Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Solo NIna
Solo NIna
Solo NIna
E-book317 pagine4 ore

Solo NIna

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Deve decidersi. Se vuole sfondare nel mondo della moda, deve farlo adesso, e a Barcellona. Ha trentatrè anni, ed è arrivato il momento di prendere in mano la sua vita.
Raùl Ortega è un giovane stilista in cerca di se stesso e dell’idea giusta per realizzare finalmente la collezione che tutti si aspettano da lui.
In attesa del volo Napoli-Barcellona è perso nei suoi pensieri e nei suoi ricordi. Finché all’imbarco incontra una ragazza che gli affida per qualche minuto il suo trolley. 
E la vita di Raùl cambia, per sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2023
ISBN9788832783483
Solo NIna

Correlato a Solo NIna

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Solo NIna

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Solo NIna - Rosalia Catapano

    logogufo

    Dieci

    La selezione di narrativa italiana di Homo Scrivens.

    Homo Scrivens

    Direttore di collana: Aldo Putignano

    Editing: Francesca Gerla e Aldo Putignano

    Copertina: Ugo Ciaccio

    Autore: Rosalia Catapano

    Titolo: Solo Nina

    ISBN 9788832783483

    I edizione novembre 2016

    I edizione ebook maggio 2023

    ©2022 Homo Scrivens s.r.l.

    via Santa Maria della Libera, 42

    80127 Napoli

    www.homoscrivens.it

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

    Rosalia Catapano

    Solo Nina

    logofrontespizio

    A Francesca

    e al misterioso ragazzo dell’areoporto

    Il piede non trovò il gradino.

    I sandali aperti furono sul punto di tradirla e, per poco, non rotolò giù, lungo le scale che conducevano all’imbarco. Riprese l’equilibrio eseguendo una specie di piroetta, molto prima che Raùl pensasse ad alzarsi e a correre in suo aiuto.

    Trascinava un bagaglio a mano troppo grande, che chissà come era passato al check-in. Poi si venne a sedere proprio di fronte a lui, col trolley di fianco e le guance ancora arrossate per la discesa tumultuosa. Raùl la osservò, incuriosito, e non solo per il capitombolo mancato.

    Forte e delicata al tempo stesso. Forte, per un atteggiamento risoluto del corpo, per le spalle dritte e decise, per come si era ripresa, senza esitazioni, dall’incidente sulle scale, per l’ostinazione con cui manovrava quel trolley voluminoso. E tuttavia delicata, per la pelle così chiara, destinata ad arrossarsi in un istante, per gli occhi grigio-verdi, forse tristi o forse solo pensosi, e per le mani dalle dita lunghe e sensibili, che si muovevano in continuazione, anche ora che era seduta, in attesa, nell’aria artificiale dell’aeroporto, come a cercare qualcuno o qualcosa, un’idea o un ricordo o un’emozione lontana.

    Assorto in questi pensieri, Raùl nemmeno provò ad attaccare discorso, né tentò di proporsi come transitorio compagno di viaggio. Due ore e poco più, il tempo del volo Napoli-Barcellona, sarebbero bastate per un’iniziale conoscenza. E invece lui rimase in meditazione, o sarebbe meglio dire in contemplazione, posticipando a tempi indefiniti una qualsivoglia azione.

    Fu la ragazza a prendere l’iniziativa, ma con obiettivi diversi: doveva andare in bagno, subito, e non aveva alcuna intenzione di intraprendere una nuova scalata e relativa discesa con quel bagaglio così pesante.

    «Puoi tenermi un momento il trolley?»

    Raùl sussultò.

    «Eh? Sì, sì certo» riuscì a farfugliare lui.

    Lei si avviò verso la toilette con quella sua aria risoluta e lo lasciò seduto, in compagnia del trolley blu.

    Raùl allora fece una cosa di cui non pensava di essere capace. Con le mani che gli tremavano, armeggiò intorno alla targhetta che dondolava appesa alla maniglia e lesse un numero di cellulare, che memorizzò subito nel suo, e un nome. Nina.

    Quando la ragazza tornò, il bagaglio era di nuovo fermo al suo posto, testimone discreto di quel piccolo turbine emotivo, e le mani di Raùl avevano smesso di tremare e se ne stavano tranquille, a sfogliare una rivista di moda.

    «Grazie!» disse Nina, ma lui, ancora turbato, non ebbe la forza di risponderle, e le lanciò solo un mezzo sorriso impacciato.

    Poi lei cominciò a scavare nella tasca esterna del trolley, da cui estrasse un pacco di biscotti al cioccolato e un libro. Era una raccolta di poesie di Tagore. Raùl ne scrutò la copertina e fece subito scomparire la rivista di moda sotto il sedile. Tagore era uno dei suoi poeti preferiti, cavolo, e lui si faceva beccare con quella stupida rivista tra le mani.

    Il giornale gli serviva per lavoro, in un certo senso. Conteneva un ampio e dettagliato servizio sull’ultima fashion week di Barcellona. Un giovane stilista aveva presentato la sua collezione imponendo a tutte le modelle di indossare grandi teste di orso, sotto le quali le ragazze, troppo magre, sembravano piegarsi per il peso. Blanca gli aveva immediatamente spedito la rivista a Napoli, con posta celere. Come se fosse questione di vita o di morte che Raùl vedesse l’articolo il prima possibile.

    La rivista era accompagnata da un biglietto a dir poco perentorio: Urge tua collezione da presentare in tempi brevissimi. Necessita eliminare da mercato catalano barbari, orsi ammaestrati e simili oscenità. Torna immediatamente.

    Aveva scritto così, come un telegramma, o un dispaccio militare.

    Ma Blanca aveva ragione. Il mercato spagnolo della moda era in gran fermento, dunque era il momento giusto per lanciare una sua collezione personale. Gli orsi e le altre follie dei suoi possibili concorrenti, che si davano un gran da fare, ma che secondo Blanca non avevano un briciolo del suo talento, dietro le trovate eccessive nascondevano un’evidente mancanza di creatività, oltre a essere di gusto discutibile.

    Doveva decidersi. Se voleva sfondare nel mondo della moda, doveva farlo adesso e a Barcellona. Aveva trentatré anni ed era arrivato il momento di prendere in mano la sua vita. Ma il punto era: cosa voleva fare davvero?

    Avrebbe avuto bisogno di uno stimolo forte: ambizione, desiderio di notorietà o di ricchezza. Invece era confuso, e pigro. Molto pigro. E poi, non era così sicuro di possedere quel talento che Blanca gli attribuiva.

    L’altoparlante annunciò il volo. Tutti i passeggeri si alzarono in piedi. Anche Nina.

    Raùl si mise in fila dietro di lei. Pur seguendo i suoi pensieri l’aveva osservata, mentre leggeva sgranocchiando biscotti al cioccolato. Era rimasto incantato dal suo sorriso, che arrivava, inaspettato e luminoso, ma subito si spegneva per far posto a uno sguardo assorto e profondo.

    E aveva passato in rassegna il suo abbigliamento, con l’occhio esperto di chi di abiti femminili se ne intende. Quello di Nina era di una semplicità disarmante. Un vestitino di garza bianca che arrivava poco sopra il ginocchio e lasciava scoperte le spalle. Un qualcosa di svolazzante nel taglio della gonna, il tessuto inconsistente, quasi etereo, di un candore perfetto, conferivano alla sua figura un tocco delizioso di leggerezza e femminilità. E poi un paio di sandali minimi, due striscioline di cuoio chiaro, intrecciate, rasoterra. Il piede non voleva costrizioni, era così, semplicemente nudo ad affrontare il mondo. Evidentemente, Nina correva volentieri il rischio di una caduta, pur di sentirsi libera.

    I pensieri di Raùl andarono dalla ragazza a se stesso. Che rischi era disposto a correre, lui? E che rischi correva, ad andare avanti così?

    Si rivide negli ultimi mesi trascorsi a Napoli. Solitudine, inerzia, ricordi. Ma adesso basta. Aveva bisogno di cambiare la sua vita. Avrebbe trovato anche lui il suo passo risoluto, come la ragazza del trolley. Ma ecco che già ci ricadeva. Aveva ripreso a fantasticare, e già ricamava sul carattere di lei, che si figurava di conoscere come fosse un amico intimo, o un innamorato. Mentre forse era solo una turista carina, come tante altre, tutto qui; una che aveva indovinato l’abito adatto per farsi notare, senza essere troppo appariscente.

    D’altronde, l’immaginazione e la creatività erano le sue doti. Non doveva dimenticarsene, se voleva mettersi a lavorare sul serio.

    Perché a Barcellona questo doveva fare: lavorare.

    Una collezione. Disegnare modelli che avessero un senso e proporli.

    L’assegnazione dei posti sull’aereo non lo aveva favorito, e adesso Nina era lontana. Poteva solo immaginarla, mentre leggeva Tagore appoggiata al finestrino. Niente gioielli, niente trucco. Lei era, e non aveva bisogno di nulla per esserci.

    Concedi ch’io possa sedere

    per un momento al tuo fianco.

    Le opere cui sto attendendo

    potrò finirle più tardi.

    Lontano dalla vista del tuo volto

    non conosco né tregua né riposo

    e il mio lavoro

    diventa una pena senza fine

    in un mare sconfinato di dolori.

    Oggi l’estate è venuta

    alla mia finestra

    con i suoi sussurri e sospiri,

    le api fanno i menestrelli

    alla corte del boschetto in fiore.

    Ora è tempo di sedere tranquilli

    a faccia a faccia con te

    e di cantare la consacrazione

    della mia vita

    in questa calma straripante e silenziosa.

    UNO

    Open up your mind and let me step inside

    Rest your weary head and let your heart decide

    It’s so easy when you know the rules

    It’s so easy all you have to do

    Is fall in love

    Play the game

    Everybody play the game of love

    When you’re feeling down and your resistance is low

    Light another cigarette and let yourself go

    This is your life

    Don’t play hard to get

    It’s a free world

    All you have to do is fall in love

    Play the game everyone play the game of love

    My game of love has just begun

    Love runs from my head down to my toes

    My love is pumping through my veins

    Driving me insane

    Come play the game play the game

    play the game play the game

    Play the game

    everybody play the game of love

    This is your life – don’t play hard to get

    It’s a free free world all you have to do is fall in love

    Play the game yeah play the game of love

    Your life – don’t play hard to get

    It’s a free free world all you have to do is fall in love

    Play the game

    everybody play the game of love.

    NINA aveva cominciato l’anno nuovo piena di entusiasmo. Sembrava che le andasse tutto per il verso giusto. Aveva finito di sistemare l’appartamento in cima alla collina, una casa tutta sua, piccolissima, ma con un panorama mozzafiato, e poteva dedicarsi al lavoro che aveva sempre desiderato, per giunta quasi stabile. La direttrice dell’asilo era molto soddisfatta del suo periodo di prova, e le aveva confermato il contratto. «Due anni, Nina» le aveva detto, con un sorriso che sembrava dire per sempre.

    Certo, vivere da sola era una nuova sfida alla sua antica paura della solitudine, ma poteva affrontarla. E poi, si era sentita comunque sola, anche nella grande casa di via Carducci, dove c’erano da contare sessanta passi per andare dalla sua stanza di adolescente ansiosa allo studio in cui il padre era perennemente rintanato. Adesso, l’ingessata compostezza di quel palazzo signorile, dove la mattina persino il portiere impettito la salutava con distacco, era stata sostituita dalla rassicurante esposizione di vita del vecchio edificio di Capodimonte, brulicante di suoni e di colori, di grandi stanze affollate da famiglie numerose come quelle della signora Carmela, con i suoi cinque figli maschi, e di gatti ben nutriti, padroni incontrastati del cortile.

    E, come se non bastasse, Nina aveva avuto un altro regalo dalla fortuna: due giovani vicini con cui aveva stretto subito amicizia. Veronica era incinta, e Nina non vedeva l’ora che arrivasse questo suo primo inaspettato nipotino. Avrebbe solo voluto che, come la direttrice dell’asilo, anche sua madre apprezzasse il suo curriculum di giovane laureata in scienze dell’educazione, con tanto di lode, corsi di perfezionamento, stage, esperienza nei laboratori di colore. Avrebbe desiderato che la madre condividesse con lei, sia pure minimamente, il significato del suo lavoro con i bambini più piccoli, l’importanza di guidarli in una crescita libera, ricca di esperienze espressive, e per una volta le dicesse brava Nina, sei davvero brava in quello che fai. Ecco, solo questo avrebbe voluto.

    Invece sua madre si ostinava a ritenere un’offesa personale il fatto che Nina non avesse studiato giurisprudenza e si fosse presa quella stupida laurea di serie B. Una maestra d’asilo! Possibile che questa sia la massima ambizione di mia figlia? Nina immaginava la delusione materna anche a chilometri di distanza. Ma ora riusciva a non pensarci quasi mai, protetta dalla considerazione della direttrice, dalla fiducia dei genitori, dall’affetto dei bambini e dai bellissimi progetti che aveva in mente di realizzare per loro.

    In questo stato di grazia, Nina aveva deciso di accettare l’invito alla festa di compleanno di una ex compagna di scuola quasi dimenticata, che si era messa in testa di riunire tutta la classe, chissà perché, visto che la loro classe non era mai stata unita, così divisa in due schieramenti netti, i figli di papà che ostentavano ricchezze e privilegi, e i ragazzi che venivano da famiglie meno benestanti, che andavano a scuola con un costante sentimento di esclusione e di rabbia. Tra i due gruppi Nina, che con Caterina e Giulia formava un trio fuori da ogni definizione, insofferente alla spocchia degli uni, quanto estraneo all’invidia degli altri.

    Quella sera però Caterina fu categorica: «Da quella stronza? Neanche morta!» Così le amiche se ne andarono a sentire musica dal vivo in un localino del centro storico e Nina si avviò alla festa tutta sola e armata delle migliori intenzioni. Ma le bastarono pochi minuti per accorgersi che Caterina aveva ragione.

    La festa era noiosa come lo erano sempre stati i suoi compagni di classe, e lei si sentiva come sempre un’estranea. Per fortuna il rinfresco sembrava particolarmente allettante.

    Nina gironzolò per un po’ intorno alla grande tavola imbandita di ogni ben di Dio, finché decise che il buffet era ufficialmente aperto, prese un piatto e se lo riempì oltre misura. Alla fine, non soddisfatta, afferrò con due dita un ultimo arancino che non entrava nel piatto e se lo mangiò in un sol boccone.

    «Affamata?»

    Nina trasalì e si girò, mentre le guance le diventavano di fuoco.

    «Sì… no, veramente…»

    Il ragazzo la guardò con due occhi azzurri, intelligenti e complici, e tradusse per lei il suo pensiero: «A una festa così noiosa non rimane che dedicarsi al buffet!»

    Prese anche lui un arancino con due dita, e se lo mise in bocca come aveva fatto Nina.

    «D’altronde, ci toccava venire» affermò.

    «In che senso? Io veramente sono qui solo per non essere scortese con una vecchia compagna di scuola».

    «In che senso? Non pensi che fosse arrivato finalmente il momento di conoscerci? Sono Vincenzo» disse lui, come se aspettasse quell’occasione da un bel po’.

    «Io sono Nina. Beviamo qualcosa?» disse lei a corto di frasi intelligenti.

    Vincenzo le tolse dalle mani il piatto ricolmo e riempì due calici di vino rosso.

    «Al nostro incontro».

    Fecero tintinnare i bicchieri, e lei lo guardò. Cosa avevano quegli occhi? Sembravano entrare dentro di lei, ma non era facile definire come. Non vi leggeva desiderio di conquista, ma una curiosità intensa di conoscere un nuovo mondo.

    Nina si sentì quel nuovo mondo, e fu bellissimo. Lo diceva che era il suo periodo fortunato. E anche Vincenzo prometteva di essere un affascinante nuovo mondo, tutto da scoprire.

    Lasciarono la festa molto prima delle fatidiche candeline, senza troppi complimenti. Lui aveva un furgone bianco da lavoro, pieno di strani attrezzi e di metri e metri di fili elettrici attorcigliati. Lei si districò nel groviglio di fili e dichiarò di stare comodissima.

    Raggiunsero San Martino, e parlarono tutta la notte: lei dell’asilo, lui del suo lavoro sulle navi; lui dei fiori che coltivava nel suo giardinetto vicino al vulcano, lei del laboratorio di colore, e del modo sorprendente con cui i bambini usavano il rosso.

    «Il rosso è il colore che finisce prima, sembra che i bambini non riescano a staccarsene» disse lei.

    «È il colore della loro energia» rispose lui, come se sapesse tutto dei colori, e del lavoro di Nina.

    Lei gli parlò del tango, lui della passione per la vela; lei gli raccontò delle mostre che aveva visto, dei pittori che amava, lui le disse della sua piccola collezione di libri di poesia e di quanto gli piacesse Tagore.

    Poi arrivò l’alba, ma loro non se ne accorsero, troppo occupati a baciarsi, e a bisbigliarsi quelle cose folli che si dicono solo ai primi baci.

    Vincenzo accompagnò Nina a casa quando ormai il sole era già alto. Nina se ne andò a letto frastornata, e si svegliò solo nel pomeriggio.

    Il cellulare suonò.

    «Mi sono procurato del pesce freschissimo. Pensavo di cucinarlo per te. Hai prezzemolo, e aglio?»

    La voce di Vincenzo era viva e piena di un’intimità delicata e calda.

    «Ho anche del vino bianco» rispose Nina.

    «Allora vengo?»

    «Allora vieni».

    Più passavano i giorni e più Nina si innamorava di Vincenzo. Amava le sue mani grandi e calde capaci di cucinare piatti squisiti e di massaggiarle le caviglie, dopo una giornata faticosa. Amava la sua erre arrotata. Amava la sua schiena bianca che sembrava risplendere nella notte, quando si addormentava nel suo letto, con l’abbandono di un bambino. Amava l’attenzione di Vincenzo, la considerazione e il rispetto che aveva per tutto ciò che la riguardava, la curiosità e l’interesse per tutto quello che Nina faceva. Amava le cose che lui cucinava per lei, quasi incoraggiando la sua voracità, come se anche quella fosse una qualità di Nina e non un difetto. Amava quella bolla calda e protettiva in cui si sentiva quando stavano insieme, un microclima avvolgente in cui le loro energie si univano, si fondevano i loro languori, e si stemperavano i loro dolori e le loro ansie.

    Poi Vincenzo una mattina di febbraio se ne andò. All’alba.

    Doveva scappare, come sempre, e andare al porto dove le attività cominciavano presto, per non perdere ore di luce. Il suo lavoro sulle navi era faticoso e gli aveva procurato un viso scavato, quasi consunto, e molte rughe agli angoli degli occhi, che lo facevano sembrare più adulto dei suoi trent’anni, ma la sua carnagione era scura e colorita, come quella di chi sta sempre all’aria aperta.

    Quell’alba era grigia, e fredda. Nina si era alzata controvoglia a preparare il caffè, mentre Vincenzo faceva la doccia, per svegliarsi. Nonostante la fatica delle sue giornate pesanti aveva dormito pochissimo, per stare con lei, abbracciarla, in un dormiveglia magico e sognante, e fare l’amore, come se non fosse mai abbastanza, quell’amore che facevano.

    Lui finì di asciugarsi e si vestì, poi le si avvicinò, con in mano l’asciugamano grigio che aveva usato; glielo porse e le disse solo: «Me ne vado».

    E le affidò la salvietta umida, come se le stesse restituendo la sua vita. Un gesto minimo e definito.

    Nina prese l’asciugamano che le porgeva e rimase muta, col cuore che sembrava rompersi nel petto. Lui le aveva fatto capire tante volte che quel momento prima o poi sarebbe arrivato, ma Nina non voleva capire e non voleva pensarci.

    «Potremmo andare a Barcellona, quest’estate, a trovare Caterina e Giulia» gli aveva detto una sera, in preda alla nostalgia delle amiche che nel frattempo si erano trasferite in Spagna.

    «Non posso lasciare il lavoro proprio d’estate. Generalmente vengo chiamato da un porto all’altro e non ho un attimo di respiro».

    «Ah, capisco» aveva detto lei, delusa.

    Poi lui l’aveva guardata col suo sguardo sincero e aveva aggiunto: «Non sono capace di fare programmi, Nina. Non chiedermi programmi».

    «Non sono programmi, sono bei progetti da fare insieme» aveva risposto lei.

    «Sono comunque qualcosa che non riesco a fare. Posso solo amarti con tutto me stesso, in questo momento, nient’altro». L’aveva presa tra le braccia e il discorso era finito lì.

    Vincenzo andò via e non rispose più al cellulare, né al telefono di casa.

    Dopo quasi un mese dalla mattina dell’asciugamano grigio, Nina si risolse a farsi prestare la macchina da Paolo e Veronica per andare sotto casa sua, ad aspettarlo.

    Lui abitava in un paese alla periferia di Napoli, in una strada solitaria che si inerpicava su, fino al Vesuvio. Aveva una piccola casa e un giardino, dove crescevano piante e fiori in quantità, favoriti dal sole e dalla fertile terra vulcanica.

    Era un aprile freddo e umido e Nina dovette aspettare diverse ore, mentre il cielo si faceva scuro e il gelo della sera appannava il parabrezza, finché lo vide arrivare col suo furgone bianco, da cui scese lentamente, avviandosi verso casa con le spalle incurvate dalla stanchezza, che lei aveva imparato ad amare.

    «Vincenzo!» Il cuore di Nina batteva a mille.

    Lui le sorrise, come se si aspettasse di trovarla lì, e se la strinse tra le braccia.

    «Vieni, ti faccio vedere una cosa».

    Non entrarono in casa, ma lui aprì una specie di rimessa, chiusa da una porta di ferro arrugginita, che dava nel cortile, sotto le scale che portavano all’ingresso.

    «È il mio laboratorio segreto. Non lo conosce nessuno. Sei la prima persona che ci entra».

    Lo spazio era occupato da un grande tavolo da lavoro su cui si era posata, ancora incompleta, una scultura, costruita dall’assemblaggio di parti metalliche di vario tipo. Una sorta di operazione artistica di riciclo. La scultura assomigliava approssimativamente a una figura femminile.

    Nina la guardava, come incantata, e le girava intorno per osservarla da tutti i lati. Era venuta fin sul vulcano per chiedere perché, magari piangere, o offenderlo o forse giurargli un amore eterno e irresistibile. Invece se ne stava muta, a fissare quella strana scultura che le diceva cose di lui. Le raccontava la sua vocazione alla solitudine e alla libertà, le ricordava le loro incredibili affinità, l’amore per l’arte, la predisposizione naturale alla creatività, il piacere di usare i materiali più vari, lei a scuola con le fantasiose costruzioni che faceva con i suoi bambini, lui sulle navi a riparare impianti elettrici che nessun altro riusciva a far funzionare e poi, la sera, nella penombra del laboratorio, tutti e due con la passione del riciclaggio, con la capacità di costruire con quello che gli altri avrebbero buttato via. Perché lui voleva buttare via proprio la loro storia?

    Ma Nina non formulò quella semplice domanda. Quel luogo le parlava anche della loro incolmabile distanza. Un artigiano di provincia e una ragazza della Napoli bene.

    Bene poi, chissà cosa voleva dire. Non era usa frequentare gli ambienti che contano, come avrebbe voluto sua madre.

    «Questa sei tu. Guarda!»

    Prese da uno scaffale un vecchio paio di scarpe col tacco a spillo, rosse, e le infilò nelle due basi metalliche della scultura.

    «Vedi? Ti terrò sempre con me».

    «Vincenzo, ti devo parlare…»

    «Nina, vai via. Ti prego».

    Nina non lo rivide mai più.

    Di lui le rimase solo una maglietta, grigia anche lei, che una notte aveva lasciato a casa sua, il ricordo della scultura con le scarpe rosse, e l’angoscia di quel gesto finale, di quell’asciugamano che Vincenzo le porgeva, come se fosse troppo pesante per lui, che pure aveva muscoli abituati alla fatica.

    L’unica soluzione al dolore per Nina fu progettare la partenza per Barcellona, colorata e gioiosa, dove le sue amiche le chiedevano insistentemente di raggiungerle. Così aveva aspettato la fine della scuola, che era aperta fino alla prima settimana di luglio, per accogliere gli ultimi piccoli accaldati, lasciati da madri indaffarate e nervose, e poi finalmente era partita. Via da Napoli, via da Vincenzo, dall’ossessione di Vincenzo. Perché la vita doveva continuare. In un modo o in un altro.

    In questi pensieri e in questi ricordi Nina era persa, durante il volo, che fu tranquillo e senza scosse. L’aereo si muoveva in un cielo limpido e azzurro che permetteva di vedere i contorni nitidi delle coste e il mare.

    Lo amò e lo odiò alternativamente, mentre guardava il mondo sotto di lei. Lo amò, sulla costa tirrenica, convinta che a separarli fosse solo il suo insaziabile desiderio di libertà, o forse un ostinato orgoglio, un senso assurdo di inadeguatezza. Un tecnico specializzato figlio di generazioni e generazioni di contadini, che avevano coltivato i pomodori, e le viti, e le albicocche succose alle pendici del vulcano, mariti di donne silenziose che rimanevano a casa a fare il bucato, ad accudire i figli e preparare cene parsimoniose per gli uomini. Una ragazza piena di privilegi, erede degenere di una schiera di magistrati. Ecco cosa erano loro due. Due entità che non potevano incontrarsi che transitoriamente.

    Ma quando l’aereo abbandonò l’Italia, per virare verso ovest, verso la Spagna, Nina fu presa da altri pensieri: forse la cosa era molto più semplice, più banale, forse c’era un’altra donna, e lui non aveva avuto il coraggio di dirglielo, forse la scultura nel laboratorio non aveva niente a che fare con lei che, stupida, ci era caduta. Lo diceva Caterina che lei era troppo ingenua, troppo pronta a credere a tutti, a vedere solo il buono nelle persone.

    Anche sua madre le raccomandava: devi essere prudente, Nina, sei troppo impulsiva, precipitosa, troppo fiduciosa. E lei invece non era stata prudente, si era innamorata e adesso stava male, malissimo.

    E cosa stava facendo Vincenzo proprio ora, nella luce di quel tramonto nitido, che di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1