Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I delitti della laguna
I delitti della laguna
I delitti della laguna
E-book378 pagine5 ore

I delitti della laguna

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Bestseller in Italia
Il suo talento è un’opera d’arte.

Un’indagine di Giuliano Neri

Dall’autrice de Il giallo di Ponte Vecchio e Quel brutto delitto di Campo de’ Fiori

Febbraio 1990. Giuliano Neri, restauratore fiorentino, arriva a Venezia per lavorare sui dipinti della collezione di Alvise Volpato, un noto psichiatra con la passione per la pittura. Questo è il motivo ufficiale. Quello reale, invece, è l’indagine condotta da Chantal Chiusano: alle orecchie del commissario è giunta l’eco della fama di Neri nel risolvere casi complicati. E quello che ha tra le mani è senza dubbio complicato: Otis Moore, un magnetico bluesman afroamericano, soprannominato “il Moro di Cannaregio”, si era trasferito in città di ritorno dal Vietnam ma, soggiogato dalla laguna, non era mai riuscito a ripartire. E ora è morto. Scavando nella vita di Otis, il commissario è spinto ben presto a indagare sulla criminalità legata al mondo dell’arte. Forse il musicista non era estraneo a certi affari illeciti. Così come non lo erano le famiglie dei Favero, dei Volpato e dei Luni, tutte legate in qualche modo alla band di Moore. Proprio quando Chantal e Giuliano pensano di aver trovato una via per risolvere il caso, ecco che le acque restituiscono il corpo seminudo e straziato di una donna…

Un omicidio che ricorda un odio familiare che non conosce fine. 
Una verità nascosta tra le nebbie della laguna.

Autrice del bestseller Il giallo di Ponte Vecchio

«Letizia Triches è una storica dell’arte attratta dalla perversa creatività del criminale non meno che da quella dell’artista.»
Corriere della Sera 

«Avvincente.» 
la Repubblica
Letizia Triches
È nata e vive a Roma. Docente e storico dell’arte, ha pubblicato numerosi saggi sulle riviste «Prometeo» e «Cahiers d’art». Autrice di vari racconti e romanzi di genere giallo-noir, ha vinto la prima edizione del Premio Chiara, sezione inediti, ed è stata semi finalista al Premio Scerbanenco. La Newton Compton ha pubblicato Il giallo di Ponte Vecchio, Quel brutto delitto di Campo de’ Fiori e I delitti della laguna.
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2016
ISBN9788854196780
I delitti della laguna

Correlato a I delitti della laguna

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su I delitti della laguna

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I delitti della laguna - Letizia Triches

    1302

    Della stessa autrice:

    Il giallo di Ponte Vecchio

    Quel brutto delitto di Campo de’ Fiori

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è del tutto casuale.

    Prima edizione: luglio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9678-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di La Matita Rossa, Boltiere (BG)

    Letizia Triches

    I delitti della Laguna

    Newton Compton editori

    A Fabrizio

    Quando cerco un’altra parola per musica,

    trovo sempre e soltanto la parola Venezia.

    Friedrich Nietzsche, Il caso Wagner

    1. La nota blu

    Riva di Biasio

    Al tramonto di una rigida giornata di febbraio, Otis Moore si introdusse furtivamente nel deposito della più grande casa d’aste di Venezia. Nessuno fece caso al Moro di Cannaregio, come lo chiamavano in tanti per via della sua pelle nera. Quando era approdato nella Laguna, era certo che ci sarebbe rimasto per pochi giorni e invece si trovava ancora lì, prigioniero da quindici anni di una città che sapeva acchiapparlo meglio di una femmina.

    Le donne erano la sua ossessione. Lo attraeva il modo in cui accarezzavano lo spazio con il corpo. Più della forma o del colore dei loro occhi per lui contava lo sguardo. Per questo non riusciva a togliersela dalla testa e doveva rivederla, prima che gliela portassero via.

    Mentre procedeva nei labirintici corridoi, stipati all’inverosimile di mobili, porcellane, tappeti, quadri e argenti anneriti dalla patina del tempo, sentiva crescere dentro di sé la smania che lo prendeva ogni volta che era costretto a rinunciare troppo presto.

    Avanzava, infilandosi tra due scrivanie settecentesche, deviando di sbieco di fronte a un grande armadio con specchiera. Pressato da una massiccia libreria di mogano rossiccio, rallentava per l’improvviso ostacolo di un delicato tavolino seminascosto dall’ingombrante poltrona Luigi XV o per la precarietà di una filiforme lampada a stelo. Ormai mancavano pochi metri alla porta chiusa, inquadrata al centro del suo campo visivo, alla fine dell’ultimo corridoio. Quell’unica porta chiusa, dietro la quale lei lo stava aspettando.

    Avrà trentacinque anni, più o meno, pensò Otis.

    Preferiva le donne già sbocciate, simili a fiori con i petali completamente dischiusi, nell’istante della loro massima pienezza. Era semisdraiata su un divano, il busto rialzato da un paio di grandi cuscini, le mani dietro la testa. Indossava solo un abito leggerissimo, così aderente al corpo che la luce, immedesimandosi con la stoffa, sembrava spogliarla creando ombre e rilievi fino alla macchia scura del pube, affossata nella curva morbida delle cosce. Intravedeva persino il suo ombelico piatto e i suoi seni ben distanziati e cercava di non lasciarsi imprigionare dalla forza corrosiva del suo sguardo stranamente fisso su di lui.

    Avrebbe dovuto saperlo, e in realtà lo sapeva, che quello era un gioco pericoloso, c’era già passato molte volte. Eppure la sua passione per le donne lo costringeva sempre a dimenticare. La prudenza si frantumava in mille pezzetti. Impossibile recuperarla, né in cielo né in terra.

    Eccola lì: una femmina magnifica, felice di piacere e di provare piacere.

    Se fosse dipeso da lui non si sarebbe mai disfatto di un simile quadro, la cosa più bella che c’era nel deposito. L’unica veramente degna di essere amata. Opera di autore ignoto, gli aveva detto Filippo Severato, il direttore della casa d’aste, forse del tardo Settecento, ma di una qualità eccezionale. Quel diavolo di un pittore non aveva imprigionato lo sguardo della modella nel semplice dettaglio degli occhi; gli era bastato aggiungere un leggero tocco di pennello, appena un puntino, un’indicazione quasi impercettibile, ma sufficiente a farne emergere l’anima. E così lo spirito della sconosciuta poteva aggirarsi libero nella stanza.

    Otis rimase a lungo in ammirazione davanti al dipinto, grato all’artista misterioso di un lontano passato, che era stato capace di realizzare un simile miracolo. Per un po’ fantasticò su quel corpo femminile velato, che traspariva in filigrana sotto alla stoffa, più sensuale di un nudo vero, quindi immaginò di sollevare l’esile lembo di seta e infine partecipò al sottile gioco di seduzione della donna.

    Non è mai facile il ritorno alla realtà, ma lui ci era abituato. Lo faceva di continuo, ogni sera in cui suonava al Blue Note. Poi chinò la testa e fu attratto da un altro quadro. Il fatto che fosse di piccolo formato e capovolto gli impediva di capire di quale soggetto si trattasse, perciò si avvicinò alla parete e, accucciandosi sulle gambe, prese la tela volgendone la superficie dipinta in direzione della luce. La targhetta dorata recitava: "Il complessino in maschera, anonimo veneziano, XVIII secolo". In un ambiente domestico, affollato da nobildonne e nobiluomini, con bambini e cagnolino al seguito, si esibivano cinque musicisti mascherati. Non era un gran che come quadro, ma il riferimento ai musicisti, con una maschera sul volto, gli ricordò che mancavano solo due settimane a martedì grasso, e ancora non avevano stabilito il repertorio da eseguire per la serata. Riportò l’attenzione sul dipinto. Curiosa coincidenza, anche nella sua band erano in cinque, lui però non aveva alcuna intenzione di mascherarsi. Bianca insisteva, diceva che sarebbe stato divertente se avessero indossato tutti e cinque la bautta. Doveva ammetterlo, i veneziani avevano una passione morbosa per le maschere. Si era chiesto più volte come mai. Forse era per un desiderio inconfessato di sottrarsi alla curiosità altrui, perché nessun’altra città del mondo costringeva a una promiscuità in cui tutti sapevano tutto di tutti. Da nessun’altra parte si era obbligati a vivere perennemente su un palcoscenico. Si vede che poi ogni tanto ti viene voglia di proteggere la tua identità, aveva concluso. Una specie di malessere assalì Otis Moore. Odiava il carnevale, lo trovava ripugnante. Era la sola cosa di Venezia che non gli piaceva. Detestava le innumerevoli botteghe che vendevano maschere, sparse per la città, meta di turisti privi di gusto. Erano oggetti ridicoli, buoni solo per essere appesi al muro di case ordinarie.

    I suoi pensieri furono interrotti da un rumore di passi.

    Immaginando chi fosse, si affrettò a spegnere la luce e a uscire dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle non senza avere rivolto prima un intenso, ultimo, languido sguardo alla sua bella sconosciuta.

    «C’è qualcuno?»

    «Biagio, sono io».

    «Come mai qui?».

    Il custode del magazzino gli andò incontro con un’espressione interrogativa.

    «Dovevo controllare alcuni codici per il catalogo della prossima asta».

    Una risposta verosimile, data senza scomporsi, per giustificare la sua presenza nel deposito di palazzo Severato a quell’ora di sabato.

    L’altro fissò perplesso l’orologio. «Ma non suoni stasera?»

    «Infatti stavo andando via».

    Istintivamente il custode si guardò intorno, quasi volesse assicurarsi che non mancasse nulla. Oggetti di pregio come quelli accatastati nel sotterraneo, pronti a essere venduti durante la prossima tornata, potevano essere un ghiotto boccone per chiunque.

    Otis intuì al volo cosa stesse passando per la mente di Biagio – era un riflesso condizionato per uno che faceva quel mestiere – ma non se la prese, anzi, decise di cambiare argomento.

    «Te lo saresti immaginato che Severato avrebbe messo mano al suo patrimonio familiare per salvare la baracca?», chiese in tono confidenziale, facendo scorrere lo sguardo su quello che li circondava.

    «Era l’unica cosa che gli restava da fare, credo».

    «Hai ragione, meglio andare sul sicuro. Le opere d’arte di qualità oggi sono una merce rara, e non solo a Venezia. È finito il tempo in cui si vendevano i Tiziano e i Tintoretto a suon di miliardi», commentò.

    Fianco a fianco, ripercorsero il cammino verso l’uscita, scambiandosi solo poche parole.

    «Ti saluto».

    Otis si allontanò con un cenno del capo, sorridendo tra sé. Il custode, al contrario di lui, era rimasto fermo sul portone. Di sicuro sarebbe tornato indietro per fare un ulteriore giro di ricognizione, nel vano tentativo di accertarsi che nulla fosse stato prelevato o manomesso.

    La notte cominciava ad affogare nella Laguna e i lampioni non riuscivano più a diradare la nebbia che saliva dai canali. Le cose sbiadivano davanti al Moro, incapace di mettere a fuoco le forme intorno a sé. Decise di aiutarsi con i suoni per trovare la strada fino al Blue Note e tese le orecchie, prestando attenzione allo sciabordio dell’acqua, all’eco delle voci in lontananza, alle note di una canzone proveniente da poco distante. Trattenne il fiato e, nel consueto sentore di fogna, fu raggiunto da altri odori: nafta, salmastro, cipolla. Qualcuno doveva avere aperto la finestra della cucina dell’osteria dietro Campiello dell’Anconeta. All’improvviso fu sopraffatto dalla malinconia. Si sentiva angosciato al pensiero di abbandonare Venezia, ma non aveva scelta. Ormai aveva capito di essere caduto in trappola.

    Fondamenta della Misericordia

    Non più di un’ora era trascorsa e il Moro già indossava la sua divisa da bluesman, solo apparentemente casual, ma di fatto elegante, ricercata e curata in ogni dettaglio: aderenti pantaloni bordeaux, camicia azzurra, gilet bianco damascato e cappello sempre bianco come gli immancabili stivali camperos. Delle oscure emozioni, che lo avevano turbato poco prima, non era rimasta traccia.

    Le sette in punto, c’erano tutti, tranne uno.

    «Chi manca?».

    Si capiva che il fonico aveva una certa fretta.

    «Adriano», rispose Bianca. «Strano…», aggiunse guardando in modo eloquente il bassista; in genere era lui il ritardatario, ma stavolta era arrivato puntualissimo.

    Otis contrasse la mascella e non intervenne. Il fonico avrebbe aspettato cinque minuti, poi avrebbero dovuto cominciare. Alle otto si apriva al pubblico e qualcuno sarebbe potuto già entrare nel locale, anche se l’inizio dello spettacolo era previsto per le undici. La faccia scura di Otis non lasciava presagire nulla di buono. Per un po’ rimasero in silenzio. Ognuno sistemava i propri strumenti. La bella tastiera rossa di Adriano Favero se ne stava tranquilla da una parte. Alle sette e dieci il fonico del Blue Note era pronto per iniziare il sound check.

    Bianca si rivolse sottovoce a Otis. «Non lo aspettiamo?», chiese.

    «Non è necessario». Una risposta priva di qualsiasi indulgenza.

    «Potrebbe avere avuto un problema…».

    «Lo so io quali sono i suoi problemi».

    Non c’era bisogno di precisare altro. Da un paio di mesi i rapporti fra Otis e Adriano erano tesi. Il giovane Favero, di solito riservato e taciturno, interveniva sempre più spesso su ciò che gli premeva. Non era d’accordo sul loro repertorio e approfittava di ogni occasione per manifestare il suo dissenso. In fondo non aveva mai condiviso pienamente le scelte imposte dal Moro, anche se all’inizio aveva evitato di dire la sua. Aveva accettato di esibirsi senza fiatare solo perché era privo di esperienza. Doveva farsi le ossa, prima.

    I musicisti presero a eseguire lo stesso passaggio dello stesso brano musicale, mentre il fonico regolava i volumi.

    «Si sente?». Il batterista non era soddisfatto. «Io non mi sento abbastanza. Tira su, tira su»

    «Ok. E adesso?».

    Adriano entrò cautamente e, senza guardarsi intorno, si diresse verso la sua Nord. In quel momento nessuno badò a lui.

    «Ti ho detto che non va, questo non va!». Il bassista aveva un’aria infelice davanti a Otis, che cercava di capire cosa avesse di sbagliato quel jack, mentre l’altro seguitava con voce acuta. «Non è il jack giusto. Non posso collegarmi all’amplificatore».

    «Probabilmente perché non è il tuo jack. Te l’ho ripetuto mille volte di non lasciare tutto sul palco. Ma tu no, tu alla fine ti fiondi subito a bere e dopo non ti ricordi più niente, carichi la roba e via».

    Alle otto meno cinque i problemi erano stati risolti, anche se il sound check di Adriano era stato eseguito in modo approssimativo. Ma il fonico aveva detto di non preoccuparsi. Se qualcosa non andava, avrebbe provveduto lui a fare degli aggiustamenti durante il concerto.

    Alle nove il pubblico aveva quasi riempito il Blue Note. I soliti turisti di passaggio e la gente del posto. Ragazzi con gli occhi luccicanti e uomini e donne tra i trenta e i cinquant’anni.

    Otis e Adriano se ne stavano isolati dagli altri, appoggiati al bancone a bere birra. Apparentemente rilassati, si sarebbe detto da lontano, ma se qualcuno si fosse avvicinato per ascoltare, avrebbe colto chiari segnali di sfida. Era inevitabile, sempre lì andavano a cacciarsi: il repertorio da eseguire. Quella serata avrebbero suonato brani di B.B. King ed Eric Clapton. Erano una cover band e al bluesman non importava nulla delle velleità del suo giovane tastierista.

    «Se ci stai stretto, allargati con il medley. Te lo concedo. Gioca con le strofe e le tonalità, fa’ quello che ti pare, ma non mi rompere il cazzo con il tuo rock».

    Adriano aveva vent’anni e nessuna voglia di essere umiliato. Si sentiva ferito nell’orgoglio. «Ti ho portato una mia canzone». Si ostinò, come se non avesse udito le parole dell’altro, e tirò fuori alcuni fogli. «Qui c’è il testo e la struttura melodica».

    Otis fece una smorfia che pareva un sorriso. Quando faceva quel sorriso, si capiva che non c’era più niente da aggiungere. Non aveva accennato neppure il gesto di prendere il lavoro del tastierista.

    «Il blues non è per gli esperimenti», si limitò a sottolineare e si diresse verso il palco. Da una sacca tirò fuori un tubetto di Super Glue e cominciò a ricoprirsi i polpastrelli con uno strato sottile di colla, una tecnica che aveva imparato in Vietnam, dove però era usata per tamponare le ferite in attesa che arrivassero i soccorsi. Quindi estrasse dalla custodia la sua Stratocaster bianca, con finitura nera arricchita da un adesivo prismatico recante le sue iniziali, applicato sulla mascherina.

    Erano le undici in punto: un vero pienone e posti esauriti. Il vibrato del Moro riempì la sala e la sua chitarra cominciò a parlare al cuore del pubblico. Gli occhi degli avventori erano puntati su di lui, perché il nero era davvero bello e nessuno riusciva a smettere di guardarlo. Le sue labbra carnose, dal disegno perfetto, si aprivano su una dentatura bianchissima. Sul mento gli fioriva una simpatica fossetta. Occhi maliziosi e ammiccanti, gambe lunghissime che terminavano in un fondoschiena sporgente. Ogni particolare del suo atletico corpo era degno di attenzione. Aprì con Worried Life Blues in un assolo che fece capire come stavano le cose. Le canzoni possono essere diversissime a seconda di chi le esegue, sosteneva. Il tuo blues sei tu, amava dire, tua è la vita, tue sono la gioia e la sofferenza, tuoi i sogni.

    Quindi fu la volta di Help The Poor e la voce di Bianca Masiero si alzò, calda e dolente. Cominciò con un tono sommesso, come se stesse mettendo il pubblico al corrente di qualcosa di molto intimo, poi la chitarra di Otis interagì con lei. Sembrava un prolungamento della sua voce, ne sottolineava il timbro, l’espressività, non si limitava a sostenerla o accompagnarla, ma le faceva da contrappunto, rispondendo al canto con fraseggi che avevano caratteristiche quasi umane. Fra il chitarrista e il suo strumento, intanto, si era creata una simbiosi. La chitarra era viva e rispondeva alle sue sollecitazioni. La imbracciava, la maneggiava, l’appoggiava sui fianchi, con il manico puntato in avanti, toccava e sfiorava le corde. E giù dal palco non c’era nessuno che non desiderasse di essere accarezzato da quelle dita lunghissime.

    Calle Navaro

    Quasi le due di notte, Bianca sarebbe arrivata entro un’ora e lui era seduto in cucina davanti a una tisana ormai fredda. Non l’aspettava mai sveglio, non ce l’avrebbe fatta ad alzarsi la mattina seguente, specialmente se a scuola aveva la prima ora. Lei, invece, poteva rimanere sotto le coperte fino a tardi e lasciare il letto soltanto per preparargli il pranzo. Piuttosto che perderla aveva preferito vederla poco. Dopo un paio d’anni di matrimonio, Stelio Luni si era reso conto che Bianca gliene voleva per colpa della loro vita modesta, dei loro giorni sempre uguali, delle monotone serate trascorse davanti alla TV. Una donna tanto più giovane di lui, era normale che finisse così. Più passava il tempo, più sembrava perennemente attraversata da una scarica elettrica. Non trovava pace. «Ma lo capisci o no che sto sprecando la mia vita?». Lo accusava perché le impediva di fare ciò per cui era nata: cantare. E poi era comparso Otis Moore. Forse, se non lo avessero conosciuto, loro due non sarebbero rimasti insieme. Grazie agli Indigo Gulls e alle serate al Blue Note, sua moglie aveva trovato quello che le mancava e poteva sopportare di restargli accanto.

    Stelio sentì Elvira tossire nella cameretta in fondo al corridoio e ripensò all’incontro che aveva avuto con il preside del liceo artistico in cui insegnava da diciotto anni. Il dirigente l’aveva convocato proprio quella mattina.

    «Si sieda, professore», gli aveva detto, facendo sobbalzare il suo mento flaccido. «È già la terza volta che questa settimana arriva in ritardo. Ha lasciato la classe scoperta per mezz’ora».

    «Le chiedo scusa».

    «Ieri avevo una comunicazione da farle e non l’ho trovata».

    «Era il mio giorno libero».

    «Ah… già, è vero. Ma si è dimenticato di trascrivere i voti sul tabellone, mettendo in difficoltà la segreteria».

    «Mi dispiace, davvero. Abbiamo dei problemi con la zia di mia moglie».

    «La zia di… sua moglie? Sta poco bene?». Si era trattenuto dal dire la zia della bidella Masiero?.

    Per la prima volta gli occhi del professor Luni non avevano espresso soggezione. «La signora Elvira Zanini è la zia di mia moglie e ha dei seri problemi di salute. Noi siamo i suoi unici parenti», aveva spiegato. «Non capisco come ho fatto a dimenticarmi di trascrivere i voti. Non mi era mai successo».

    Non aveva voluto fornire altre spiegazioni, né scusarsi. Non era il caso di sprecare altro tempo ed era tornato in 3C.

    Fondamenta della Misericordia

    Mentre suo marito la stava aspettando in una cucina gelida, chiuso nella sua consumata giacca di lana grezza, Bianca rifiutò l’offerta di Otis, che si era proposto di accompagnarla, e si affrettò in direzione del suo barchino ormeggiato in Rio della Misericordia, a due passi dal locale. Le faceva compagnia un folto gruppo di ragazzi, che aveva assistito al concerto. Tutti diretti, come lei, a recuperare la propria imbarcazione. Salì a bordo e accese il motore. Era un piccolo due cavalli, che le aveva regalato Stelio, quando lei aveva cominciato a cantare al Blue Note. Si avviò lentamente verso casa. Percorse quasi tutto il Canal Grande, entrò a Dorsoduro dal Rio Bianche, una curva e sbucò in Rio Piccolo del Legname. Era arrivata. Con un salto scese a terra, afferrò la cima e la fissò con gesti esperti a un palo viscido, ricoperto dalla vegetazione.

    Il portone era gonfio e pesante e si chiuse rumorosamente alle sue spalle. In punta di piedi, Bianca percorse il breve corridoio fino alla camera da letto. Socchiuse con cautela la porta e si trovò davanti Stelio.

    «Non dormi?»

    «Fa’ piano», le disse. «Elvira è di là. Ti ha cercato e sono andato a prenderla alla Giudecca. Non sta un gran che».

    Si accorse che suo marito faticava a guardarla negli occhi, come se temesse di svelarle qualcosa con un semplice sguardo. Preferì non chiedergli nulla e si diresse verso la cameretta. Un filo di luce fioca sgusciava da sotto la porta; anche Elvira era sveglia.

    «Come ti senti?»

    «Ora sto meglio».

    «Ma cosa è successo?»

    «Lo sai, il solito problema».

    Bianca si sedette sul bordo del letto, accarezzandole le mani. «Cerca di stare tranquilla», sussurrò. «Non può succederti nulla, ci siamo io e Stelio con te. Pensa solo a guarire».

    Guarire da quello stato più penoso di qualsiasi ferita? Di quella sua condizione disperata Elvira Zanini conosceva tutto e non pensava più di uscirne.

    Campiello San Barbaro

    Palazzo Volpato era avvolto nel silenzio. In quel momento, l’unico abitante dell’imponente dimora era lui, ed era molto contrariato. Aveva cercato di distrarsi leggendo, ma quando gli era parso di avere letto abbastanza per riuscire ad addormentarsi e aveva spento la lampada, i suoi occhi si erano spalancati nel buio. Alvise Volpato aveva riacceso la luce e aveva ripreso a leggere senza molto successo. Le righe si confondevano sulla pagina del romanzo, costringendolo a saltarle e a ricominciare nell’inutile tentativo di riprendere il filo della narrazione. Ci aveva provato abbastanza per capire che la lettura non funzionava a distrarlo dal suo pensiero fisso. Si alzò, guardò l’ora e decise che, alle due passate, la notte ormai era andata. Le sue giornate cominciavano sempre prestissimo, perché alle sette in punto, senza mai un’eccezione da sedici anni a quella parte, varcava l’ingresso della clinica psichiatrica che dirigeva.

    Alvise si sentiva profondamente disturbato e ne conosceva il motivo. Il comportamento di suo nipote l’aveva spiazzato. Adriano voleva lasciare l’università. Così gli aveva annunciato nel pomeriggio. Doveva riconoscere che l’aveva colto alla sprovvista. Ma i segnali c’erano stati tutti, compresa l’assidua frequentazione con Otis Moore. Li aveva sottovalutati ed era inutile adesso lasciarsi prendere dal rimorso per non essere intervenuto subito. Non si era opposto, per esempio, al fatto che il ragazzo, dopo aver comprato una costosa tastiera, avesse iniziato a esibirsi in alcuni locali. E il bello era che i soldi per acquistare lo strumento glieli aveva dati proprio lui, anche se per un viaggio di studio mai portato a termine. Non aveva protestato quando, alcuni mesi prima, Adriano era entrato nella band del Moro. Pur temendo che un simile impegno gli avrebbe fatto trascurare in parte gli studi, aveva accettato la cosa considerandola un’esperienza tutto sommato innocua. E allora perché recriminare adesso? Perché quello che non riusciva davvero a sopportare era il modo subdolo con cui era stato raggirato. Non aveva intuito il tranello che suo nipote gli aveva teso, mentre nel pomeriggio lo invitava per un caffè al Florian. Voleva chiacchierare un po’ dei suoi progetti per il futuro, gli aveva detto, e lui aveva accettato volentieri, incuriosito dall’eccezionalità della richiesta, senza sospettare nulla.

    Invece avrebbe dovuto interrogarsi immediatamente sull’anomalia della situazione, già nel vederlo seduto in attesa al tavolino del Florian, rannicchiato nella sedia, come un condannato che non aveva scelta.

    Adriano aveva cominciato a parlare del più e del meno, finché c’era stata quella deviazione nel discorso. Brusca, improvvisa e senza incertezze.

    Alvise lo aveva guardato con aria interdetta. «Non credo di avere compreso fino in fondo quello che vuoi dire».

    Adriano era arrossito di colpo, ma il suo sguardo non aveva tremato. «Sono convinto del contrario».

    «È proprio a questo che ti stai riferendo?»

    «Sì».

    «A suonare in una band?»

    «A comporre musica mia e a eseguire i miei brani».

    «Otis Moore… è stato lui a convincerti».

    Non aveva avuto dubbi, anche se Adriano aveva opposto un silenzio caparbio alle sue insinuazioni.

    Ancora disturbato da quanto era accaduto quel pomeriggio, Alvise lasciò la camera da letto ed entrò nel grande studio. Ragionava, un pensiero dopo l’altro, cambiando continuamente idea. Gli riusciva difficile adattarsi all’insolita situazione. Tra lui e Adriano era sempre esistita una profonda complicità e ora si sentiva tradito. Possibile che non potesse fare affidamento su nessuno della famiglia?

    La conferma gli giunse attraverso la finestra, una quadrifora che saliva dal pavimento al soffitto, aperta sul Canal Grande. Scostò la tenda e sbirciò fuori. Eccoli là, sua sorella e suo cognato. Di ritorno da una delle solite serate, avevano appena ormeggiato il loro motoscafo. Forse rientravano dal Casinò – prima o poi gli toglieranno anche le mutande, si augurò – o forse da qualcuna di quelle riunioni mondane di cui tanto si favoleggiava a Venezia. Questioni più che altro di sesso, si diceva, anche se su Loris e Matilde circolavano altre voci ben più preoccupanti. A volte pensava che fossero malignità gratuite, a volte invece temeva che corrispondessero alla verità. Cosa sarebbe accaduto se quelle voci fossero arrivate ad Adriano? Lo psichiatra sapeva che avrebbe dovuto agire prontamente, se fosse stato necessario.

    Napoli

    Occorreva stare molto attenti a non esagerare. Era sempre stato un imperativo per Vittorio Piccolo. Un giro d’affari invidiabile come il suo faceva gola a molti, specialmente da quando la sua società si era aperta al mercato del nord. Una prospettiva che aveva inseguito a lungo. Il commercio di opere d’arte è un’operazione assai delicata e non basta sapersi muovere con diplomazia, evitare quelli che improvvisano e stare alla larga da chi vuole speculare troppo senza avere le idee chiare. È indispensabile poter contare su uomini fidati. Quella era la sua forza. Ripensava ai quadretti oleografici con cui aveva cominciato la sua carriera, fondando la società Lasca. Di certo non sarebbe arrivato dov’era se si fosse concentrato solo su paesaggi, scugnizzi e asinelli. Non avrebbe neppure contato conoscere i galleristi giusti per smerciare una produzione decorosa ma priva di qualsiasi significato artistico. «Quando passa il tram, o lo prendi o lo perdi. Deciditi», gli aveva detto un giorno un famoso gallerista.

    Ma lui quel tram lo aveva già preso, anni prima.

    A volte pensava che niente sarebbe successo se non avesse incontrato Otis Moore. Perché aveva trovato tanto irresistibile la sua proposta? Affidare un incarico del genere a qualcuno che non era di Napoli gli era parso un azzardo. Alla fine però aveva concluso che, trattandosi di una questione di famiglia, poteva correre il rischio. La sola parola famiglia aveva una risonanza definitiva, un’eco che riaffiorava dalle profondità remote della sua mente.

    La porta si aprì e fece capolino la testa del suo fido Toni.

    «Notizie da Venezia?»

    «Ancora no», rispose.

    Non c’era nulla da aggiungere e ben poco da fare.

    2. Mercoledì delle Ceneri

    28 febbraio 1990

    La prima notte d’amore, il primo nordvietnamita che aveva ammazzato, il suo primo concerto. Erano stati questi i veri punti di svolta nella vita di Otis Moore. Anche se adesso non contavano più niente. Ché, di fronte alla morte, tutto si risolve in una colossale presa in giro. Ma è sempre una questione di tempo. E lui voleva avere ancora un po’ di tempo per sé. Durare ancora qualche altro istante prima del buio eterno.

    Cercava il suo sguardo attraverso il velo di sudore che gli colava negli occhi. Ma non sapeva neppure se era rimasto solo. Non doveva muoversi. Ma si muoveva. Non sapeva di essere così pesante, di poter stare così male, di essere capace di tanta resistenza. Sapeva solo di dovere mantenere l’equilibrio. Per restare vivo non doveva dondolare, ma non sarebbe durato a lungo. Se soltanto fosse riuscito a girare la testa, a fare un cenno, a mormorare un’ultima parola…

    Fuori c’era la notte e tra poco la notte lo avrebbe raggiunto. Sarebbe morto. Morto. Come l’acqua morta di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1