Non sono Stato, io?
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Anteprima del libro
Non sono Stato, io? - Angelo Castagna
qualcosa…
Cap. 1
UN PO' DI STORIA
Nel dopoguerra, il nostro Paese doveva ricostruirsi partendo dalle macerie sociali, economiche e strutturali riconducibili ai disastri provocati da due guerre mondiali e una pandemia di Spagnola e le tante crisi governative che hanno contraddistinto il difficile cammino prima del Regno d'Italia e ora della giovane Repubblica.
Un'epoca che pochi ricordano se non attraverso i racconti dei nonni o dei padri e di cui solo parzialmente chi ha oggi 50 anni o più, può raccontare avendone vissuto gli strascichi e alcune grandi conquiste che il sistema socio politico ha portato partendo dal processo di industrializzazione, basti pensare alla carta dei diritti dei lavoratori, alla parità di genere, al diritto alla pensione sociale, alla sicurezza nei luoghi di lavoro, alla riduzione degli orari ecc.
L'altra faccia della medaglia è rappresentata dal fatto che le discriminazioni in alcuni settori sono cominciate negli anni '70 e ancora ci sono, segno che né i sindacati né la politica hanno saputo o voluto colpevolmente porvi rimedio, di fatto rendendo il nostro paese poco democratico o almeno molto meno di quanto scritto nei primi quattro articoli della Carta Costituzionale. Un grande lavoro fatto dai padri della Repubblica, De Nicola, Calamandrei in primis, una grande mediazione trasversale a tutto il sistema politico che lentamente nel corso dei decenni, ha subito una deriva filo correntista che ne ha di fatto sbiadito il significato tant'è che nemmeno nei programmi scolastici della scuola dell'obbligo si studia più a fondo il tema.
Prendiamo come riferimento i lavoratori appartenenti al settore privato, rispetto a quelli pubblici e rispetto ai piccoli imprenditori (partita IVA, artigiani, commercianti).
Le differenze risiedono nella contribuzione, negli orari di lavoro, nei benefit, nel trattamento pensionistico, negli ammortizzatori sociali e nel diritto a sostegni di Stato nel caso di difficoltà oggettive.
Nessuno però capisce cosa voglia dire lavorare in proprio perché pochi hanno il coraggio di provarci: Lavoro da 12/15 ore al giorno, disbrigo pratiche burocratiche infinite che spesso si inceppano proprio in quegli uffici dove lavorano i dipendenti statali, adempimenti e obblighi costanti e in continua crescita, scarsa sostenibilità finanziaria legata alla liquidità (noi non abbiamo uno stipendio fisso al contrario di quello che si crede e se un anno va male, si paga comunque il dovuto a tutti, a rischio del nostro bilancio familiare), responsabilità oggettiva e soggettiva nei confronti del fisco, dei sindacati, dei dipendenti, poche ferie o permessi, nessuna malattia o infortunio pagato, niente TFR e un assegno pensionistico più basso dei nostri dipendenti.
Poca roba si potrebbe pensare, ma le conseguenze rapportate all'oggi in periodo di crisi e di pandemia sono evidenti e terribili. Se alcuni imprenditori hanno accumulato ricchezze è perché hanno svolto bene (magari qualcuno poco lecitamente) il loro lavoro e i benefici sono comunque condivisi con i dipendenti a cui hanno assicurato uno stipendio e i contributi pensionistici per dare in ogni caso una certa sicurezza a molte famiglie, ma non per tutti è così, per tanti altri è una guerra quotidiana che si combatte per portare sul tavolo qualcosa da mangiare e si va in guerra perché spesso non ci sono alternative.
Porto ad esempio un dipendente di una società operante nel settore dei trasporti marittimi (classe 1932, andato in pensione nel 1993 con quarantuno anni di contributi e 61 anni di età anagrafica) e un ex sottufficiale dell'Aereonautica (classe 1941 andato in pensione nel 1996 con trentacinque anni di contributi e 55 anni di età) e io classe 1971 per venti anni dipendente nel settore privato con contribuzione mista e discontinua, se tutto va bene andrò in pensione a 67 anni con quarantatré anni di contributi).
Già nei primi due casi si evince una differenza tra l'età contributiva necessaria per andare in pensione e l'età anagrafica raggiunta al termine del periodo lavorativo. A parità di continuità contributiva, differenti sono le tipologie di lavoro (il marittimo faceva un lavoro usurante), differenti sono gli orari di lavoro (nel primo caso lavorava minimo dieci ore al giorno), differenti sono le entità dell'assegno pensionistico, del TFR e dei benefit. Se poi guardiamo alla produttività delle ore lavorate, la curva nel settore pubblico è inversamente proporzionale rispetto al privato, senza contare che i furbetti esistono in tutti i campi, ma i sindacati dov'erano in quegli anni?
D'altra parte se confrontiamo tutto ciò con la mia vita lavorativa e la condizione che vivo da partita IVA, direi che comunque loro sono stati in ogni caso dei fortunati perché da quando sono diventato partita IVA, ho scoperto che assumendomi il rischio di impresa, in automatico sono stato escluso da qualsiasi forma di tutela sociale e anche dal TFR e non ho diritto a sussidi per me e la mia famiglia nel caso sia costretto a chiudere