L’ingannevole apparenza delle cose
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Anteprima del libro
L’ingannevole apparenza delle cose - Claudio Vergati
lascerò.»
Capitolo 1
La prima sensazione è il buio. Apre gli occhi e non vede nulla. È sicura di averli spalancati, ma continua ad avere un velo nero davanti a sé. Liquido. Come fosse catrame colato sugli occhi.
La seconda sensazione è il fetore. Un odore acre le assale le narici. Un misto di escrementi di cane e puzza di carne andata a male. Deve reprimere un conato di vomito che sale nella gola. Altrimenti soffocherebbe. Qualcosa, un fazzoletto arrotolato impregnato di saliva, le tappa la bocca.
La terza sensazione è il silenzio. Assoluto. Ovattato. Con le orecchie che cercano invano di captare un minimo rumore.
Avverte il formicolio fastidioso alle braccia, incrociate dietro la schiena e alle gambe, distese sul pavimento. Tira e i suoi polsi si bloccano dopo pochi centimetri. Riprova, inutilmente. Qualcosa le sega le carni ogni volta che strattona.
La testa pulsa ad ogni respiro, quasi avesse centinaia di aghi piantati nella nuca. Il cuore inizia a battere rapidamente e grosse gocce di sudore si formano sulla fronte. Sta per essere presa dal panico. Cerca di controllarsi, respirando per quello che le consente il fazzoletto. Ha la gola arsa.
Cerca di ricordare come è finita in quella situazione, ma una fitta alla testa le fa piegare il collo in avanti. Non riesce a pensare. Raccoglie le ginocchia al petto. I piedi nudi strisciano su una specie di tappeto morbido, o forse è gommapiuma. Vuole alzarsi e sgranchire le articolazioni. Nel frattempo le pupille si abituano all’oscurità e magari riesce a capire dove si trova. Si spinge con le reni, ma i polsi bloccati dietro la schiena sono fissati al pavimento e con una scossa scivola a terra. Un crampo alla spalla sinistra le fa emettere un gemito di dolore. Dove diavolo è? Da quante ore è legata in quella maniera? Deve assolutamente fare mente locale e ricostruire i suoi ricordi. Con le lunghe dita tasta i polsi. Una sottile striscia di plastica, stretta a segare la carne, la blocca a terra, ad un anello che fuoriesce dal pavimento.
Soffoca. Le manca l’aria. Il cuore sta esplodendo. Dà ancora disperati strattoni e poi si accascia piangendo.
Visualizza la sua immagine alla finestra. Stava fumando. Una sigaretta alla fine di un lungo bocchino nero. Perfetti anelli di fumo salivano al soffitto. Il sole tramontava lento. Che era successo? Deve ricordare, ricostruire.
La perdita del lavello. Sì. Il lavandino della cucina che gocciolava acqua. Un tubo roso dalla ruggine. Stracci imbevuti. Acqua che scorreva dappertutto. I tappeti persiani. Il parquet. Aveva aperto la porta in preda al panico. Non usciva mai dal suo appartamento. Non più, ormai. Lui era lì. Il piede sull’ultimo gradino della scala e le tante buste della spesa che pendevano dalle braccia robuste. Con la sua aria gentile. Come si chiamava? Niente. Non ricorda i nomi dei condomini. Vede solo quegli occhi azzurri, spalancati, che la scrutano. Chissà che spettacolo doveva essere. In vestaglia e ciabatte sul pianerottolo. I capelli arruffati. Struccata e con un tappeto umido arrotolato in mano. Una specie di apparizione demoniaca. C’era stato un silenzio imbarazzato. Buongiorno. Buongiorno. Silenzio. Non parlava spesso con le persone. Era abituata a sentire la sua voce rimbombare nella mente. Non è che saprebbe come riparare un rubinetto? Gli occhi azzurri l’avevano fissata a lungo, senza mai sbattere le palpebre, come se la domanda fosse troppo complicata da decodificare. Quasi increduli che la richiesta fosse rivolta a loro. Certamente, un minuto solo per prendere gli attrezzi e torno. Non faceva mai entrare sconosciuti in casa. Non intratteneva rapporti con gli altri condomini. Avrebbe dovuto chiamare la portiera che le avrebbe cercato un idraulico, ma nel frattempo la casa si sarebbe allagata irrimediabilmente. Di domenica, poi. Eccolo di nuovo, che bussa alla porta con una cassetta metallica che pende dalla spalla sinistra. Grossi guanti di gomma alle mani. La salopette jeans scompare sotto il lavello. Sbucano solo gli scarponi. Rumore di chiavi inglesi che scivolano intorno al sifone metallico.
Un momento. Il ricordo si squarcia. Percepisce una luce. Minima. Una sottile striscia. Un bagliore che penetra da sotto una porta. Sì, deve essere una porta. Cerca di mugugnare attraverso il bavaglio. Riesce solo ad aumentare la salivazione. Un grumo le finisce indietro nei polmoni e il colpo di tosse quasi la strozza. Tende l’orecchio. Nessun rumore.
Il lavandino. La salopette. E la voce che le chiede di Renato. Conosceva anche lei Renato Porzio? Lei era alla finestra, la sottile brezza del pomeriggio a lottare contro le sue spirali di fumo. Un salto nel passato. Non sentiva pronunciare quel nome da almeno sei anni. Come fa a sapere chi conoscevo? Ho visto le foto in salone. Ce ne è una con Renato. Ci ripensa ora. Non può aver visto la foto. Dall’ingresso alla cucina sono passati di fronte alla porta socchiusa del salone. Le persiane erano accostate, lei odia la luce diretta del sole sul viso, in penombra non può aver notato quella piccola foto. Ci ripensa ora, ma lì, alla finestra, fumando rilassata, non aveva dato importanza alla cosa. Non le capitava mai di parlare del passato con qualcuno. Renato. Un sorriso amaro le aveva increspato il viso. È strano come le persone possano riemergere dal nulla. Fino ad un minuto prima ce ne eravamo completamente dimenticati e, poi, basta una parola per far riaffiorare tutta una storia nei suoi minimi particolari.
Gli occhi si sono fissati sulla lama di luce per avere un punto di riferimento nel buio assoluto ed evitare il senso di vertigine. È talmente flebile che le viene da chiedersi se non sia frutto dell’immaginazione, uno scherzo del cristallino, come le girandole bianche che si vedono dopo aver premuto forte le mani sugli occhi. Evita di chiudere le palpebre per paura che quell’ancora di salvezza scompaia.
Che ne sapeva quell’uomo di Renato? Le aveva detto qualcosa sul fatto che fosse il medico di qualcuno che conosceva. Ora si pentiva di non aver ascoltato attentamente. Era importante ricordare le parole precise, ma proprio non riusciva. Erano solo quattro chiacchiere, mentre le riparava la perdita.
Renato? Renato Porzio. Una brava persona aveva detto lei, così come quelle cose che si dicono non tanto perché si pensano, ma per riempire gli imbarazzanti silenzi della conversazione. Non esattamente. Aveva risposto l’uomo, proprio così. Non esattamente. Le parole precise. Non esattamente. Con una voce roca. E tutto l’odio per Renato le era tornato su, liberato dopo anni di silenzio. Eravamo amanti. Hanno scritto che si è ucciso per causa mia. Parlava della sua vita privata con quello sconosciuto. Ma aveva percepito che anche lui disprezzava Renato Porzio, almeno tanto quanto lei si sentiva umiliata da quella storia.
Capitolo 2
L’ alba stava affacciandosi al mondo, quando Uolf iniziò ad abbaiare nervoso.
Il pastore alzò con due dita la coppola e aprì un occhio. Si tirò su dalla pietra levigata dove riposava e sgranchì le braccia.
Uolf si avvicinò uggiolando. Il pastore lo carezzò sul collo, controllando che il gregge fosse ancora lì. Scrollò un po’ di terra e ciuffi d’erba dal panciotto.
Dalla collina non vedeva la strada, ma sentì la frenata dell’auto sullo sterrato e la ghiaia che colpiva il muretto a secco.
La mattina presto arrivano solo i fantasmi o le cattive notizie.
Ma i fantasmi non sbattono le portiere.
Vide prima le coppole, poi le facce, poi i fucili. Come navi che si avvicinano sull’orizzonte curvo del mare.
I tre uomini avanzarono a ventaglio, con le lupare puntate tese all’altezza delle anche. Salirono la piccola collinetta e si fermarono a una decina di metri.
«U dicemmu di non trasire su a terra di don Tano» urlò quello al centro, con una barba nera e minacciosa. I due che lo accompagnavano erano poco più che ragazzini. La poca peluria che spacciavano per baffi non bastava a farli sembrare adulti.
Già due volte aveva portato a pascolare il gregge nei campi del capo mandamento della zona. E gli avevano ammazzato quattro pecore. Come risarcimento del danno aveva deciso di tornare e far brucare tanta erba quanto era il valore degli animali perduti.
Dodici occhi fissavano immobili il pastore. Sei umani e sei di metallo.
Con estrema lentezza si grattò la testa sotto la coppola. Aveva paura. Era una vita dura la sua, lo era sempre stata. Inverni gelidi ed estati torride. Sempre sui pascoli, lontano da tutti, in compagnia solo del cane. Il prato non era di don Tano più di quanto lo fossero le stelle e il vento. Lui avrebbe portato il gregge lì, come avevano fatto suo padre e suo nonno. Raccolse il bastone nodoso e lo strinse a sé.
I suoi avversari fecero due passi in avanti, armando i fucili. Il pastore teneva per il collare Uolf, che ringhiava e tentava di gettarsi nella mischia. Sperava che almeno quel povero cane lo risparmiassero. L’uomo anziano fece un gesto ai due ragazzi che puntarono le armi.
Ora capiva. Era un bersaglio inerme. Sarebbe stato il battesimo del fuoco dei giovani, per farli entrare nella famiglia dovevano uccidere qualcuno e fatalità, quel qualcuno era lui.
«Nente sacciu» disse, con poca convinzione.
«Sapi, sapi» gli rispose con un sorrisetto l’uomo di don Tano.
Il pastore capì di non avere via d’uscita. «Signure binidittu, proteggimi» mormorò alzando gli occhi al cielo.
In quel momento lo vide. Un aereo alto, sopra di loro. Percepì anche il rombo lontano. Il tempo di sbattere le palpebre. Poi esplose in una nuvola di fumo e scintille. Continuava a sentire il rumore ma l’aereo non c’era più, disintegrato, con i relitti che disegnavano spirali bianche, come un macabro fuoco d’artificio.
Rimase lì, immobile, la mano destra stretta intorno al bastone e al guinzaglio, la sinistra appena sollevata di fronte al viso, le dita leggermente aperte. Sembrava la statua di un santo benedicente.
I tre si guardarono senza capire.
Dopo qualche secondo arrivò anche il boato sordo dell’esplosione.
Tutti guardarono in alto. Uolf guaì e strappò la presa del padrone, fuggendo.
Una delle striature puntava decisa nella loro direzione, fumando come una locomotiva in fiamme.
La risata del pastore risuonò grave nell’aria. Sembrava proprio che quel lungo braccio di fumo avesse deciso di finire sopra di loro.
Preceduto da un sibilo acuto il motore dell’aereo, bianco e grosso come una roulotte, impattò col terreno in uno schianto metallico, come se decine di auto si accartocciassero in uno spaventoso incidente. La terra sussultò colpita. L’enorme carcassa rimbalzò e iniziò a rotolare trascinando dietro di sé alberi, muretti, pali del telefono, tracciando un solco nero su tutto quello che incontrava, perdendo pezzi e schizzando terra ad ogni rivoluzione.
Si fermò, contorto e fumante, a meno di dieci metri dal quartetto esterrefatto.
Gli uomini erano rimasti inerti, con le bocche spalancate e gli occhi che seguivano la traiettoria di quel frammento d’aereo.
Uolf era scappato, come il gregge di pecore, disperso a valle.
Ritornò il silenzio.
Barba nera lasciò cadere a terra la lupara.
«E uora chi minchia u dice a don Tano?»
Capitolo 3
Cornelio Velasco era immobile sul marciapiede. Una statua di marmo. I capelli grigi e radi sotto il borsalino sdrucito. Le mani scese nelle tasche del soprabito scuro.
Aspettava, indeciso.
Come tutti i giorni, sostava dall’altra parte della strada, guardando con le orbite incavate e scure come bruciature di sigarette l’edificio anonimo che lo aspettava, indeciso sul da farsi.
Entrare, morire, dormire, sognare forse.
Ogni mattina gli stessi dubbi. Illudendosi di poter scegliere una via diversa.
Si strinse il soprabito intorno al corpo. La punta estrema della sigaretta, spenta, restava incollata alle labbra socchiuse sotto il naso irregolare, perennemente raffreddato.
Respirò il freddo del mattino.
Certi giorni, Velasco percepiva la fatica di tenere insieme tutti gli atomi del proprio corpo. Polvere che cammina.