stanza piccola e poco illuminata. Fra Giustino, tremante, lo seguiva con una fiaccola. Avrebbe evitato l’ingrato compito, se il gastaldo in persona non glielo avesse imposto.

    «Fammi luce, Giustino. Qui non si vede niente e rischio di inciampare sul cadavere di Janus» disse Tiberio. Poi mosse i primi passi nella stanza.

    Sembrava che una bestia fosse transitata a fare scempio degli oggetti, degli abiti e dei manoscritti del mercante. Sparsi ovunque, alla rinfusa, costituivano un assurdo mosaico sul pavimento.

    Al centro, c’era lui.

    Janus de Visser.

    Tiberio si inginocchiò accanto alla vittima.

    «Sei tu che hai trovato il morto, Giustino?»

    Il frate, rimasto sull’uscio, annuì. Poi, aggiunse: «Sapete che mi sveglio alle prime luci per onorare nostro Signore. Appena imboccato il corridoio ho notato che l’uscio di de Visser era socchiuso. Sapevo che il mercante era persona molto riservata e teneva in gran conto i suoi manoscritti. Allora l’ho chiamato ma, non ottenendo risposta, sono entrato e… Prima ho pensato a un malore. Ma ecco, vedete quello che ho trovato!».

    Il corpo era supino. L’uomo doveva avere circa sessant’anni. Era vestito con una tunica grezza lacerata in più punti forse a causa della colluttazione con l’aggressore. La lingua sporgeva tra le labbra, gli occhi uscivano fuori dalle orbite, la cute era cosparsa di petecchie violacee. Sul collo si poteva scorgere un solco livido, profondo, orizzontale, come fosse stato tracciato da una lama affilata. Lo speziale esercitò una pressione sulle mascelle che, dopo aver opposto una blanda resistenza, si aprirono con uno scatto.

    «L’irrigidimento cadaverico è appena agli inizi. Segno che il mercante è morto da poche ore. Per pura fortuna, non vi siete imbattuto nell’assassino» cominciò Tiberio.

    Era una sua vecchia abitudine commentare ad alta voce quando eseguiva un esame necroscopico. Gettò un’occhiata a Giustino, che, per tutta risposta, sospirò e giunse le mani in preghiera.

    «Sembra che de Visser sia stato vittima di uno strangolamento. Si può notare il solco sul collo lasciato dallo strumento utilizzato dall’aggressore. Dall’aspetto potrebbe trattarsi di una corda o anche di una cintura. Questi segni sul volto, le petecchie, ci dicono che la pressione esercitata per strangolare la vittima è stata intensissima. Ma possiamo dedurre anche un altro elemento…» fece una pausa, allontanandosi di qualche palmo dal cadavere. Socchiuse gli occhi e nella sua mente si materializzò l’immagine dell’assassino, e sotto di lui il mercante che si dibatteva nel tentativo di sfuggire alla propria sorte.

    «Che cosa avete dedotto, messer di Castro?»

    «L’aggressore era più forte della vittima. Si tratta di un maschio, con ogni probabilità, e di tempra robusta. Janus era corpulento, anche se non molto in forma…» di nuovo si interruppe. Poi frugò nella tasca, alla ricerca del piccolo bisturi che portava sempre con sé. Lo trovò e, con un gesto esperto, eseguì un taglio verticale sulla tunica di Janus.

    «Ecco!» esclamò, mentre indicava alcune macchie sul torace e sull’addome del mercante. «Guarda, sono i lividi dovuti alla pressione esercitata dall’omicida. Si è messo a cavalcioni e ha immobilizzato Janus, con le ginocchia a tenaglia… Scommetto che anche il costato, se lo potessi esaminare, mostrerebbe delle fratture…»

    A quel punto, si guardò intorno: «Abbiamo capito come è morto, forse… ma ancora non sappiamo perché…».

    Si alzò e prese ad aggirarsi per la stanza. I libri di de Visser erano sparsi un po’ ovunque, alcuni aperti, altri rovesciati, altri ancora avevano la rilegatura divelta. Tiberio ne raccolse quanti più poté, cercando di ricomporli e nello stesso tempo di intuire quale sentimento avesse mosso l’assassino. I manoscritti erano di fattura diversa e trattavano argomenti disparati: storia, geografia, gastronomia, tassonomia, falconeria.

    Riconobbe anche alcuni testi rari di anatomia e alchimia, che, quando ancora viveva e lavorava a Roma, non era riuscito a procurarsi. Non c’era da stupirsi però che Janus ne fosse in possesso: veniva da Venezia, il porto dove approdavano le mercanzie provenienti da ogni dove. Ma… che cosa cercava l’assassino di Janus?

    «Non il denaro, di certo.»

    «Come dite?»

    Si era quasi dimenticato di Giustino il quale, ancora sull’uscio, lo guardava perplesso frugare tra le cose del mercante.

    Per tutta risposta, Tiberio sollevò un sacchetto che aveva recuperato sul fondo di una delle borse di de Visser.

    «Non li ho contati, ma questi ducati mi paiono un motivo sufficiente per uccidere. Non sono, però, a quanto pare, quello che l’assassino cercava. Se avesse voluto derubare il mercante, lo avrebbe sorpreso nel sonno oppure mentre era di spalle. Un ferro ben piantato al posto giusto, nessun rumore, poche possibilità di essere scoperto. Invece il nostro uomo ha rischiato. Ha stretto con una corda la gola della vittima, gli è salito sul torace, attanagliandogli il costato con le cosce. Gli ha tolto l’aria, poi gliel’ha ridata. Ha aspettato prima di uccidere. Ha atteso perché voleva che de Visser parlasse. Un segreto… Chi ha ucciso cercava un segreto.»

    Si interruppe raccogliendo le idee.

    «De Visser aveva qualcuno? Moglie, figli, o parenti prossimi?»

    «Al suo arrivo a Gorizia, Janus ha avvertito che sarebbe stato presto raggiunto dalla figlia, rimasta a Venezia per sbrigare alcune faccende.»

    «Allora le restituiremo anche questi denari…» rimase immobile, come indeciso sul da farsi. Fissò il corpo per qualche istante. Poi, d’impulso: «Aiutami a girarlo».

    «Come? Non vorrete che io…»

    «Forza, Giustino! Non startene lì, come fossi di pietra! Il Signore ti darà la forza.»

    Il fraticello si mosse come se stesse per entrare in un campo pieno di serpi. Ci mise un tempo che a Tiberio parve interminabile per avvicinarsi e aiutarlo a girare il cadavere. L’impresa non fu semplice. Alla fine, con un tonfo, riuscirono a disporlo in posizione prona.

    «In un esame necroscopico, Giustino, non bisogna trascurare nulla…»

    Lo speziale incominciò a liberare il corpo dalla veste. Senza troppa fatica, i brandelli di stoffa vennero via. Entrambi trasalirono alla vista di alcuni segni sul dorso del mercante.

    «Che diavoleria!» trasecolò Giustino. «Santissima vergine! Ma che vuol dire? Era un pagano, forse? Un infedele? Un seguace di satana?»

    «Avvicina la fiamma» gli ordinò Tiberio.

    orum septem divo

    «Un tatuaggio» mormorò Tiberio. «Una scritta in latino. Al dio delle sette bocche.»

    2

    Avignone, palazzo dei papi

    La fiamma guizzò nell’occhio del cardinale. Un istante appena, poi tutto annegò di colpo nelle tenebre.

    Non un rumore, se non il respiro della sua amante. Gli dormiva accanto, pelle di seta e fragranza di viole. Profumo di Francia, la terra del suo esilio.

    Serrò i pugni, si liberò dalle coperte, si levò in piedi.

    A sessant’anni suonati, Giuliano Della Rovere si considerava ancora un guerriero. Non si sarebbe arreso, anzi si sentiva teso fino allo spasimo. Come sul campo di battaglia. Aveva voglia di combattere, di lanciarsi all’attacco, di caricare e sconfiggere l’avversario. Aveva voglia di polvere e di sangue.

    La cortigiana mormorò qualcosa

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