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Venite in fitta schiera: Le donne e gli uomini della Camera del lavoro di Padova raccontano la loro storia
Venite in fitta schiera: Le donne e gli uomini della Camera del lavoro di Padova raccontano la loro storia
Venite in fitta schiera: Le donne e gli uomini della Camera del lavoro di Padova raccontano la loro storia
E-book890 pagine12 ore

Venite in fitta schiera: Le donne e gli uomini della Camera del lavoro di Padova raccontano la loro storia

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Info su questo ebook

Dopo Il riscatto del lavoro, continua la storia delle donne e degli uomini che hanno fondato e caratterizzato la Camera del lavoro di Padova. La nuova generazione di sindacalisti (nati fra il 1931 e il 1949) racconta il tramonto dell’epopea delle lotte bracciantili, ma la permanenza nelle fabbriche delle discriminazioni e dei licenziamenti degli operai sindacalizzati, mentre si avvia alla conclusione il decennio che vedrà le lotte studentesche del ’68 e l’Autunno caldo del ’69. Con gli anni ’70 si inaugura una stagione nuova con il passaggio epocale dell’approvazione dello Statuto dei lavoratori e il processo unitario di Cgil, Cisl e Uil. Saranno però anche anni cruciali per la storia dell’Italia e del sindacato per la complessa e tragica vicenda del terrorismo. Il successivo decennio metterà poi in crisi il processo di unità sindacale che arriverà alla rottura col referendum sul taglio di tre punti di contingenza. 
Seguiranno anni di crisi di fronte a una realtà che appare ben diversa da quella povera ma ricca di speranze degli anni della gioventù, dove tuttavia il sindacato resterà in prima linea per affermare con forza, ancora una volta, la causa dei diritti dei lavoratori.
LinguaItaliano
Data di uscita22 gen 2023
ISBN9788832102734
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    Anteprima del libro

    Venite in fitta schiera - Diego Pulliero

    Le immagini n. 1, 2, 4, 5, 6, 8, 9, 10, 12, 14, 16, 17, 19, 20, 21, 22, 24, 29, 30, 31, 32, 35, 36, 37, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 48, 49, 51, 52, 54, 56, 57, 59, 61, 63, 64, 65, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 78, 79, 81, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 97, 98, 99, 100, 101, 103, 104, 105, 106, 108, 109, 113, 114, 115, 116, 117, 119, 121, 122, 123, 124, 125, 127, 129, 130, 131, 132, 133, 137, 143, 144, 146 sono state pubblicate per gentile concessione del Centro studi E. Luccini di Padova.

    Le immagini n. 7, 13, 33, 50, 58, 60, 62, 66, 77, 82, 96, 110, 118, 128, 134, 135, 138, 139, 140, 145 sono state concesse dall’Archivio della Cgil nazionale.

    Le altre foto sono di pubblico dominio o appartengono all’archivio privato dell’autore.

    Si ringraziano gli enti che hanno permesso la pubblicazione delle foto.

    È vietata la riproduzione delle immagini presenti in questo volume.

    isbn: 978-88-32102-73-4

    © 2022 Cgil Padova e Cierre Grafica

    Il frontespizio del volume Venite in fitta schiera - Le donne e gli uomini della Camera del lavoro di Padova raccontano la loro storia. Scritto da Diego Pulliero - CGIL Padova - Cierre Grafica

    Su fratelli, su compagne,

    su, venite in fitta schiera:

    sulla libera bandiera

    splende Il Sol dell’Avvenir.

    Nelle pene e nell’insulto

    ci stringemmo in mutuo patto,

    la gran causa del riscatto

    niun di noi vorrà tradir.

    Il riscatto del lavoro

    dei suoi figli opra sarà:

    o vivremo del lavoro

    o pugnando si morrà.

    Filippo Turati, Inno dei lavoratori, 1886

    Indice

    Prefazioni

    Nota introduttiva

    Interviste

    Roberto Zaramella

    Dante Perin

    Regina Archesso

    Silvio Finesso

    Rita Calgaro

    Bruno Masili

    Leonzio Pampaloni

    Danilo Polato

    Liseo Cibin

    Giampaolo Trovò

    Giuseppina Formentin

    Paolino Santi

    Fulvio Donà

    Giuseppe Ferro

    Giancarlo Favarato

    Vittorio Meneghini

    Antonio Barchesi

    Alfredo Giorgi

    Sandro Cesari

    Armando Trentin

    Danilo Callegaro

    Roberto Matteralia

    Amelio Barco

    Claudia Sette

    Luciano Gallinaro

    Adriano Apollinari

    Giancarlo Baldin

    Renata Serafin

    Prefazioni

    Continua il racconto della storia della Camera del Lavoro di Padova. Dopo il primo libro, Il Riscatto del Lavoro, ne segue un secondo, Venite in fitta schiera, entrambi caratterizzati dalla narrazione di protagonisti che hanno contribuito a fare della Cgil un faro della vita sindacale, politica, sociale di questa provincia e di questa città.

    In tempi recenti, un importante sindacalista ed ex segretario della Cgil del Veneto, recentemente scomparso, Luigi Agostini, mi diceva, avendo partecipato a nostre iniziative, che la Camera del Lavoro continuava a mantenere una vitalità, un fermento, un dinamismo che le derivava dal passato e che non aveva mai perduto.

    Per me e per le tante compagne e i tanti compagni che ne facciamo parte, un motivo di orgoglio.

    Oggi, con la pubblicazione di questo libro, abbiamo la possibilità di conservare per lungo tempo e di mantenere ancora vivo, il ricordo di chi ha contribuito al raggiungimento di un risultato così significativo.

    Ma c’è di più. Questo libro esce nel momento più critico della nostra storia, un tempo fatto di guerra, di grande arretramento sul piano dei diritti e, soprattutto, delle condizioni materiali delle persone.

    La precarietà crescente, la povertà assoluta che dilaga, l’incertezza del futuro ci pongono profondi interrogativi a cui provare a dare al più presto risposte in un contesto in cui il lavoro ha smesso da tempo di essere centrale e con esso la dignità della persona, con conseguenze sul tessuto democratico del nostro Paese. Si veda, a tale proposito, l’alta percentuale di astensione alle ultime elezioni politiche che denuncia un profondo scollamento tra il Popolo e le Istituzioni.

    Si prospetta uno scenario molto preoccupante che richiede a noi sindacalisti ancora più responsabilità, perché ci spetta il compito non solo di dare risposte ai bisogni ma di provare a costruire quella solidarietà, andata da tempo perduta, senza la quale mai ci potranno essere riscatto, emancipazione e pace.

    Ed allora confrontarsi con le storie di chi è passato da momenti bui (la destinazione ai reparti confino per la difesa di un ideale), a momenti gloriosi (le grandi conquiste sociali degli anni 70), per poi ancora affrontare una fase di alta drammaticità e tensione sociale (il terrorismo), fino alle crisi aziendali degli anni 80, è molto utile.

    È un patrimonio che dà forza, che incoraggia, che insegna come fa parte della nostra storia il passaggio da cicli negativi a cicli positivi, se alla base c’è sempre quella comunità di uomini e donne che hanno fatto e faranno grande la nostra Organizzazione e nel nostro caso la Camera del Lavoro che nel 2023 compirà il suo centotrentesimo anno.

    Un patrimonio che acquisisce ancora più valore perché si rivolge a giovani generazioni a cui nei prossimi anni sarà affidata la guida della Cgil, appartenenti ad un presente molto complesso e difficile che richiederà loro di attingere il più possibile dagli insegnamenti del passato, proiettandoli nel futuro.

    Aldo Marturano

    Segretario Generale Camera del Lavoro di Padova

    Con questo secondo volume si conclude la pubblicazione delle memorie delle donne e degli uomini della Cgil di Padova che Diego Pulliero, con lungimiranza, ha intervistato raccogliendo non solo aneddoti e scorci di vita sindacale ma guidando i protagonisti del libro nel dipanare i loro ricordi in modo che noi possiamo leggere in queste pagine dei veri e propri racconti di vita.

    Nella premessa al primo volume dicevamo che viviamo tempi in cui il lavoro ha perso centralità nella società, ha perso diritti, capacità di emancipazione e purtroppo dopo quattro anni la situazione non è migliorata ma anzi è diventata ancora più complessa e frammentaria. Davanti a noi nascono sempre nuovi problemi la cui dimensione ormai è di portata sovranazionale e può accadere che qualche volta ci prenda la stanchezza o la frustrazione e che la sovrabbondanza di informazioni ci faccia vivere in un eterno presente dove il passato è ciò che è accaduto ieri e che ormai ha perso di interesse incalzato dalla nuova emergenza, dal nuovo problema a cui far fronte immediatamente.

    La pubblicazione di questo libro non vuol essere un’operazione apologetica o di memorialistica dove mostrare quanto bravi eravamo e quanto belli erano i tempi passati. No, se leggiamo attentamente i racconti di queste donne e di questi uomini vediamo subito che nessun tempo è un’età dell’oro per chi lo sta vivendo e che questa percezione è dei successori che guardano al passato con nostalgia. Leggiamo di storie di passione, di sacrifici personali, di militanza, di sconfitte e di vittorie in cui possiamo immedesimarci e utilizzare per sentirci meno soli nella nostra attività sindacale e questo è il senso della Memoria che Pulliero ha messo per iscritto.

    Attraverso questi due volumi vogliamo dire alle donne e agli uomini della Cgil di oggi che qualcun altro ha già percorso la nostra strada e che non si è perso ma è riuscito a passarci un testimone che noi consegneremo alle donne e agli uomini che faranno la Cgil dopo di noi con nuove proposte e nuove analisi ma sempre dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori.

    Alessandro Chiavelli

    Segretario Generale dello SPI Cgil Padova

    Storie

    1. Sciopero generale a Padova 17 ottobre 1969.

    Folla in Piazza dei Signori durante il comizio.

    Nota introduttiva

    Prosegue in queste pagine il lungo racconto della vita delle donne e degli uomini della Camera del lavoro di Padova iniziato con la pubblicazione de Il riscatto del lavoro (2018). Prosegue ancora una volta sullo sfondo della storica sede di via del Padovanino mentre progressivamente cresce e si afferma una nuova generazione di militanti e funzionari non più direttamente collegata al dopoguerra, ma attiva nel periodo che va dagli anni Sessanta in avanti.

    2. Ingresso della vecchia sede della Camera del lavoro di Padova

    in via del Padovanino, 1.

    Come nel libro precedente si parla di storie di vita di persone che, a diverso titolo e con diversi ruoli, hanno costituito l’ambiente della Camera del lavoro. Si tratta di ventotto interviste a testimoni nati fra il 1931 e il 1949, raccolte nell’arco di alcuni anni a cavallo del 2000. Si tratta, evidentemente, di un campione limitato che prescinde da ruoli o meriti, ma che è in grado di rendere bene il clima dell’ambiente in quegli anni.

    La continuità col lavoro precedente – che si fermava ai nati entro il 1930 – è voluta e cercata, a cominciare dall’uso della stessa traccia per le interviste che partono sempre dalla storia familiare dei testimoni e prosegue poi fino a giungere all’approdo al sindacato e alla narrazione degli anni dell’impegno per l’organizzazione. Inoltre, come in Il riscatto del lavoro, il titolo – Venite in fitta schiera – è tratto dal testo dell’Inno dei lavoratori.

    Le interviste sono anche in questo caso trasformate in monologhi in cui il testimone racconta le sue vicende in una lingua colloquiale, mantenendo sostanzialmente le caratteristiche di un parlato che risente dell’originaria matrice dialettale.

    Rivivono qui la vita reale delle persone, le loro esperienze concrete, quotidiane, creando sempre un quadro d’insieme ma con soggetti cambiati, una galleria di figure in grado di rappresentare la ricchezza dell’umanità che agiva in Camera del lavoro: dirigenti, funzionari, delegati impegnati per creare una società più giusta, più umana. E qui la lotta per i diritti e la lotta per l’emancipazione si fondono in un unico percorso che vede attivi questi testimoni per i quali la parola rassegnazione non esiste, al di là delle sconfitte patite o delle delusioni vissute: esistono solo la strenua battaglia per affermare questi diritti e l’idea di realizzare una società diversa che abbia come centro il lavoro in tutte le sue articolazioni. A questo ci riconducono con forza i racconti riportati nelle pagine che seguono e in quelle de Il riscatto del lavoro, fornendoci una fonte d’ispirazione per il presente, diffondendo nel contempo valori etici da condividere.

    È forte in tal senso la tensione ideale che anima queste persone che si dedicano senza riposo, senza limiti d’orario, al movimento dei lavoratori, sempre legati all’idea di essere al servizio di chi ha meno o non ha proprio niente.

    È un mondo lontano che però ci parla, con cui possono oggi dialogare le generazioni del presente e potranno farlo domani quelle future purché si trasmetta la voce di chi ora non c’è più o è magari attivo in altri contesti, una voce che ha ancora molto da dire perché la storia continua. C’è infatti un filo rosso che collega la prima Camera del lavoro, quella nata nel 1893, a quella odierna di via Longhin, passando attraverso i padri nobili che, con le loro vicende, hanno traghettato l’organizzazione oltre il ventennio fascista: Edmondo Bezzati, Maria Zonta, Parisina Lazzari e tanti altri.

    Con i narratori presenti in questo libro si passa dall’epica degli anni ’40 e ’50 alla cronaca rovente degli anni ’68-’69, alla grande stagione unitaria e ai successivi anni di piombo, proseguendo fin dentro gli anni ’80 col riflusso, la rottura sindacale in occasione del referendum sulla scala mobile, la ristrutturazione economica e dei rapporti sindacali in atto in quegli anni.

    3. Manifesto per il tesseramento alla Cgil degli anni ’50.

    La disperata lotta dei braccianti per sopravvivere all’avanzare inarrestabile della meccanizzazione, le lotte durissime ingaggiate nelle fabbriche negli anni ’50 per contrastare licenziamenti spesso connotati da una precisa matrice ideologica si fanno qui sfondo per lasciare progressivamente il passo all’elaborazione dei primi anni ’60 che precede il tambureggiante avvento del ’68 e degli anni seguenti che mutano completamente lo scenario visto fino ad allora.

    In queste interviste sentiamo voci che ci parlano ancora della durissima condizione di vita presente soprattutto – ma non solo – in Bassa Padovana. Sentiamo Danilo Callegaro che spiega come, durante la sua infanzia, polli e galline servissero per avere le uova che venivano usate come denaro per andare a prendere gli alimentari. Sentiamo poi Fulvio Donà che racconta di come (...) alle dieci della sera avevamo già fame ancora perché avevamo mangiato, ma avevamo mangiato tanta polenta che sul momento ci gonfiava, ma dopo avevamo fame. (…). La soluzione era quindi quella di mandare i bambini a letto Perché ti passa: prendi sonno e non hai più fame. Silvio Finesso ricorda inoltre come (...) per sopravvivere dovevamo andare nei campi a rubare uva, rubare mele, rubare pesche, carote, verze... Diciamo rubare, ma era per sopravvivere.

    Le difficoltà estreme o, comunque, consistenti di una condizione di vita molto dura vengono in parte compensate dalla solidarietà su cui molti testimoni si soffermano. Non che quegli anni così aspri vengano mitizzati e trasformati in una sorta di felice età dell’oro, perché la loro durezza emerge comunque, ma frequente è il richiamo a questa solidarietà umana presente nella collettività che poi il tempo e i mutamenti hanno via via limato, fino a farla quasi scomparire del tutto man mano che ci si addentra in anni più recenti nei quali l’individualità tende a prevalere sul senso collettivo.

    Ricorda Liseo Cibin che nella meanda talvolta lavoravano delle vedove che avevano perso il marito in guerra e gli uomini, specie quelli organizzati nelle leghe del sindacato, si facevano carico di garantire a queste donne almeno un minimo di reddito in grano.

    Significativo in questi racconti è poi il richiamo ancora persistente al modello dell’operaio provetto come incarnazione di quell’uomo nuovo che il socialismo ai suoi albori aveva posto come protagonista del cambiamento sociale.

    Ne parla Bepi Ferro quando afferma: (...) io ho imparato tante cose sia da Zanella che da Bruno Dalla Mutta, soprattutto sul rispetto e la moralità. (...) tutte cose che – come si può dire? – forgiano un essere umano: l’uomo diventa più compiuto nel senso che matura, inizia a capire il senso di responsabilità, i doveri e i diritti, però diventa più coriaceo e capisce quand’è ora di difendere i propri diritti.

    4. Bepi Ferro parla al I Congresso di unificazione della Cgil di Padova.

    Sono parole significative che ci spiegano come siano i maestri a indicare la strada, sia sul piano politico-sindacale, sia sotto l’aspetto dell’etica personale.

    In tal senso Silvio Finesso parla di Bruno Bertin appunto come di un maestro di vita e altrettanto fa, in modo molto significativo, Danilo Callegaro parlando di Sante Palfini e Silvano Pradella: (...) sono stati per me (...) punti di riferimento ideali, uomini che interpretavano al meglio quello che io stesso volevo essere. Non era tanto la figura del bravo sindacalista, ma anche l’aspetto umano, l’aspetto personale. Persone integre, persone che erano a disposizione degli altri (...). Credo che questa figura interpretasse il meglio del quadro del partito, del sindacato-partito.

    Siamo ancora negli anni ’60; sono anni difficili nei quali accanto ai racconti sul tramonto dei braccianti si possono udire gli echi della difficilissima condizione di isolamento che vivevano i lavoratori sindacalizzati nelle fabbriche dove anche i reparti confino venivano utilizzati per sterilizzare la massa degli operai dal contagio delle idee che provenivano dalla sinistra. Adriano Apollinari, riferendosi a questi reparti, spiega: (...) era il reparto adibito apposta per mettere la gente al di là di una transenna. C’era proprio una barriera fisica: era un capannone con cinque-sei operai dentro e un capo che era il capo degli ‘ergastolani’.

    Sono anche anni in cui il rapporto con Cisl e Uil è a dir poco problematico, con queste due organizzazioni che, nelle parole di testimoni, appaiono spesso come antagoniste della Cgil per la loro arrendevolezza nei confronti del padronato.

    Intanto si profilano le lotte per gli orari e il cottimo, per i contratti e la questione delle gabbie salariali che si chiuderà nel ’69.

    Vale per questo periodo – anche se andrà via via sfumando – il concetto di cinghia di trasmissione nel rapporto Pci-Cgil, un rapporto basato su un continuo interscambio di quadri tra le due organizzazioni dove spesso è il primo a tenere le fila, affermando le proprie necessità. Dante Perin esprime molto bene le caratteristiche di questo rapporto, ricordando lo scontro avvenuto tra lui e il partito a Padova dovuto al fatto che, a suo avviso, occorreva scindere in modo netto le due attività per rendere più autonoma e visibile la Cgil.

    Anche la dimensione internazionale fa parte di questo ambiente che era schierato contro il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia e avrebbe sostenuto, negli anni ’70, le lotte contro le dittature fasciste di Pinochet in Cile e di Videla in Argentina, oltre che la rivolta contro lo Scià in Iran e la ricorrente causa palestinese.

    5. Manifestazione del Primo maggio

    con sostegno al popolo iraniano e a Khomeini.

    6. Manifestazione di sostegno al Cile

    durante il Festival nazionale dell’Unità a Bologna negli anni ’70.

    Tracce di questi passaggi sono evidenti anche osservando la frequentazione di giovani stranieri alla mensa dell’Anpi – diretta da Bepi Bordin, ex volontario delle brigate internazionali in Spagna – dove potevano trovare un pasto e, qualche volta, anche un lavoretto per mantenersi nelle loro più che precarie condizioni economiche.

    Le lotte del ’68 e dell’Autunno caldo del ’69 costituiscono poi l’ingresso dirompente in un’altra fase, quella degli anni ’70, caratterizzati all’inizio dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori che rappresenta lo spartiacque tra un prima e un dopo. Il prima è quello delle assemblee semicarbonare convocate nelle bettole situate nei dintorni delle fabbriche da sindacalisti che dovevano arrivare in concomitanza coi turni di lavoro degli operai e prodigarsi per raccogliere lavoratori non sempre ben disposti nei loro confronti. E qui conciliare la vita personale con questi interventi e con le necessarie presenze nelle sedi sindacali diventava un problema serio. Solo dopo lo Statuto sarebbero arrivate le assemblee in fabbrica durante l’orario di lavoro, portando così un cambio radicale nella vita dei sindacalisti.

    Altrettanto radicale è il cambio che comporta l’abbandono della raccolta dei bollini delle tessere a favore dell’inserimento della quota sindacale direttamente in busta paga. In tal modo il sindacato poteva garantirsi un introito sufficientemente definito e utile per cercare di porre fine alla precarietà del pagamento degli stipendi e delle spese ai funzionari e agli impiegati dell’organizzazione che fino a quel momento avevano dovuto affidarsi all’abilità di quanti si recavano nelle fabbriche preferibilmente nei giorni di paga per riscuotere le quote. Ricorda Roberto Matteralia: (...) erano anche anni duri, c’era gente che avanzava stipendi, gente che quando non c’erano i soldi si facevano le collette qua dentro perché c’era un rapporto umano, di solidarietà, dentro in Cgil tra gli stessi compagni.

    7. Manifesto per il Primo maggio 1970.

    Anche in questo periodo le difficoltà non mancano, specialmente quando si vanno a toccare questioni che riguardano i lavoratori, ma che non sono puramente attinenti alla dinamica salariale. Valga per tutti la questione della salute, dove il sindacato, coinvolgendo medici del reparto Medicina del lavoro del Cto – oggi ospedale Sant’Antonio –. combatte una battaglia non sempre compresa dai lavoratori, non pochi dei quali erano disponibili a barattare la salute con la monetizzazione del rischio. Ne parlano, tra gli altri, Danilo Callegaro, Alfredo Giorgi, Armando Trentin e Roberto Zaramella che sottolineano la difficoltà di passare dalla rivendicazione economica pura al più complesso argomento della salute nel posto di lavoro.

    Sono questi gli anni dell’apice del sindacato, dopo l’unificazione dei metalmeccanici delle tre confederazioni nella Flm che, a Padova, avrà sede prima in via Niccolò Tommaseo e poi in Corso Garibaldi.

    8. Tamburi della Flm a uno sciopero. Padova, anni ’70.

    È questa una stagione in cui si pone con forza il tema dell’unità sindacale e dove i rapporti tra Cgil, Cisl e Uil appaiono più morbidi, perdendo le asprezze del periodo precedente, tanto che più d’uno degli intervistati parla di amici della Cisl e della Uil, dando una connotazione anche lessicale al clima di questa fase.

    Progressivamente, quindi, il sindacato prende quota, arrivando ad occuparsi di tutto e in più sedi. Spiega infatti Adriano Apollinari che il sindacato entrava come rappresentanza unificata delle forze del lavoro a tutti i livelli: comprensorio, circolo, provincia…

    Il rovescio della medaglia è, naturalmente, costituito dagli anni di piombo e degli attentati – aperti fin dal 1969 con la strage di Piazza Fontana – che avrebbero contrassegnato l’intero decennio successivo e oltre.

    Sono momenti critici che mettono a dura prova la tenuta del tessuto democratico del Paese, anni in cui il sindacato combatte in prima fila questa battaglia contro un nemico che talvolta tenta anche di annidarsi fra le sue stesse file, mentre in altre va allo scontro aperto. Sono anche anni di grandi lotte per le conquiste sociali come la legge sul divorzio prima approvata e poi sottoposta a referendum nel 1974. Ma quel ’74 è pure l’anno delle bombe nere sull’Italicus e a Piazza della Loggia, dell’arresto di Renato Curcio, del sequestro del magistrato Mario Sossi da parte delle Brigate rosse, responsabili anche dell’uccisione di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci nella sede padovana del Msi.

    9. Manifestazione contro il terrorismo. Padova, anni ’70.

    Il travaglio nel sindacato esiste, ma c’è una sostanziale tenuta, pur in presenza di un ventaglio di sfumature, dato che, come spiega Danilo Polato, Una parte del sindacato, che è largamente maggioritaria, fa argine e dice: ‘No, questa non è la strada; punto e basta’. È quella a cui appartengo io e appartiene la grande maggioranza di dirigenti e delegati.

    Nel ’75, mentre nel Paese si leva la voce delle radio libere che contrassegnano una stagione di notevole impegno giovanile, si assiste alla fine della lunga e sanguinosa guerra del Vietnam con gli americani costretti a lasciare definitivamente quel territorio.

    10. Cartello sul Vietnam a una manifestazione degli anni ’70.

    In Italia, intanto, l’anno successivo si registra la forte avanzata elettorale del Pci che pare inaugurare una nuova stagione politica, mentre già si vanno profilando le condizioni che porteranno al divampare dello scontro nel 1977, con la comparsa della P38 in manifestazioni che si fanno violente e vedono lo stesso sindacato aggredito nelle piazze e costretto a difendersi.

    Ricorda infatti Leonzio Pampaloni che dal ’77 alle assemblee arrivava spesso un plotone di autonomi che prendevano la presidenza e facevano andare a monte l’iniziativa, mentre nelle manifestazioni avevano come prassi quella di inserirsi, cercando lo scontro.

    Il 1978 è l’anno del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta, mentre anche a Padova si succedono gli attentati con i quali vengono gambizzate persone ritenute nemiche del movimento. Ma il caso che segna un autentico e definitivo spartiacque è quello dell’operaio Guido Rossa che viene ucciso l’anno seguente.

    11. Scritta murale di Autonomia operaia contro Calogero e Cossiga. 1977.

    Dopo mi ricordo un periodo particolare: quando hanno ucciso Guido Rossa e Aldo Moro. Sono stati due momenti molto delicati e molto accesi di discussione spiega Bepi Ferro perché anche all’interno nostro c’era qualcuno che inneggiava alle Brigate rosse; allora noi abbiamo preso subito posizione: come consiglio di fabbrica eravamo contro, contro assolutamente!.

    Il 1979 è un anno caratterizzato anche dagli arresti disposti dal giudice Pietro Calogero, sostituto procuratore di Padova, nei confronti di vertici e aderenti ad Autonomia operaia che viene accusata di essere di fatto la facciata legale delle Brigate rosse. Tra gli arrestati Toni Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone e Lanfranco Pace.

    Nel contempo in città avvengono altri attentati contro i docenti universitari Angelo Ventura e Guido Petter.

    12. Guido Petter.

    Siamo però ormai all’ingresso degli anni ’80, contrassegnati dalla tragedia della strage fascista compiuta alla stazione di Bologna.

    Sono anni caratterizzati dal riflusso, ma con colpi di coda di rilievo, come il rapimento del generale americano James Lee Dozier avvenuto a fine ’81; Dozier verrà liberato a Padova, ai primi dell’82, nell’appartamento-prigione della Guizza. Quello stesso anno sarà anche caratterizzato dall’uccisione dei carabinieri Enea Codotto e Luigi Maronese sul Lungargine Scaricatore per mano di militanti dei Nar sorpresi dai due carabinieri mentre cercavano di recuperare un borsone pieno di armi.

    Intanto però si profilano numerose le crisi aziendali che caratterizzeranno il periodo, portando alla chiusura diverse aziende, con i conseguenti licenziamenti.

    È infatti in corso una ristrutturazione economica e del tessuto produttivo che segna la completa chiusura del periodo delle conquiste sindacali e un’inversione di tendenza con l’avviarsi di una stagione assai difficile per il sindacato, costretto a lottare contro i licenziamenti e per mantenere le conquiste acquisite. Spesso per salvaguardare i posti di lavoro si ricorre alla strada della cooperazione, tentando di rilanciare le aziende in altra forma. Ma anche qui le difficoltà non mancano e gli esiti dell’operazione nel medio-lungo periodo non sono quelli attesi, come spiegano diversi testimoni.

    Sono momenti difficili per il sindacato. Cessato lo slancio ideale degli anni ’70, si giunge anche al tramonto dell’unità sindacale sancito dalla rottura fra le tre confederazioni in occasione del referendum del giugno del 1985 sulla norma che prevedeva il taglio di tre punti della scala mobile disposto per decreto dal governo Craxi l’anno precedente.

    Sia Danilo Polato che Sandro Cesari sottolineano però che, al di là delle naturali conseguenze nei rapporti tra sindacati, a Padova lo spirito unitario si conserva e si tenta in tutti i modi di contenere la frattura in limiti ragionevoli anche grazie alla componente socialista locale rappresentata alla Camera del lavoro in primo luogo da Roberto Franco.

    Siamo quindi arrivati a una svolta, a una fase che vede donne e uomini della Camera del lavoro impegnati su un terreno sempre più aspro e difficile che non vedrà però venir meno l’impegno che da sempre caratterizza queste persone, nella consapevolezza di appartenere a un movimento che ha origini lontane, che cambia nel corso del tempo, ma che è sempre luogo anche di crescita personale, come attesta Bepi Ferro: Sono cresciuto senza fare tante scuole (...), però per me la fabbrica è stata come una università per la gente che ho trovato. Nel senso che sono stati insegnamenti del rispetto e anche insegnamenti solidali per migliorare questa società. Questo mi hanno insegnato. In fabbrica ho capito, come tanti altri, che tutte e due le organizzazioni che si ispirano alla sinistra – partito e sindacato – sono dalla parte di chi è più indifeso (...).

    Il senso di appartenenza e la tensione ideale di cui sono intrise queste pagine costituiscono dunque quel patrimonio di valori che le donne e gli uomini della Camera del lavoro di Padova con le loro storie possono trasmettere alle generazioni future affinché il sindacato di oggi cresca e operi nella consapevolezza delle proprie radici.

    Perché queste radici non vengano mai meno sono quindi nati il presente volume e il precedente Il riscatto del lavoro, anche per far sì che il ricordo di queste vite così significative non cada progressivamente nell’oblio ma rimanga ben presente per indicare alle nuove generazioni la via del futuro.

    Mi viene in mente tutta la storia precedente spiega significativamente Leonzio Pampaloni specialmente dentro la Cgil, (...): il lavoro volontario, la generosità dei compagni, da quelli di base che non hanno mai avuto nessuna carica, fino ai vertici. (...) Anche questa sarebbe una cosa da raccontare. Adesso non so come siano cambiate le cose, ma noi abbiamo fatto una vita durissima nel sindacato; anche quando andavamo a Roma e avevamo i rimborsi, erano rimborsi che facevi fatica a starci dentro, proprio per sfamarti. (...) noi, diciamolo pure, abbiamo fatto la fame per tutti questi anni, oltre al volontariato. (…) è stata una vita dura, dura ma direi generosa: quella fatta da tutti i compagni.

    13. Tessera Cgil del 1978.

    Interviste

    14. Sindacalisti e personale della Camera del lavoro di Padova

    nel cortile della sede di via del Padovanino accanto all’Albero della solidarietà.

    Roberto Zaramella

    Sono nato l’11 febbraio del ’32 a Dolo, in provincia di Venezia. I miei abitavano a Padova, a Torre, e mia mamma non ho neanche fatto in tempo a conoscerla perché è morta subito, così mi hanno allevato i nonni paterni. Il papà si chiamava Alberto e la mamma Poletti Elide. Sono figlio unico.

    Il papà il suo mestiere sarebbe stato il panettiere. Era sotto padrone. Dopo è stato in guerra, prima in Africa nel ’35 e dopo è stato ferito in Albania, nel fronte greco-albanese, nel ’41- ’42. È stato salvato da un alpino della Julia. È tornato a casa finita la guerra.

    Mio papà deve essere stato del… Io ne ho sessantotto… Non so, del ’12 o del ’13.

    Mio nonno era stato un antifascista ed è stato espulso dalle Ferrovie dello Stato negli anni ’20, quindi certo era socialista allora. Anche il papà, quindi.

    Avevo tutti gli appunti delle famiglie sane che allora la pensavano così. Non è che fossero battaglieri, cioè erano battaglieri, sì, ma per via del lavoro; però c’era poco perché era tempo di guerra. Io comunque sono venuto su appunto negli anni duri, nel ’40. Ho visto i rastrellamenti, tutto!

    Abitavo al Savonarola, cioè fra Porta Trento e Porta Savonarola, in via Giacomo Medici. Nel ’39 ero al Bassanello e dopo, nel ’40, ci siamo trasferiti in via Giacomo Medici che sarebbe stato appunto fra Porta Trento e Porta Savonarola. C’era Francesconi là, quello delle biciclette.

    Allora c’erano i miei: mia nonna, mio papà. Conducevano la trattoria Al Campetto. E là ho cominciato a farmi le ossa anch’io perché tra i clienti che venivano che ce n’erano che erano contro il fascismo; erano tutti di tendenza di sinistra.

    Là c’erano tante vie: c’era via Volturno, via Monterotondo… Tutte andavano nei campi e dopo c’era la ferrovia: Campo di Marte.

    La trattoria era gestita dai nonni, dal papà e dai fratelli di mio papà. Sono stato allevato da loro, in definitiva. Come dicevo, era un ambiente antifascista.

    A scuola andavo in quella che c’era a Savonarola: la Cesarotti. Ho fatto dalla prima alla quinta, ma la quinta l’ho finita a Mejaniga nel ’45 per via dei bombardamenti: i miei hanno cercato di portarmi fuori e mi hanno messo a Pontevigodarzere e là ho visto tutte le battaglie della Breda.

    Dopo sono ritornato. Appena finiti i bombardamenti, nel ’45, quando c’è stata la Liberazione, ero già tornato in centro a casa mia. Intanto ho conosciuto la guerra partigiana perché là c’era un covo di partigiani; ho visto anche i rastrellamenti e i fascisti.

    Là, a Pontevigodarzere, ho conosciuto i Benetti. Eh! Erano i comunisti: diciamo che erano una bandiera per la gente di allora i Benetti.

    A quel tempo si scappava sempre sui campi, là, dietro casa di questa gente che era ben conosciuta. Anche gli Zanella: tutta quanta quella gente là!

    Quando andavo a scuola avevo un maestro che era abbastanza severo, però ti insegnava. Dopo, a Mejaniga, ho avuto una maestra che era fascista. Con lei ho fatto la quinta. Allora studiavi quello che studiavi perché era più il tempo che scappavi. Eh, sai, in quegli anni…

    Nello stesso tempo andavo a lavorare da Pintonato. Era proprio in curva a Mejaniga dove adesso c’è la latteria. Allora faceva di tutto, era un maestro d’arte: Pintonato Adriano faceva falegnameria. Tante casse da morto si facevano allora.

    Era proprio a Mejaniga, per andare a Cadoneghe, dopo la chiesa; dopo c’è la curva e dopo c’è l’altra curva ed è sulla prima curva, diciamo. Dovrebbero esserci ancora dei suoi figli che ci abitano. È la curva che porta verso il cimitero, verso Cadoneghe: fai la curva e subito trovi la fabbrichetta. Là ho visto uccidere dei fascisti. Sono stati uccisi padre e figlio. Mi ricordo sempre che stavamo lavorando e abbiamo sentito una scarica. Li hanno uccisi al cimitero. Un agguato che gli hanno fatto i partigiani e li hanno fatti fuori.

    C’era Mondo Zanella che dirigeva i partigiani e dopo c’erano i Benetti che dirigevano tutto. Erano le cosiddette cellule antifasciste!

    Quando lavoravo da Pintonato andavo anche a scuola alla mattina. Siamo nel ’44 e avevo dodici-tredici anni. Ero ripetente nella terza che ho fatto al patronato al Santo, in riviera San Benedetto.

    Eh, ero piuttosto ribelle: sempre stato io. Là ho conosciuto anche il povero Valerio. Eravamo amici, anche se lui era più vecchio di me di due anni o tre. Allora conoscevo tutti quei ragazzi che erano un po’ avanzati. Eravamo tutti in una certa aggregazione e c’erano anche i Bonfio. Con Bonfio abbiamo anche lavorato insieme dopo, da un falegname, quando sono tornato in città: da Longato. Le prime lotte sono state fatte che ero da Longato. Da Longato facevano le scaffalature e tutte le cose per i negozi dell’Upim e della Rinascente.

    Da Pintonato sono rimasto poco: diciamo l’ultimo anno di guerra. Nel ’45, insomma. E dopo sono andato a lavorare da Longato, in via Makallè. Sono falegnami anche i Longato. Come gente allora erano in pochi, ma dopo hanno cominciato a rientrare i prigionieri della Germania. Così abbiamo cominciato a conoscere tutte le tragedie che avevano vissuto: quando si lavorava insieme te le cantavano, no? Erano tutti militari arrivati dal fronte, dalla prigionia. E io è là ho cominciato a muovermi per vedere anche come erano trattati dal padrone e che il padrone si diceva socialista anche!

    Non sarebbe stato neanche un cattivo padrone, ma sempre padroni erano! E quando si sentivano padroni non c’erano altre vie. Quello che dicevano loro, lo dicevano come legge. Io, per dire, potevo stare bene, se pensavo ai miei affari, no? Invece ero sempre in difesa anche degli altri. Io che avevo sui tredici-quattordici anni a fare queste cose e tu che sei stato anche in prigionia, che hai ventiquattro-venticinque anni, ti lasci pestare i piedi… Mi bollivano sempre queste cose qua a me! E dopo ho cominciato anche con il sindacato; c’era anche Bonfio che lavorava con me allora e lui era uno proprio di quelli duri.

    A quell’epoca in molti cercavano di venire lavorare anche se non ne erano capaci. Venivano assunti perché cominciavano a esserci già le macchine che facevano quasi tutto e avevano più bisogno di manovalanza che di artisti del lavoro.

    Appena entrato saremo stati in una settantina. Avevano dei capannoni che ci sono ancora perché dopo hanno comprato tutto e si sono installati su quella terra.

    Comunque con Bonfio e con Barchesi, facevamo questo gruppetto. Avevo questo gruppo, anche con Valerio Pennacchi che stava a Brusegana. Allora andavi in bicicletta e ti trovavi; d’estate andavi anche a fare il bagno a Brusegana, là dove c’era la Canottieri. Ti trovavi sul Brentella. Quello era il nucleo, insomma. Eravamo fra i più giovani.

    Invece del nucleo più vecchio di gente di sinistra, fuori della fabbrica, ho conosciuto il povero Beghetto che aveva sessant’anni. Me lo ricordo: era proprio antifascista; era conosciuto perché come era prevista qualche cosa lo venivano prendere e lo mettevano in gattabuia. Aveva la valigia pronta: aveva sempre le sue cose pronte per andare in prigione. Mi ricordo la visita di Mussolini: subito preso e portato via.

    Beghetto era un bel personaggio; è stato quello da cui ho imparato tante cose. E dopo ho conosciuto Vincastri che c’è sua figlia che lavora anche lei per il sindacato: la Norma. Il papà della Norma è quello che ha insegnato a me personalmente. Era gente che parlava in osteria, che teneva riunioni e ci insegnava. E sì che era un ciabattino, per modo di dire, perché lui faceva sandali, faceva quelle cose, insomma, ma era un ometto riverito perché era al di sopra di tutto. Teneva banco in osteria. Eh, mamma mia! Sapeva convincere.

    Anche con il mio povero papà era cagionevole di salute con la scusa delle ferite e della malattia africana, dell’ameba, che dopo è morto anche lui di quella roba là. Ma era sempre seduto con questo Vincastri che ci trovava gusto con lui perché anche mio papà era una persona abbastanza sveglia.

    Mio papà gli è toccato andare via perché è stato imbrogliato da un fascistone che era sul ponte del Bassanello: aveva il forno, questo disgraziato, e mio padre lavorava sotto di lui. Così gli ha fatto firmare una carta. L’ha fatto per salvare la famiglia perché con la scusa che erano sempre tenuti d’occhio, gli ha detto: Salva la famiglia: firma questa carta. E lui ha detto: Guarda che non voglio mica andare in paesi di guerra!. Lo hanno fatto andare via delle camicie nere in Grecia. Guarda una volta che rapporti c’erano: sono tali e quali ad adesso quando vendono fumo, la gente gli crede e gli corre dietro. Non sono cambiati, no? Quelli là sono sempre gli stessi.

    Comunque, in sostanza, io ho avuto due maestri: Beghetto e Vincastri. Beghetto lavorava in ferrovia; è stato anche lui espulso, uno che è stato esiliato come mio nonno: buttato fuori! Lui li ha conosciuti in osteria e io li ho conosciuti perché loro venivano là a fare propaganda politica.

    Dopo la guerra Beghetto faceva il lavoro da comunista, cioè attività proprio. Faceva tutto perché, poro can, era stato buttato fuori; non so cosa andasse a fare per vivere perché allora erano anni durissimi. Comunque era uno che aveva quella fede. Vincastri, invece, era un uomo che aveva il lavoro per conto suo. Sono loro due, in pratica, che mi fanno da maestri. Sono maestri di vita nel senso di spiegare le cose e farle capire.

    Invece da Longato di vecchi antifascisti non c’era nessuno: come ho detto, era tutta gente che era venuta a casa più morta che viva dai campi di prigionia e subivano di tutto pur di lavorare.

    Mi ricordo invece che dalla prigionia era arrivato un vecchio da Brusegana – Edoardo – e quello là era un altro come il povero Valerio: stessa risma, stessa cosa della prigionia, ma non mollava mai e quando parlava era uno di quelli che parlava chiaro. Ma gli altri… Voglio dire che mi faceva male perfino il cuore perché vedevo questa gente maltrattata: venivano umiliati e dicevo: Ma cosa fanno? Questo è stato via, ti ha difeso…. Il mio principio era questo: Questi sono stati in guerra per chi? Mica per loro sono stati in guerra: anche per noi! E adesso guarda come li tratti: ti hanno preservato, tu sei rimasto qui, non hai patito niente e hai fatto le tue cose!". Eppure, quando non obbedivano, via! Li mettevano a lavorare sempre sul posto peggiore. Anche a Bassano, mi ricordo, c’era un posto di lavoro dove lavoravano in mezzo all’acqua, poveretti, e proprio là dovevano mandarli! Eh, bisognava vederle queste cose: dopo loro non le hanno mica passate queste cose qua e i genitori non hanno neanche insegnato niente ai figli. Quelli che si ribellavano li mandavano a fare i lavori peggiori.

    Il vecchio Edoardo era uno che si ribellava parecchio. Eh, sì. Stava proprio a Brusegana. Con personaggi del genere facevi presto a legare e così veniva fuori anche il sindacato che era subito combattuto. Allora c’era anche Piccolo che era a capo dei falegnami. Rigone, Rigone Piccolo che, poveretto, aveva tutta questa zona. Voglio dire che allora si era tutti come la catena di Sant’Antonio perché andavi subito da quelli che la pensavano come te! E anche Rigone, appunto, mi ricordo quando andavo alla Camera del lavoro e gli dicevo: Guarda che è così, è colà. Diceva: Guarda che si fa sciopero, si fanno cose. E allora andavamo avanti; più gli anni passavano, più ti tempravi e anche ti svegliavi perché avevi tutte queste conoscenze. E dopo c’era anche il fatto di quello che avevamo visto: i tedeschi li ho conosciuti, ho conosciuto gli inglesi, ho conosciuto i prigionieri, ho conosciuto i russi perché in questa zona c’era il campo di concentramento dei prigionieri. C’era il ponte… Ho conosciuto tanto; sapevo tutto, voglio dire.

    Da Longato resto per tre anni, penso; mi sono sposato nel ’52 e dopo mi sono licenziato perché, come ho detto, ad avere taciuto e fatto i miei affari potevo stare là perché in casa Longato mi volevano bene come un figlio, ma a me non interessava perché, per quel poco che tu mi vuoi bene, se poi pesti gli altri… Ero sempre in difesa degli altri e quando sono arrivato ad aver imparato anche un po’ a lavorare, alla prima occasione che mi è arrivata sono venuto via.

    Sono andato a lavorare qua in via Brunacci dove facevano escavatori su licenza tedesca. E quelli sono stati i più bei cinque anni che ho fatto nella mia vita. Dopo l’azienda è stata venduta agli americani. E là ho conosciuto cosa vuol dire la differenza di mentalità, con i direttori tedeschi, ingegneri tedeschi e dopo gli americani. C’era il presidente americano che veniva con un macchinone, una Limousine perché era il presidente della ditta. Erano anche a Milano perché io andavo sempre in trasferta a Milano: mi volevano per il lavoro, no? C’era la mensa per gli impiegati e la mensa per gli operai, ma quando è arrivato questo presidente ha fatto buttare giù tutti i muri perché ha detto: Sono tutti uguali, non c’è differenza!. Ha detto: Non c’è differenza: siete tutti dipendenti della stessa azienda. Cos’è questa cosa? Tu sei l’impiegato e mangi di qua e l’altro cos’è?.

    E dopo ho visto anche questo: c’era l’americano che, quando veniva sui posti di lavoro anche in mezzo alla campagna, veniva con la tuta: come arrivava si metteva la tuta e all’operaio che lavorava all’escavatore diceva: Guarda che è da fare così e così!. Tanto per dire la differenza di mentalità. Eh, anche quelli sono stati insegnamenti perché dopo, nelle battaglie del sindacato, io ho distribuito l’idea che ci sono modi e modi di porsi, di fare le cose.

    Quindi mi sono sposato nel ’58 e sono andato via dalla Longato. Sono andato a lavorare sotto questi. In questa azienda, a Milano, c’erano cinquecento-seicento dipendenti. Qui invece eravamo in un centinaio. Là sono rimasto fino al ’62 che dopo qua hanno chiuso. Mi avevano chiesto se volevo essere trasferito a Milano e gli ho detto: Mi dispiace, ma tanto sono capace di lavorare e il lavoro me lo trovo anche qua. Allora sono rimasto qui, sennò mi avevano già trovato un posto per andare a lavorare a Milano. Intanto in questo periodo qua ho visto tutte le lotte della Breda perché avevo mio cognato che lavorava là dentro. Era Carlotto Luciano; è morto, lavorava in fonderia. Nel ’58 ci sono queste lotte alla Breda.

    15. Il Lavoratore dell’aprile 1958.

    Anche dove lavoravo c’erano lotte. C’erano i metalmeccanici che volevano a tutti i costi che entrassi nel consiglio di fabbrica, ma mi sono rifiutato. Eh! Perché ho detto: Ma, caspita, c’è gente più vecchia…. Io ero ancora un ragazzino su queste cose, ma mi dicevano: Tu vai bene perché sai!. Con la scusa che ero quello che sapeva, cercavano sempre di affibbiarmi un compito. Là, invece, ho conosciuto cosa vuol dire essere diligenti, onesti e corretti. C’era anche un perito tecnico che eravamo amici perché andavamo anche a sciare insieme con suo fratello. In questi periodi sono stato al Cai: eh, è sempre stata la mia passione la montagna.

    Voglio dire che so cosa vuole dire lavorare sotto il padrone, lavorare in una grande azienda dove ci sono dei dirigenti, però va bene solo se sono dirigenti corretti.

    Dopo, quando sono stato a casa da qua, sono tornato a lavorare come falegname sotto uno che lavorava da Longato e che si era messo per conto suo a Caselle di Selvazzano. A Caselle sono stato un anno e dopo sono andato a lavorare all’Iram; facevano insegne luminose ed era proprietà di Lombardi.

    Eravamo in più di cento. Come sono entrato, ho passato il colloquio. Mi ricordo perché c’era un ragazzo che lavorava là, aveva sentito che cercavano e dice: Senti, non puoi venire a lavorare di là? Fai domanda e ti prendono perché sei capace di fare tutto. Allora ho fatto la domanda e sono andato. Mi hanno fatto fare la prova e dopo ho avuto il colloquio; la prima cosa che mi ha domandato il capo del personale era se mi interesso del sindacato; ho detto: Io? Non so neanche dove sia di casa!. Invece, se avessero saputo che razza di rogna che si prendevano, sarei stato a posto! Comunque là ho cominciato proprio tutte le lotte sindacali.

    All’Iram ci sono stato finché sono andato in pensione. Là c’era già un nucleo che lavorava per il sindacato. C’era in mezzo uno, poveretto, che era stato subito spazzato via, diciamo per colpa degli operai stessi, non per colpa del padrone. Perché gli operai, delle volte, sono fatti così. Sono andato via arrabbiatissimo perché delle volte la classe operaia non capisce quello che è contro i suoi stessi interessi! Perché, guarda, io con il principale eravamo sempre a discutere e non c’era sabato e non c’era domenica se si doveva andare a discutere: sempre propenso lui e sempre propenso anch’io. Però dopo c’era anche che, se ci si accordava per la salute della fabbrica, c’erano operai che erano contro perché preferivano le dieci lire e vendevano la salute. Allora puoi immaginare se si poteva andare d’accordo con quelle cose là. Cioè era meglio il principale che l’operaio: questo è il punto. Allora mi sono tolto e veniva gente da me perché rientrassi. Ma quello che era bello è che veniva anche il padrone a dirmi: Roberto, dai, rientra prima che chiuda la fabbrica, perché questi qua la fanno chiudere la fabbrica!. Mi ricordo che diceva: Ma è possibile che quando con Zaramella è detta una parola è quella e con voi neanche se firmo centomila volte le carte travisate sempre tutto?.

    Ecco, se qua c’è uno che può ricordare bene le cose è Simonaggio perché è stato il segretario dei chimici. Prima abbiamo avuto Giancarlo Baldin, prima ancora Moro. Mi ricordo che io facevo parte della segreteria dei chimici; non facevo in tempo a entrare in un posto che bisognava che andassi subito a fare il dirigente sindacale; e allora dentro subito con la segreteria e sono stato in segreteria dei chimici fino a quando sono andato via.

    Collaboravo appunto col segretario di categoria, con Giancarlo Baldin, con Simonaggio Ilario e dopo anche con Barchesi Antonio, con Apollinari. Adesso Ilario è in Funzione pubblica. Quando c’era qualcosa, io, alla sera, quando mollavo di lavorare, ero subito alla Camera del lavoro. La vita mia era in Camera del lavoro e al lavoro perché ho sempre avuto il pallino della Cgil e basta. Anche se il partito mi avesse detto di lavorare là, io ero sempre per il sindacato; per il partito non è che proprio me ne importasse, e sì che ho avuto mille possibilità.

    Comunque viene che vogliono cambiare e mettere un segretario di categoria. Allora nell’ufficio c’era Giancarlo e c’era Barchesi che seguiva la ristorazione e gli alimentari, gli alimentaristi, e sapeva tutte le cose; ho detto: Ma perché non può entrare Barchesi?. Mi ricordo sempre che ho detto a Facchinelli: Sta a sentire, una è la questione: qua abbiamo Barchesi che conosciamo e sappiamo chi è, sa anche già come sono morte e miracoli della nostra categoria. E sennò, sta a sentire, si fa presto: non vuoi Barchesi? Vieni tu e siamo a posto. Così abbiamo vinto ed è venuto Barchesi.

    16. Conferenza per il Centro informazione disoccupati della Cgil in sala rossa della vecchia sede. Al centro, con i baffi, Antonio Barchesi.

    In quegli anni là, dove c’è stato Barchesi con me in segreteria, abbiamo tirato fuori Gallo che lavorava a Limena nella fabbrica di plastica; abbiamo tirato fuori lui da là, abbiamo tirato fuori Simonaggio e abbiamo tirato fuori Zancopè che sono diventati dirigenti sindacali. Eravamo fieri perché i chimici finalmente avevano potuto dare uomini bravi al sindacato: era una soddisfazione enorme!

    Anche dopo, quando sono andato in pensione, volevano che rimanessi là perché il mio tempo lo passavo sempre alla Camera del lavoro, perché gli schedari cercavo di metterli a posto tutti, perché anche nell’andare a Roma, a volte, ci si dava il cambio; diceva Ilario: Zaramella, guarda, io non posso andare a Roma perché ho altri impegni. Vai tu. E allora andavo io. Ero sempre disponibile e il sindacato funzionava. Poi, quando ho fatto i corsi ad Ariccia, li ho fatti a spese mie, con le ferie mie! Avevo la moglie con i piccoli al mare che erano soli perché io ero via. L’unica angustia che ho sempre avuto è stata quella di dire: Ho fatto bene o ho fatto male?. Perché ho trascurato un po’ la famiglia e invece di stare insieme ero sempre in giro.

    All’Iram ci sono state delle lotte grosse in questo periodo. Siamo stati una delle prime fabbriche che ha avuto la quattordicesima. Mi ricordo sempre che il padrone era in Spagna ed è venuto a casa per mettere subito a posto la cosa.

    Quando c’è stato l’avvento del contadino in fabbrica c’è stata molta difficoltà per il sindacato: il contadino non aveva i bisogni che avevi tu. Il mio slogan, quando andavo a parlare con gli operai, era: Chi si presenta alle sette davanti al cancello per entrare deve pensare una cosa sola: che deve avere gli stessi problemi degli altri. Io non ho problemi diversi dai tuoi, sennò non saremmo qua!. Perché noi, come chimici, sai che battaglie abbiamo avuto? Siamo quelli che hanno sempre lottato per fare l’unione sindacale, eh! Con la Cisl siamo stati i primi che siamo passati in piazza Garibaldi, al terzo piano: noi e i metalmeccanici, che dopo sono venuti anche loro dietro alle nostre idee. Siamo stati noi i primi.

    17. Manifestazione anni ’70, Padova.

    Con la Cisl c’è stata collaborazione, ma la collaborazione a volte la trovi, a volte no perché hai sempre l’operaio che non la pensa come te. Vengono fuori troppo dalle canoniche: è una cosa che per loro è insita proprio. Noi, invece, siamo venuti fuori dal ceppo duro: sapevamo che andavamo in fabbrica perché avevamo voglia di guadagnare; fare un lavoro o farne un altro, bastava avere il lavoro. Ma questi, quando entravano, pretendevano perché loro il mangiare ce l’avevano, no? Eh, c’è una bella differenza, sai! E loro facevano rabbia perché delle volte venivano a dire: Ma io voglio l’aumento di stipendio. Allora io dicevo: Sta a sentire: vuoi l’aumento di stipendio perché non ti bastano i soldi; va bene, ma no se vuoi l’aumento di stipendio come quello là perché quello è uno capace di lavorare. Se io ti do un disegno in mano, tu cominci con questo disegno e non sai più qual è la parte alta e la parte bassa, la parte destra e la parte sinistra. Non puoi pretendere se non sei in grado!. E loro: Non mi interessa, io voglio la qualifica. Ma, dico: Non è questione di qualifica: tu vuoi i soldi, ma non la qualifica. La qualifica è una cosa che uno deve conquistarsi e deve essere capace di lavorare. Perché la qualifica, in definitiva, era anche una cosa giusta.

    Poi tutti quanti, quando arrivavano i soldi, vendevano anche la salute. Se io con il padrone andavo a fare questa conquista, che era sacrosanta per la salute, l’altro diceva: A me non interessa: basta che mi dà le dieci lire…. Io, invece, anche allo straordinario sono sempre stato contrario. Eh, ma in tanti non la pensavano così. È come quando non vanno neanche a scuola e dopo vogliono combattere con quello che viene da Sud che ti frega il posto! Ma è logico: lui è capace di leggere, è capace scrivere e anche se non è capace di lavorare, ha anche la testa che ragiona; tu invece non hai nemmeno la testa! Perché oggi in fabbrica non è più come prima: ci sono le macchine e bisogna che tu sappia cosa vuol dire questo perché ormai, anche con i termini inglesi che arrivano, se non sai niente schiacci un bottone per un altro. È tutto cambiato, no?

    Comunque resto all’Iram fino al ’90 che sono andato in pensione. Anche qua mi sono trovato il letto subito pronto ai pensionati. Invece pensavo di andare in categoria. Mi ricordo che andavo ad aiutare Apollinari che era nuovo; anche per tirare fuori pratiche, cose, processi che abbiamo avuto per esempio con la Snia-Viscosa per via delle lotte sindacali all’interno. Eh, sono state fatte di quelle lotte come chimici qui a Padova! E qua bisognerebbe parlare appunto con Simonaggio su queste lotte della Snia-Viscosa e la Kofler che avevano tenuta chiusa finché adesso hanno aperto. È stata una l’unica battaglia che abbiamo vinto.

    Alla Viscosa c’erano due o tre di ragazze in gamba. Alla Viscosa sono state fatte tutte quelle lotte e sono state vinte; hanno preso anche i loro soldi, eh! È stato tramite l’avvocato Moro, quello che è in via Dante, che ha curato lui le cose.

    Nel ’90 entro nei pensionati e proseguo là tutta quanta l’attività forse più di prima perché è un sindacato grosso. In fabbrica è facile perché li hai là, ma qua bisogna che vai tu a cercarteli! E io direi che anche questo ictus mi è venuto a forza di lavorare perché non mi sono mai tirato indietro: sono sempre andato di qua e di là.

    Dopo guarda cosa si è verificato in questi anni con l’inquinamento. E il sindacato sempre la bestia nera! Il guaio è che questa gente fa sempre presto a dare addosso al sindacato e non capisce che vivono perché c’è stato il sindacato. Perché non pensano mica a quanto abbiamo sofferto noi con le lotte perché si potesse stare bene. Ci sono tante persone anziane che vengono e gli darei tante botte sulla testa perché dico: Ma tu che cosa hai imparato? Proprio niente? Hai imparato solo a volere!.

    Anche adesso ogni tanto arriva uno: Ma sei a posto con la pensione? Prendi gli assegni e tua moglie no? Che cosa aspetti?. No, perché Tizio mi ha detto così e così. State a sentire: ma voi il primo ebete che passa vi fidate di tutto quello che vi dice? Noi paghiamo della gente perché vi vengano dietro e voi non andate? Allora a cosa servono tutte le nostre lotte?. Non c’è più quello spirito, no.

    Ma io sono uno di quelli che vuole ragionare sempre con la sua testa. Mi piace ascoltare, ma dopo dico che la testa ce l’ho anch’io e mi serve per ragionare!

    Dante Perin

    Io sono di Marostica, sono nato là nell’agosto del ’33. Il papà si chiamava Antonio e la mamma Sandrin Luisa. Eravamo sei fratelli. Io sono il quinto.

    Mio padre lavorava la terra. Poi è scoppiata la guerra e lui era antifascista fin da quando andava il fascio. Nel ’42, ’41, Angelo, mio fratello più vecchio, è stato preso e rinchiuso nella caserma del Distretto militare di Padova perché lo volevano mandare via. Allora mio padre ha preso il podestà e gli ha detto di tutto. Si è beccato una ventina di denunce e sarebbe finito in Germania di sicuro perché è andato senza freni, di brutto, insomma. Ma c’è stato uno nel Consiglio, un certo Angelo Toffanin, che ha detto: Lui ha offeso il fascismo, il duce e tutto il resto, però, anche voi, rinchiudere suo figlio e costringerlo ad andare via è stata a una cosa che non si doveva fare, a meno che uno scelga di fare questa strada.

    In sostanza l’esercito era diviso in due: i soldati di Mussolini e i soldati tradizionali, del re, insomma, e lui voleva andare con questi, non con gli altri. Poi è andato via militare; è stato in Jugoslavia e l’8 settembre è venuto a casa. Subito dopo sono arrivati i tedeschi che avevano fatto il comando a San Vito e avevano inviato i soldati, due di qua e due di là, divisi per zone, compresa la mia. Per la verità, devo dire onestamente che mio fratello era un po’ di idee diverse e, pur essendo anche lui di sinistra, non ha voluto fare il partigiano.

    I tedeschi dormivano su una stanza attigua a quella in cui dormivamo noi, poi andavano fuori e dentro di notte, facevano la guardia. Una volta sono arrivati i fascisti, cioè la 10ª Mas, portando via mio fratello perché, secondo loro, era un partigiano. I tedeschi, invece, siccome vivevano a casa mia, lo vedevano tutti i giorni a lavorare il terreno e alla notte era sempre a letto. Loro guardavano e lo vedevano dormire, per cui si sono attaccati fra di loro e un sergente della Wehrmacht – perché quello era l’esercito regolare – ha detto: O andate via oppure vi spariamo!. Noi abbiamo avuto tre persone in casa e qualcuno, addirittura, non era neanche hitleriano, cioè era contro Hitler; qualcuno, invece, era anche a favore. È stato un rapporto, diciamo, di convivenza normale, non di conflitto; per carità, non di grandi amori, comunque normale.

    Finisce la guerra. C’era un certo Dalla Pozza Ermenegildo – è morto a novanta e più anni – che suo padre da sempre leggeva Il Gazzettino, ma lo leggeva in maniera intelligente. Era un pastore e aveva anche molto tempo, così raccontava a suo figlio, cioè a questo Ermenegildo, un po’ la storia degli anni ’20, del fascismo, del comunismo, della Russia, di Lenin, un po’ di Gramsci perché pure nel Gazzettino qualcosa c’era. Così suo figlio si è iscritto al Partito comunista alla fine del ’45, primi ’46.

    Mio padre si è iscritto qualche mese dopo perché, tra l’altro, i campi che lavoravamo noi e loro erano confinanti e dunque quando avevamo finito di lavorare si poteva chiacchierare; c’era una grande amicizia. E lì è cominciato un po’ tutto il discorso, nel senso che l’intera famiglia praticamente è diventata comunista; cioè tutti quanti a casa mia. Insomma, le due famiglie di comunisti eravamo noi e loro in tutto il paese.

    Poi, intorno al ’47, moltissimi si sono iscritti al Partito comunista anche perché allora si pensava che andasse al potere. C’erano però delle figure talmente discutibili che avevano due o tre tessere in tasca. Comunque siamo arrivati a settanta-ottanta iscritti, di cui però credo che una cinquantina erano veramente comunisti sul piano ideale. La preparazione politica e anche culturale era quella di gente che lavorava la terra, ma assolutamente sveglia. Non con un grosso bagaglio culturale, però con la capacità di rinnovarsi. Tanto è vero che mio padre non sapeva leggere e scrivere, ma in quegli anni ha imparato a leggere, scrivere, si è attaccato al partito, ha fatto l’amministratore in una cooperativa, ha condotto una causa perché i dirigenti di questa cooperativa avevano rubato. Voglio dire che era uomo attivo e sapeva cavarsela.

    Era chiaro che in una situazione di questo genere i bambini o i ragazzini – io, essendo del ’33, avevo tredici, quattordici anni – erano quelli che facevano un po’ tutte le attività: dai manifesti ai volantini e chi più ne ha più ne metta. Si andava a prendere il materiale propagandistico a Cittadella.

    Ma di tutti i fratelli il più impegnato ero io. Un altro fratello un po’ meno, ma comunque era impegnato anche lui; aveva qualche anno più di me e aiutava un po’.

    Allora eravamo malvisti da tutto il paese

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