Filosofia e linguaggi della politica
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Vengono inoltre presi in esame lo Stato-nazione, il popolo, la libertà e l’immaginario collettivo nei loro aspetti simbolici e concettuali.
L’opera ha lo scopo di introdurre il lettore a una riflessione critica sulle principali questioni politiche entro cui si dibatte la civiltà moderna dopo la fine della Guerra Fredda.
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Anteprima del libro
Filosofia e linguaggi della politica - Paolo Bellini
© Proprietà letteraria riservata
Edizioni AlboVersorio, Milano 2018
www.alboversorio.it
mail-to: alboversorio@gmail.com
tel.: 02.39525370
ISBN: 9788899029609
Redazione e progetto grafico: E. S. Storace
Prefazione
Lingua, cultura e potere
I saggi contenuti all’interno di questa raccolta individuano un itinerario simbolico e concettuale, che nel corso degli ultimi dieci anni ha avuto come oggetto l’interpretazione dei fenomeni politici tipici dell’età moderna e post-moderna. La maggior parte di essi sono stati pubblicati in inglese e francese sulla rivista Metabasis.it, ma abbiamo ritenuto opportuno raccogliere tale produzione in un unico testo e tradurla in italiano. Tale esigenza si è manifestata non solo come il desiderio di tessere un filo continuo all’interno di un percorso solo apparentemente frammentario, ma soprattutto con lo scopo di utilizzare la lingua italiana come strumento espressivo e di elaborazione concettuale. Non si tratta, in questo caso, di una rivendicazione puerilmente nazionalistica, ogni lingua, infatti, ha delle peculiarità tali da renderla unica e apprezzabile. Piuttosto, chi scrive intende affermare una tradizione e un’identità culturale che sembra scivolare lentamente nell’oblio e su cui non vi è abbastanza attenzione da parte delle istituzioni. Come accade per le questioni ambientali, dove negli ultimi anni si è posto il problema della protezione della biodiversità, onde evitare l’eccessivo impoverimento biologico che minaccerebbe la vita umana e forse l’esistenza in generale della vita sul pianeta, così, anche per ciò che concerne le scienze umane, è di importanza fondamentale la salvaguardia della diversità linguistica. Soprattutto quelle lingue, come l’italiano, che per ragioni storiche, politiche ed economiche non possono pretendere di assurgere al rango di lingue veicolari negli scambi internazionali, necessitano di una particolare attenzione al fine di evitarne la sparizione e la totale irrilevanza.
Da un altro punto di vista si può anche plaudere all’affermarsi a livello planetario di un’unica e nuova neo-lingua basata sull’idioma dominante (attualmente l’inglese), eventualmente arricchito da numerosi prestiti da altre lingue aventi una funzione ancillare. Ciò comporta evidentemente vantaggi pratici assai rilevanti, poiché facilita enormemente la comunicazione a livello internazionale, permettendo notevoli risparmi in termini economici e una maggiore efficienza a ogni livello dell’interazione umana. Perché quindi conservare a tutti i costi idiomi residuali, non in grado di competere con le altre lingue? Perché mai si dovrebbe impedire la scomparsa delle differenze e non abbracciare con entusiasmo l’unificazione linguistica globale?
I motivi che inducono a essere restii nell’abbandonare la propria lingua e nell’adottare la lingua di un altro o una neo-lingua di nessuno, frutto dell’ibridazione dei più diffusi idiomi a livello planetario, non riguarda affatto un nostalgico sentimentalismo linguistico, né una presunta superiorità della propria lingua rispetto alle altre, né tantomeno l’esaltazione nazionalistica del passato attraverso l’esibizione di un linguaggio usato come clava per discriminare e punire chi non vi si conforma¹.
Nonostante chi scrive, infatti, ritenga di vitale importanza un’efficace azione educativa attraverso cui mettere tutti i cittadini in condizione di poter padroneggiare la lingua internazionalmente più diffusa (l’inglese nel caso attuale), l’autore nutre anche il profondo convincimento che, accanto alla lingua dominante, sia di vitale importanza salvaguardare il proprio idioma storico. Questa presa di posizione ha diverse e profonde motivazioni che ci sforzeremo di illustrare.
In primo luogo è necessario mostrare quanto profonda sia l’unità tra pensiero e linguaggio affermata in origine da Platone² e più volte ripresa nel corso della storia della filosofia³. Nella rappresentazione che il soggetto conoscente si fa delle cose e del mondo, pensiero e linguaggio precipitano l’uno su l’altro in modo da sovrapporsi come facce di una stessa medaglia. Il pensiero, infatti, tanto nel caso in cui ha una dominante logico-concettuale, quanto nel caso in cui ha un’impronta prevalentemente simbolico-affettiva, nel suo stesso formularsi nella coscienza del pensante necessita sempre di un linguaggio che gli corrisponda esattamente. Viceversa, ogni genere di linguaggio dipende da una coerente attività mentale di qualche tipo da cui esso stesso deriva, all’interno di una logica perfettamente circolare dove è impossibile distinguere i due termini. Si consideri, per esempio, la matematica dove il tipo di ragionamento e il linguaggio che lo esprime sono del tutto indistinguibili, per cui scrivere l’equazione della parabola y=ax² + bx + c, equivale esattamente a pensare la regola di costruzione delle infinite parabole reali, così come per capire la formula appena citata è fondamentale pensarla nel linguaggio in cui essa è scritta. Pertanto, chi non possiede il linguaggio appropriato non può capire la parabola in senso matematico, ma non può neanche pensare la parabola stessa poiché gli manca il linguaggio per farlo.
Quindi, se sussiste tra pensiero e linguaggio la relazione per cui essi sono indistinguibili e si influenzano reciprocamente, ciò comporta anche che pensare in una determinata lingua, avrà come esito il fatto che tale pensiero conterrà sempre un punto di vista, una serie di sfumature e di peculiarità non pienamente coglibili al di fuori della lingua stessa che le ha prodotte. Tutto questo implica che ogni lingua naturale rappresenta per il pensiero un tesoro di inestimabile ricchezza da salvaguardare e difendere, poiché una diminuzione del numero di lingue esistenti genera inevitabilmente una conseguente riduzione della ricchezza del pensiero umano.
In secondo luogo, la lingua veicola l’identità più profonda di qualsiasi popolo-nazione, sicché non avrebbe senso alcuno parlare di italiani, tedeschi, spagnoli, francesi o inglesi prescindendo dal fatto che vi siano lingue corrispondenti. Inoltre la produzione culturale che ne discende sarebbe del tutto impensabile senza la lingua in cui essa è espressa, in altri termini non vi sarebbero potuti essere né Dante, né Shakespeare, né Cervantes, né Goethe, né Rabelais senza italiano, inglese, spagnolo, tedesco o francese. Qualche fautore di un’unica neo-lingua mondiale potrebbe efficacemente sostenere che, in fondo, annullare le differenze linguistiche potrebbe anche permettere una riduzione della conflittualità tra i vari gruppi umani. Per quanto molti esempi storici contraddicano tale affermazione, vale comunque la pena ricordare che il multiculturalismo nell’alveo di una stessa Civiltà (in particolare per ciò che concerne l’Occidente)⁴ è sempre preferibile al mono-culturalismo, poiché solo un approccio plurale e aperto garantisce pienamente un’autentica libertà di scelta in senso etico-morale e nel senso più generale del gusto e dello stile di vita che ciascuno ritiene opportuno adottare per se stesso. Inoltre, il confronto tra le diverse culture umane e gli stimoli provenienti da differenti visioni del mondo non può che alimentare la naturale creatività e l’umana inventiva. Sul piano squisitamente politico, poi, la lingua è anche espressione primaria del potere, sicché adottare una lingua diversa dalla propria, condannando all’estinzione l’idioma in cui e da cui si è stati educati, significa assoggettarsi mentalmente a un potere alieno, agli occhi del quale, per generazioni, i nuovi parlanti saranno sempre stranieri, la cui identità originaria è stata perduta per sempre.
In terzo luogo la progressiva riduzione dell’ampiezza semantica della propria lingua, cui segue di solito l’estinzione, a vantaggio della lingua di qualche altro popolo, indica una volontà di totale assoggettamento a un altro ordine politico-sistemico, senza che si possa portare al suo interno la propria ricchezza culturale, cosa questa che va tanto a detrimento dell’assoggettato quanto del sistema politico-linguistico assoggettante. Si pensi, invece, al mutuo beneficio che trassero i romani e i greci dal fatto di avere un impero formato da due grandi lingue dominanti⁵: il latino nella parte occidentale e il greco nella parte orientale. I greci non dimenticando se stessi, né tantomeno la loro lingua, nonostante fossero stati conquistati, resero così un grande servizio alla cultura romana prima e a quella occidentale successivamente.
Ogni lingua naturale, pertanto, merita di essere salvaguardata con attenzione, ma ciò è possibile solo se i parlanti non diminuiscono eccessivamente e solo a condizione che tale lingua sia anche un vivo strumento di produzione culturale tanto per ciò che concerne il folklore popolare, quanto per ciò che riguarda le più alte vette della produzione letteraria e accademica. Nonostante il sapere dominante, ovvero quello delle scienze sperimentali, da tempo abbia eletto a sua unica forma espressiva l’inglese standard internazionale, cosa tra l’altro comprensibile per via della sua facilità di utilizzo e della necessità di veicolare le scoperte scientifiche in modo rapido ed efficace, ciò non deve tuttavia indurre ogni altra disciplina, per imitazione, a seguire il medesimo percorso. Se, infatti, per ciò che concerne materie come la fisica, la biologia o la chimica l’idioma utilizzato non determina alcuna variazione per quanto pertiene al loro contenuto, poiché esso è determinato dal linguaggio operativo, formale e quantitativo della matematica utilizzata (la vera lingua della scienza), lo stesso non vale negli altri campi del sapere. Qui, invece, il modo di osservare la realtà è profondamente influenzato dalla lingua utilizzata e, non a caso, per esempio, le tradizioni filosofiche tedesche, francesi, italiane e anglosassoni, sono spesso così ricche di peculiari sfumature, come d’altronde accade in maniera anche più evidente per tutti gli altri settori delle scienze umanistiche.
Gli studiosi appaiono, quindi, chiamati a svolgere un difficile compito, da un lato si devono sforzare di apprendere la lingua degli scambi internazionali e pubblicare in quest’idioma standard maggiormente diffuso, dall’altro però devono aver cura di pensare, insegnare e pubblicare anche nella loro lingua, in modo tale che essa non vada mai perduta o dimenticata. Tale incombenza ha così una natura etica e politica allo stesso tempo. Ha un preciso risvolto etico poiché attraverso i produttori di cultura per eccellenza (gli studiosi) la difesa della lingua assume un significato sociale, veicolando un’alta idea del multiculturalismo, come la migliore e più efficace risposta a ogni spinta disgregatrice dell’ordine sociale. Mostrando al mondo la dedizione e l’impegno con cui si prefiggono di proteggere il loro patrimonio culturale, gli accademici indicano attraverso il proprio esempio la via anche alla cultura popolare. Quest’ultima, chiamata a tenere in vita il proprio idioma soprattutto nella quotidianità dei rapporti umani, invita attraverso la spontaneità della lingua vivente ogni straniero a imparare e trattare con rispetto ciò che non gli è familiare.
Tale opera di salvaguardia ha, poi, anche precise conseguenze politiche poiché la lingua esprime rapporti di potere tanto all’interno della società dove è diffusa, quanto verso l’esterno nella sua capacità di resilienza e sopravvivenza. All’interno la lingua contribuisce a determinare profondamente un ordine politico che coinvolge individui e gruppi, in modo tale che le posizioni ricoperte al suo interno siano anche legate, man mano che si ascende nella gerarchia sociale, alle forme espressive utilizzate come indicatori del livello culturale e del grado di consapevolezza raggiunto dai parlanti. Solo in tal modo si può avere la certezza che un popolo non smarrirà facilmente la propria identità e il proprio stile di vita. Poi, verso l’esterno, la conservazione del proprio idioma, cioè il fatto che su un determinato tipo di territorio sia in uso la lingua tradizionale, implica necessariamente un maggior grado di libertà politica e, quali che siano i rapporti di forza in campo, la capacità di rivendicare la massima autonomia nei confronti di ogni sfera di possibile influenza esterna. Al contrario adottare acriticamente la lingua della cultura dominante conferisce sempre una minore indipendenza, collocando per forza di cosa gli ultimi arrivati una posizione di estrema debolezza e assoggettamento. Di solito attraverso la lingua e il suo uso si manifesta chiaramente la differenza tra un paese alleato e una colonia. Il primo si esprime cortesemente e informalmente nella lingua dell’alleato, ma ricorre sempre all’uso degli interpreti ogni volta che il protocollo e il rispetto delle forme lo rendono necessario. Nel secondo caso, invece, in quanto colonie, si subisce la lingua del colonizzatore e ci si serve di essa in continuazione in modo da nascondere, quasi con un malcelato senso di