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Pìndulas: Pillole di lingua sarda e di altre lingue neolatine: aneddoti, curiosità ed etimologie
Pìndulas: Pillole di lingua sarda e di altre lingue neolatine: aneddoti, curiosità ed etimologie
Pìndulas: Pillole di lingua sarda e di altre lingue neolatine: aneddoti, curiosità ed etimologie
E-book283 pagine4 ore

Pìndulas: Pillole di lingua sarda e di altre lingue neolatine: aneddoti, curiosità ed etimologie

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Info su questo ebook

Sai perché in sardo di qualcosa a buon prezzo si dice che è a stracu baratu?
O di un coraggioso che “ha milza”?
Ma in Sardegna si parla una lingua o un dialetto?
Quando scrivi in sardo, quali consonanti bisogna raddoppiare?
Che origine ha la parola carasau?
E quanti nomignoli sono stati affibbiati alla volpe?
Un libro che risponderà a questi e a tanti interrogativi riguardanti la lingua sarda.
Con semplicità e chiarezza, e grazie al confronto con altre lingue neolatine come francese e spagnolo, sono analizzati molti vocaboli riguardanti il corpo umano, il cibo, gli animali.
Vengono chiariti i meccanismi che portano alla trasformazione di molte parole in sardo, partendo dalla loro origine etimologica.
Pillole di lingua e linguistica facili da mandar giù, quasi fossero mentine!
LinguaItaliano
EditoreCondaghes
Data di uscita6 nov 2019
ISBN9788873569763
Pìndulas: Pillole di lingua sarda e di altre lingue neolatine: aneddoti, curiosità ed etimologie

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    Anteprima del libro

    Pìndulas - Cristiano Becciu Braina

    Capitolo 1. Pillole di linguistica

    Tradizione e modernità

    Anche a chi non ha fatto specifici studi di linguistica, spesso, capita di riflettere sul funzionamento della lingua, mettendo a fuoco particolarità e fenomeni che possono apparire anche contradditori. Per esempio, perché si dice oro ma un oggetto d’oro è aureo, non *oreo? Se ci si guarda allo specchio, come mai l’immagine riflessa si dice speculare e non *specchiale? E ancora: l’animale dotato di unghie, in teoria, dovrebbe chiamarsi *unghiato, eppure nei dizionari troviamo il termine ungulato. È successo, insomma, che le matrici latine alla base di queste parole, rispettivamente auru(m), speculu(m), e ungula(m), abbiano preso due strade: una, come dire, dotta, che rispetta la struttura formale della matrice; un’altra popolare, col passaggio dal latino volgare all’italiano, con alcune trasformazioni. In lingua sarda accade un fenomeno simile. Nello stesso sistema linguistico, infatti, troviamo parole, cosiddette appunto ereditarie, che derivano dal latino volgare; ed altre che, pur imparentate, e veicolanti il medesimo concetto, formalmente hanno subito delle trasformazioni, perché derivati colti della medesima parola originaria.

    Qualche esempio per capire: da aqua deriva il sardo abba, però un subacqueo non è detto *subàbbeu, ma subàcueu; da quattor discende il numero sardo bator, ma un quadrilatero è detto cuadrilàteru, mica *batorlàteru. Ancora: da voce(m) abbiamo regolarmente boghe, in sardo, ma chiamiamo vocales le vocali, non certo *bogales. Il verbo fallire (variante di fallere) che aveva sin dall’origine il significato di sbagliare, ingannarsi, nella lingua sarda diventa faddire, con la medesima accezione. Eppure, una ditta che non è riuscita a raggiungere i suoi obiettivi, perdendo il denaro investito, si dice che è fallida, non certo *faddida.

    In sintesi: anche nel sistema linguistico sardo coesistono, pur avendo struttura formale diversa, vocaboli tradizionali e derivati colti designanti la modernità. Questo non deve far gridare allo scandalo, anzi. Il linguista Gian Luigi Beccaria sostiene che le lingue che hanno un più alto livello civile e culturale sono proprio quelle che possiedono un vocabolario molto composito, fatto di stratificazioni.

    Macchine e machìnes

    Il dialetto è come un gonfalone: quando una lingua non viene utilizzata negli ambiti d’uso della burocrazia, della scienza e della tecnica, allora non si arricchisce di tutto il lessico della modernità e si salvano unicamente i vocaboli cosiddetti tradizionali o patrimoniali, in gran parte relativi al mondo agropastorale.

    La lingua latina, per creare nuove parole, ha attinto a piene mani dal vocabolario della campagna, spesso estendendone il significato. Si spiegano così termini come egregio da ex gregis, letteralmente che è fuori dal gregge, dunque distinto; pecunia beni, denaro, ma originariamente pecus¹ indicava il bestiame, la ricchezza primaria. Lo stesso Fisco, che oggi si utilizza per indicare l’amministrazione finanziaria dello Stato, in origine era un semplice fiscus cesto di vimini, usato anche per raccogliere denaro.

    La lingua sarda, pur avendo un cospicuo lessico patrimoniale, per tutte quelle parole che veicolano la cosiddetta modernità si ritrova oggi a fare i conti terminologici con la tecnologia e la scienza. Conti che, se si risolvessero bene, aiuterebbero il sardo a diventare finalmente una lingua regolare e normata. Ebbene, c’è chi vorrebbe rietimologizzare il lessico patrimoniale (i cosiddetti differenzialisti), cioè usare parole sarde esistenti adattandole ai nuovi concetti moderni; c’è chi invece vorrebbe adattare internazionalismi lessicali, ovvero termini con radici spesso greco-latine, come ha fatto la stragrande maggioranza delle lingue europee.

    Prendiamo per esempio il termine analisi, prestito moderno dal greco antico ‘lýō’ sciogliere, col prefisso ana-. In tedesco è Analyse, in inglese analysis, in spagnolo análisis, in francese analyse. I sardòfoni hanno spontaneamente accettato l’internazionalismo lessicale, dato che, quando devono fare dei prelievi, parlano di anàlisi de su sàmbene². I differenzialisti invece, utilizzando una metodologia lecita ma quanto meno opinabile, una volta individuato nel vocabolario il verbo sardo compudare, compidare³ che vale anche per analizzare, vorrebbero utilizzare il deverbale compudu per designare l’analisi, creando curiose locuzioni come *compudu de sàmbene.

    Ancora: pur composto da elettro e domestico, secondo la metodologia dei differenzialisti, l’elettrodomestico dovrebbe diventare *tzeracu eletrònigu⁴ e non eletrodomèsticu, come suggerirebbero gli stessi parlanti e anche il buon senso, sulla scia dello spagnolo electrodoméstico e dell’aggettivo francese (appareil) électrodomestique⁵.

    Lo stesso dicasi per frigorifero, dove individuiamo frigus freddo e il verbo fero porto: la traccia latina è visibile anche nell’aggettivo spagnolo e portoghese frigorífico, oltre che nel termine tecnico francese machine frigorifique⁶. In sardo dobbiamo chiamarlo frigorìferu, come già facciamo, o utilizzare un neologismo come astradore, partendo dalla base astrau ghiaccio? La tecnologia ha le sue regole, anche lessicali, pertanto è sconsigliabile utilizzare machìnes bizzarrie per designare le macchine!

    Una lingua non solo per linguisti

    C’è chi la chiama etimologia popolare, chi paretimologia, qualcuno pseudo etimologia. Per via di questo fenomeno, la maggior parte dei parlanti accosta le parole di cui non conosce la reale origine etimologica ad altre più familiari, sulla base di semplici e apparenti somiglianze di suono e/o di significato.

    Cerchiamo di capire meglio. È risaputo che molte parole greche entrarono nella lingua latina, fra queste anche il vocabolo glykyrrhíza’ composto di ‘glykýs’ dolce e ‘rhíza’ radice. Per il parlante latino non esperto di greco, fu facile la trasformazione in liquiritia, pensando si trattase di una parola composta da liquor liquido (visto che sicuramente ne ricavavano un decotto liquido, appunto) e dal noto suffisso -itia, come in altri vocaboli. Insomma, i parlanti avevano completamente camuffato la vera origine greca del vocabolo, ricostruendo un nuovo termine e consegnandolo alla storia.

    Stesso procedimento in italiano, nella parola stoccafisso che indica il merluzzo conservato intero per disseccamento. L’origine è dall’olandese stochvish: stoch era il bastone di legno dove veniva essicato il vish, il pesce. Eppure i parlanti italiani, che di certo non conoscevano la lingua germanica, reintepretarono il vocabolo: stoch venne adattato in stocca-, e visch divenne fisso, per via della rigidità del pesce.

    Queste modificazioni delle parole originarie, per influenza di altri termini più familiari, sulla base di associazioni di senso e di suono, sono avvenute anche nella lingua sarda. Si pensi alla parola tartaruga, regolarmente derivata dal latino testugine(m). Oltre al regolare testùine, in alcune varietà possiamo trovare anche tostòine, tostoinu dove è chiara l’influenza dell’aggettivo tostu duro, per allusione alla durezza del guscio.

    Identico processo per lenzuolo. I latini portarono in Sardegna il termine linteolu(m) derivato di linum perché inizialmente indicava un panno fatto di lino, appunto. In sardo troviamo dei derivati regolari come lentzolu, lentholu e lentolu (dove la -n- dell’etimo è conservata), accanto ad altre forme reinterpretate, come letolu, per via dell’influenza di letu letto, visto che il lenzuolo si usa proprio per il letto.

    Soffi, bevute e… debiti!

    Quando una parola ha origine onomatopeica significa che dietro il vocabolo c’è una sequenza fonica, di suoni, insomma, che vogliono riprodurre o suggerire acusticamente un oggetto o una determinata azione. Un esempio può essere il verbo italiano bisbigliare, alla cui base c’è il suono bis- bis- che imita un parlare sottovoce, al pari dei suoni sardi pis- pis- che ritroviamo nel verbo pispisare-pispisai. O anche borbottare, dove si può isolare la base borb- utilizzata per simulare un rumore sordo e ripetitivo.

    BOFF/BUFF è invece una sequenza imitativa comune a molte lingue europee, per riprodurre il gonfiarsi delle guance e il conseguente soffio d’aria che esce dalla bocca. In francese bouffer significa sia gonfiarsi che mangiare a sbafo, ma è soprattutto in italiano che troviamo tutta una serie di parole derivate e curiosamente imparentate fra loro. Una è bufala nel senso di notizia falsa, fregatura: è un derivato di buffa = soffio di vento ovvero un po’ di aria che esce dalla bocca, senza sostanza. Da BUF- deriva bufera, vento stavolta impetuoso e forte. Il buffone inizialmente era semplicemente un comico che gonfiava le guance per far ridere, mentre un buffetto non è proprio uno schiaffetto, ma un soffietto, una ventata prodotta con le mani sul viso di qualcuno. Tutti vocaboli derivati da quel BOFF/BUFF iniziale. Radice onomatopeica che è stata produttiva anche nella lingua sarda, visto che la troviamo alla base del verbo bufare, bere, tracannare. Inizialmente significava semplicemente soffiare, prova ne sia che in qualche paese meridionale il soffietto che serve per ravvivare il fuoco, quello che altrove si chiama fodde mantice, è detto bufadori⁷. Col tempo bufare, soffiare è stato soppiantato da sulare, per cui è rimasto solo il significato traslato di tracannare, e bufare diventò semplicemente bere, sinonimo di bìere, dal latino bibere.

    In pochi sanno che anche i puffi, quei simpatici gnomi azzurri dei cartoni animati, derivano il loro nome proprio da PUF-, suono di chi gonfia le gote e, appunto, sbuffa. Bufala, bufera, bufare, puffo: tutti nati dalla stessa prima idea di soffio prodotto con la bocca. Secondo alcuni linguisti ci sarebbe la medesima voce imitativa anche dietro il termine buffo, voce romanesca per debito, entrata anche nell’espressione sarda a bufu, a credito, e affine al francese faire pouff col significato di andar via senza pagare. Stavolta il pouff è l’onomatopea del venticello prodotto da chi scappa per non saldare i suoi debiti e per sottrarsi alle ire del creditore.

    A nostra discrezione e a loro concrezione

    Secondo il sentire comune, l’usignolo è l’uccello del bel canto, a tal punto da essere ricordato da poeti e musicisti per l’armonia e i vocalizzi. Non a caso, la manifestazione di cantadores a chiterra⁸ di Ozieri è volta a proclamare proprio L’usignolo della Sardegna. Eppure la storia linguistica del nome usignolo è un po’ triste. Pare derivare dal latino *lusciniolu(m), alla cui base c’è luscus che significava, originariamente, cieco a un occhio. Gli etimologi non riescono a spiegare l’associazione tra l’uccello del bel canto e la cecità. C’è chi pensa che il termine derivi dal fatto che l’usignolo⁹ canti anche di notte, quindi colui che canta a occhi chiusi. C’è invece qualche studioso che motiva il nome con la feroce abitudine di accecare gli uccelli per accrescerne le doti canore. Al di là dell’etimologia triste, linguisticamente il vocabolo presenta anche una curiosità. *lusciniolu(m), infatti, se avesse seguito le regolari leggi di trasformazione dell’italiano standard, sarebbe dovuto diventare *lusignolo e quindi, con l’articolo il davanti, *il lusignolo. I parlanti, però, non conoscendo né le regole morfosintattiche né quelle fonosintattiche, interpretarono la l- iniziale di lusignolo come quella dell’articolo determinativo, per cui si creò la forma che tutti conosciamo: l’usignolo. In linguistica, questo fenomeno è detto discrezione dell’articolo, ovvero la separazione di ciò che viene considerato articolo.

    Un fenomeno simile accade nella parola badessa, derivato da abbatissa(m). Una prima fase linguistica prevedeva la forma l’abbadessa, in seguito reinterpretato come la badessa.

    Anche in sardo è presente il curioso meccanismo: la sabbia dei latini, harena(m), oltre ad aver dato il regolare arena, ha permesso una falsa restituzione nella forma sa rena¹⁰: la a- di arena è interpretata come quella dell’articolo. Nella nostra lingua, comunque, troviamo anche il fenomeno opposto, ovvero la concrezione: l’articolo, o una parte di esso, stavolta non si separa ma, al contrario, si fonde col sostantivo.

    Il termine latino menta diventerebbe regolarmente menta in sardo ma, aggiungendo l’articolo sa, crea forme curiose come s’amenta. Stesso discorso per patente e ràdio, forme che, con l’articolo davanti, diventano s’apatente e s’aràdio¹¹ e così, riformulate, rimangono anche quando sono utilizzate senza articolo. Altrimenti non si spiegherebbero frasi come: non nd’apo de apatente¹² e non so in chirca de aràdio¹³. Il toponimo Alghero, in sardo, suona come S’Alighera. La maggior parte dei sardofoni, specie dei paesi confinanti, concependo il nome come tutto attaccato, chiamano gli abitanti della cittadina saligheresos/saligaresos, con l’articolo concresciuto. È come se gli abitanti di L’Aquila fossero detti *laquilani.

    Fenomeni del genere sono comprensibili per il fatto che anticamente si aveva una percezione acustica e una fruizione orale della lingua, non certo scritta. Oggi, con la scolarizzazione e con il controllo grafico, la discrezione e la concrezione dell’articolo sono fenomeni alquanto rari, anche per forestierismi entrati di recente come il laser e l’avatar. Non diremmo mai, in italiano, questo è *l’aser, né tantomeno in sardo càmbia *sa vatar de facebook.

    A sa sarda e a s’italiana

    Un purista della lingua sarda, imbattendosi in una famosa ottava dell’improvvisatore ozierese Giuseppe Pirastru¹⁴, sono sicuro che griderebbe allo scandalo. Il poeta infatti, modificando esclusivamente la vocale finale, sardizzò un aggettivo prettamente italiano, ramingu, facendolo rimare con altre due parole che non appartenevano al lessico patrimoniale: guardingu e zingu.

    Si parla del primo ventennio del secolo scorso, quando l’italiano – inteso come lingua dell’Italia unita – era ancora una lingua giovanissima di 50/60 anni e che padroneggiavano in pochi. Pirastru è ben consapevole che per ramingu la lingua sarda offriva numerose ed efficaci alternative, come bagamundu, rundanu, banduleri, perdularju, andariegu, ma utilizzare l’italianismo – oltre che per esigenze di rima – risultava un vezzo chic intellettuale, quasi a dimostrare che la sua maestria linguistica gli permetteva di gestire anche quella lingua che pian piano diventava ufficiale in Sardegna. L’italiano, nel senso però di dialetto del dominatore o frequentatore di turno, era già penetrato nel sardo almeno cinque secoli prima, quando si intensificavano i rapporti commerciali e arrivavano nell’isola maestranze dalla cosiddetta terramanna¹⁵ o continente. Qualche esempio: giòvanu proviene da giòvano, manigare, mangiare dall’italiano antico manicare, ciafu/tzafu, schiaffo da ciaffo.

    Dopo Pirastru gli italianismi nel sardo si intensificarono, per via della tecnologia, del progresso, del servizio militare, della scolarizzazione, dei matrimoni mistilingui e della televisione: contu currente, tratore, motozapa, telefoninu, secondo un processo normalissimo che coinvolge qualsiasi lingua del mondo, dove il lessico tradizionale si arricchisce, di volta in volta, con vocaboli di altri idiomi con cui viene frequentemente a contatto. Ma le parole nuove devono designare cose o concetti nuovi, per potersi ritagliare uno spazio all’interno del vocabolario ospite¹⁶. Un po’ come era capitato, negli anni Cinquanta, quando il football era diventato fùbbalu, gioco che pian piano conquistava le simpatie anche dei sardi tanto da permettere la sardizzazione del termine, penetrato in sardo per il tramite dell’italiano. Purtroppo oggi si assiste al fenomeno spiacevole di italianismi che scalzano parole sarde della tradizione: *su sugo invece di sa bagna, *giugno, *luglio etc., quando esistono regolarmente làmpadas e trìulas o argiolas. Pertanto occorre un controllo terminologico istituzionale, per evitare di perdere lo spirito della lingua sarda, come lo definiva Max Leopold Wagner.

    Accettare di accentare

    Imparare a segnare l’accento grafico sulle vocali è una delle cose che si apprende più lentamente rispetto alle altre, soprattutto in lingua sarda. Spesso si assiste persino a un rigetto delle regole e si tende a non scrivere gli accenti, secondo il sistema italiano, se non quando coinvolgono l’ultima vocale: tribù, perché, però, verrò, etc. Quando infatti l’accento tonico cade sulla penultima sillaba è regola non segnalarlo graficamente: divano, poltrona, tappeto, coperta, stivale, etc. Non lo troviamo nemmeno nelle parole cosiddette sdrucciole, con accento sulla terzultima sillaba: cavolo, tavolo, timido, tiepido, etc. perché, avendo sempre un ricordo acustico della parola, rafforzato dal fatto che l’italiano è una lingua che si sente quotidianamente (a scuola, alla radio, in tv, e in tutti gli altri ambiti), pur non segnando l’accento grafico, mai un italofono leggerebbe *cavòlo, *tavòlo, *timìdo, *tiepìdo, etc. Qualche problemino potrebbe averlo con le parole desuete o di uso letterario. Penso a ‘futile’, ‘ostico’, ‘caduco’, ‘pudico’ che qualcuno, a torto, si ostina a leggere con accentazione errata: *futìle, *ostìco, *càduco e *pùdico.

    In italiano è regola comunque segnare l’accento quando serve a distinguere due parole omografe: principi e prìncipi, sèguito e seguito, etc., ma si sta perdendo anche questa abitudine, perché il contesto in cui queste parole vengono utilizzate di solito impedisce situazioni di ambiguità. Eppure io stesso ho assistito a una scena curiosa, qualche anno fa, presso un distributore di carburanti. La solita campagna pubblicitaria per fidelizzare i clienti invitava ad accumulare punti a ogni rifornimento con la scritta «Premiati subito». Un signore anziano rivendicava il suo premio, pur non avendo accumulato i punti necessari e al gestore incredulo faceva notare, in sardo, b’est finas iscritu¹⁷: «Premiàti subito!». È logico che il cliente aveva letto premiati come un participio passato plurale (anche aggettivo e sostantivo) del verbo premiare, intendendo (verrete) premiati subito, ovvero riceverete subito il premio. Ma la pubblicità aveva un senso esortativo-imperativo, e per questo era necessario l’accento grafico: prèmiati subito ovvero datti da fare e verrai premiato. L’accento distingue: se uno scrive «capitano navi veloci» può essere che intenda la possibilità di navi veloci (càpitano da capitare) o che guida (capitàno da capitanare) navi veloci, e se segna un accento sull’ultima vocale, capitanò, colloca l’azione nel passato remoto. Il sardo purtroppo non ha la stessa diffusione dell’italiano: si sente poco in radio, è raro in TV, è relegato sovente all’uso familiare, pertanto chi non è sardofono o chi lo parla pochissimo ha bisogno dell’accento grafico per capire dove cade quello tonico.

    Giusto per evitare bruttissime pronunce e storpiature di nomi come Nuoro (letto *Nuòro) per Nùoro, Sardara (letto Sardàra) per Sàrdara, etc., e per evitare fraintendimenti: un conto è nadia nativa, un altro nàdia natica del meridione. La frase scritta est bellu torrare a sa nadia¹⁸ potrebbe dare adito a curiose interpretazioni. Lo stesso dicasi per paràculu, come si chiama l’ombrello in alcune varietà di sardo: senza l’accento diventerebbe, secondo l’accentazione italiana, una persona scaltra e opportunista. La regola dell’accento grafico in lingua sarda è comunque semplice: si segna se cade sull’ultima vocale: ajò, cafè, acò, Buddusò¹⁹; oppure sulla terzultima vocale (non sillaba): istòria, fèmina, òmine, pàrracu, ànghelu²⁰, etc. Nessun accento grafico se quello tonico cade sulla penultima: zo(r)ronada, cristianu, taulinu²¹, etc.

    Lascia o raddoppia?

    Fino a ora abbiamo utilizzato la lingua sarda secondo le norme ortografiche regionali. Tutte le commissioni che si sono alternate per indicarle convenivano sulla scrittura delle consonanti: alcune si possono raddoppiare graficamente, altre no. Se non si conoscono queste norme, di solito si segue la regola ortografica dell’italiano, ovvero si raddoppiano in sardo le consonanti delle corrispondenti parole che, nella lingua di Dante, hanno lo stesso significato: otto, suppa, affettu, per analogia con otto, zuppa, affetto, giusto per fare un esempio.

    Questo criterio, lecito e comprensibile, ha però un difetto, ovvero il conformarsi a delle regole fonetiche, cioè ai suoni dell’italiano e non della lingua sarda che gode sicuramente di una sua precisa autonomia. Infatti in italiano distinguiamo consonanti semplici (dette anche scempie) e doppie quando c’è realmente una pronuncia differente di quelle stesse consonanti che determina anche un cambiamento di significato delle parole che le contengono. ‘Roca’ con una vuol dire rauca; ‘rocca’, con due, vale invece per fortezza costruita su una cima rocciosa: una buona dizione italiana richiede una pronuncia più intensa della c, rispetto a quella per roca. Stesso discorso per ‘tufo’ e ‘tuffo’; ‘papa’ e ‘pappa’, ‘fato’ e ‘fatto’, ‘aviatore’ e ‘avviatore’, ‘sugo’ e ‘suggo’ etc. Insomma, a un cambiamento consonantico corrisponde un cambiamento di pronuncia (nella dizione standard) e di significato.

    In lingua sarda è diverso: i fonetisti hanno dimostrato che la pronuncia di alcune consonanti (k, f, p, t) da parte del parlante sardo è sempre intensa: la f di istufa stufa è forte come quella doppia di tzuffu ciuffo; quella di bucu²² buco come bucca bocca e via dicendo. Quindi, sia per dette ragioni fonetiche, sia perché non ci sono coppie di parole al cui cambio di intensità, anche minimo, corrisponda un cambio di significato, la commissione di esperti si è trovata davanti a un bivio: scrivere c, f, p, t sempre doppie, oppure sempre semplici. Per via del cosiddetto criterio dell’economia linguistica, ha preferito la seconda ipotesi. Pertanto scriveremo in sardo sicu per secco; istafa per staffa; tupone per tappo; letu per letto. È prevista però la possibilità di raddoppiare alcune consonanti che troviamo nella frase con finalità mnemoniche LaNa SaRDa de Babbu e Mamma, perché in questi casi vige la regola già vista per l’italiano: quando due suoni ricorrono nelle medesime posizioni e non possono essere scambiati fra loro senza con ciò mutare il significato delle parole o renderle irriconoscibili, allora questi due suoni sono realizzazioni fonetiche di due diversi fonemi e quindi vanno scritti utilizzando due distinti segni grafici: cabale omogeneo e cabbale valore; seda seta e sedda sella; bula gola e bulla bolla; suma (congiuntivo del verbo sumire assorbire) e summa somma²³; sonu suono e sonnu sonno; coros cuori e corros corna; pasu riposo e passu passo.

    Le consonanti e , secondo le regole ortografiche regionali, non devono essere raddoppiate. C’è stato comunque qualcuno che ha rigettato questa possibilità per via della pronuncia di parole come av(v)iare andar via e ag(g)antzare agganciare, dove la e la hanno una intensità diversa di quella che sentiamo in cava cava e pagu poco. La zeta invece, a differenza dell’italiano, in lingua sarda non deve essere raddoppiata graficamente. Se essa è aspra (sorda) va infatti scritta ; se è dolce (sonora) , per cui distinguiamo pizu panna del latte; strato da pitzu pizzo, becco, punta.

    I taliani

    Non è scritto nella Costituzione, ma l’italiano è la lingua ufficiale dell’Italia. Bisogna però sapere che una legge del 1999 riconosce e tutela anche 12 minoranze linguistiche nel Bel Paese tra cui quelle parlanti il sardo e il catalano di Alghero, entrambe presenti in Sardegna²⁴. Ne consegue, giuridicamente, che il sardo è la seconda lingua dello Stato, visto che è possibile contare nell’isola almeno un milione di parlanti l’idioma

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