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Amore di mamma
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E-book366 pagine6 ore

Amore di mamma

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Info su questo ebook

Lui ti sta guardando. Lui ti sta aspettando. Chi sarà il prossimo?

Quando alla detective Charlie Stafford viene assegnato il caso di una donna scomparsa con suo figlio, non ha davvero idea dell’incubo in cui sta per addentrarsi. All’inizio la pista dei maltrattamenti familiari sembra la più plausibile, ma l’improvvisa scomparsa di altre donne insieme con i loro bambini rende quell’ipotesi sempre più debole. Non può trattarsi di una coincidenza: deve esserci la stessa mano dietro quelle inquietanti sparizioni. Grazie all’aiuto dell’ispettore Geoffrey Hunter, Charlie si getta a capofitto in una caccia all’uomo disperata, per evitare che altre persone innocenti siano massacrate. Ma è un’impresa tutt’altro che semplice. I sospettati vengono fermati, ma gli indizi sono frammentari e persino il movente appare oscuro. Perché l’assassino si accanisce solo su una delle sue vittime? Se Charlie vuole davvero fermarlo, dovrà calarsi nella perversione di una mente malata, ma rischiando di diventare la prossima vittima del serial killer…

Un libro da oltre 100.000 copie

«Perfetto per chi ama Angela Marsons.»

«Un thriller davvero avvincente e intenso, con un finale assolutamente inaspettato. Non vedo l’ora di leggere il prossimo della serie.»

«Da brividi. Se amate i thriller psicologici che non lasciano respiro, questo è il libro che fa per voi.»

«In ogni pagina si sente l’esperienza sul campo della scrittrice. 35 anni nella polizia e un talento impareggiabile nel descrivere le indagini.»

«Se amate le storie che vi tolgono il sonno, questo è il thriller per voi.»

«Un’abilità straordinaria nel mantenere un ritmo sostenuto durante tutto il libro.»

Sarah Flint
è l’autrice della serie di romanzi bestseller incentrati sulle indagini della detective Charlotte Stafford. Amore di mamma, il suo primo thriller, ha scalato le classifiche inglesi, canadesi e australiane. Il successo dei suoi libri è in larga parte dovuto alla sua esperienza di 35 anni in polizia, che ha ispirato tutti i suoi libri.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ott 2019
ISBN9788822738103
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    Anteprima del libro

    Amore di mamma - Sarah Flint

    2490

    Titolo originale: Mummy’s Favourite

    Copyright © Sarah Flint, 2016

    First published in the United Kingdom

    by Head of Zeus (Aria) in 2016.

    Traduzione dall’inglese di Francesca Campisi

    Prima edizione ebook: ottobre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-0278-3810-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Sarah Flint

    Amore di mamma

    Indice

    Prologo

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    Capitolo trentasei

    Capitolo trentasette

    Capitolo trentotto

    Capitolo trentanove

    Capitolo quaranta

    Capitolo quarantuno

    Capitolo quarantadue

    Capitolo quarantatré

    Capitolo quarantaquattro

    Prologo

    C’era freddo sotto le assi. Un freddo appiccicoso e umido. E parecchio buio. Quasi nero come la pece. Soltanto un sottilissimo spiraglio di luce. Insufficiente a suggerirle dove si trovasse.

    Julie Hubbard provò a parlare ma il tessuto stretto attorno alla bocca le impediva qualunque movimento delle labbra secche e screpolate. Solo un lieve gemito riusciva a fendere l’oscurità prima che il suono morisse nello spazio angusto in cui lei giaceva. Mosse la lingua e sentì un liquido freddo riempirle la bocca. Acqua. Fresca, dissetante, salvavita. Deglutì, allungando di nuovo la lingua verso il tubicino infilato nel tessuto, istintivamente consapevole che era la sua unica speranza di sopravvivere. Non osava berla troppo in fretta. Doveva razionarla, centellinarla piano piano. Non sapeva quanto a lungo sarebbe rimasta dov’era. Non sapeva proprio niente, in realtà.

    Provò a sollevarsi con cautela. Le faceva male ogni muscolo. Un mucchio di coperte sotto il suo corpo attenuava in parte il freddo e la scomodità, ma si sentiva rigida e indolenzita a forza di rimanere sdraiata nella stessa posizione. La testa le martellava al ritmo del respiro, ciascuna delle due tempie con la stessa pulsazione regolare. Muoveva gli arti a stento; erano legati da una corda, che girava e girava e girava attorno ai polsi e alle caviglie. Riusciva a malapena a sgranchire le dita delle mani e dei piedi perché non si intorpidissero, ma niente di più. Grattava con le unghie la terra sotto le assi della copertura ma aveva pochissimo spazio per muoversi, figuriamoci per picchiare contro le tavole di legno. Non sapeva dove si trovasse, ma sapeva che era un luogo remoto, lontano dalla civiltà, lontano dai soccorsi. Era sola. Oppure no?

    I suoi sensi si acuivano mano a mano che lo stordimento si attenuava. Attorno a lei l’aria era umida, claustrofobica, dolciastra. Odorava di terra, di muffa, ma qualche zaffata occasionale di sentori più freschi scivolava tra le fessure. Anche l’oscurità sembrava un po’ meno cupa e nauseante attorno a quei sottili spiragli. Julie si sollevò verso le aperture ma le assi rifiutavano di spostarsi, la luce scomparve dentro i suoi vestiti e una sensazione di panico la assalì nel perdere anche quelle che le erano apparse come possibili vie di fuga.

    Tentò di spostarsi da un lato, ma la terra dura e compatta bloccò i suoi movimenti. Scivolò nell’altra direzione e il suo corpo incontrò qualcosa di morbido. Strisciò più vicino e ruotò leggermente per toccare con le dita quella presenza soffice. Riconobbe degli indumenti, la fibbia di una cintura, della pelle. Si avvicinò il più possibile girandosi per metà verso la sagoma accanto a lei. I capelli le scivolarono dal viso dentro la chiazza umida che aveva avvertito poco prima. Era vischiosa ed emanava uno strano odore dolciastro. Julie fu tentata di assaggiarla, ma non osava. Un odore familiare le raggiunse le narici. Una fragranza che associò alla propria casa, l’odore di bambini cresciuti, di dopobarba da ragazzo che diventa uomo.

    Le tempie presero a martellare più forte. Si sforzava di vedere oltre quel buio nero come la pece, ma niente. Da qualche parte in lontananza udì il rumore del sottobosco calpestato e scalciato. Il trapestio si intensificò, unendo le sue forze con il rimbombo che lei aveva in testa, che pulsava e batteva e pulsava. Provò a gridare ma non ne uscì alcun suono, solo il gorgoglio dell’acqua che scendeva lungo il tubicino. Deglutì rumorosamente e tossì. Poi al rumore dei colpi si unì una luce, che si riversò attorno a lei circondandola mentre le assi venivano rimosse. Strizzò gli occhi quando il bagliore di una torcia la gettò in un bagno di sudore freddo e appiccicoso. Il terrore, agghiacciante e debilitante, le mozzò il respiro mentre si affannava per capire cosa stesse accadendo. Non vedeva altro che quella luce accecante che le bruciava le retine. Tutto il resto, al di là, era buio. Allungò il collo verso la persona al suo fianco, con il desiderio di sapere chi fosse e il terrore di scoprirlo. Lo sapeva già. Aveva riconosciuto il suo odore. Adesso ricordava. Nell’aprire gli occhi, udì quella voce. Era una voce sorridente, malinconica, cantilenante, soddisfatta di quello che lei stava guardando. Divertita da quello che lei stava guardando.

    E mentre riconosceva i lineamenti morbidi del figlio minore, il bellissimo viso spento del suo Richard, Julie vide anche lo squarcio aperto e rosso vivo che gli attraversava la pelle delicata del collo e le chiazze del suo sangue che le imbrattavano i capelli e le spalle. La voce le giunse ancora più forte, canzonatoria.

    «Cocco di mamma. Cocco di mamma».

    Capitolo uno

    Non ci volle molto a eliminarla dall’abitazione. Ogni foto, ogni indumento, ogni singola cosa che gli avrebbe ricordato il suo aspetto, la sua voce, il suo profumo.

    Si inginocchiò a terra e spruzzò disinfettante in tutti gli angolini che lei amava: il comodino sul quale posava il cellulare, con il bicchiere d’acqua e il libro che leggeva sempre la sera, mentre lui cercava di addormentarsi. Non gliene era mai fregato un cazzo di lui.

    Scostò le lenzuola e una zaffata di deodorante scadente gli aggredì le narici. Quanto detestava la fragranza Impulse che lei usava ogni giorno, prediligendola al profumo costoso che le aveva regalato per Natale. Il suo dono giaceva ignorato in fondo alla mensola della specchiera a prendere polvere, come tutto il resto nella loro relazione. Strappò via le lenzuola dal letto, le appallottolò e le lanciò verso la porta. Il materasso tratteneva ancora le tracce del suo odore. Lo cosparse di deodorante per tessuti. Detestava quell’odore.

    I vestiti e le scarpe occuparono più spazio del previsto, sacchi su sacchi pieni di spazzatura abbandonata e appartenuta a lei. Li accumulò, fila dopo fila: una montagna di eccessi e tutti a spese sue. Lo aveva trattato come una pezza, sfruttandolo per pagare le bollette e sopportare le sue cazzate. Be’, adesso se n’era andata, e lui ne era ben felice; felice che fosse uscita dalla sua vita; felice di non doversi più sorbire le sue lagne o frecciatine sarcastiche.

    Corse al piano di sotto e ficcò le lenzuola in lavatrice, avviandola alla massima temperatura possibile. Se si fossero rovinate, pazienza. Ne avrebbe comprate delle altre. Non gli importava niente se tutto quello che la riguardava fosse andato distrutto. Voleva solo ripulire la casa da ogni singola molecola di quella stronza. Riempì un’altra bacinella di acqua bollente e candeggina, afferrò lo spazzolone e cominciò a sfregare il parquet, per ripulire e annientare il sudiciume che lei aveva lasciato. Pazienza se era già passata la mezzanotte. Avrebbe sgobbato anche tutta la notte, se necessario. E tutto l’indomani. E se lei aveva deciso di portarsi dietro il figlio prediletto, amen. Si raccoglie ciò che si semina e adesso erano solo affari suoi.

    Sbirciò nella stanza dove dormiva l’altro figlio, ignaro della situazione. Il suo respiro era regolare; la trapunta rimboccata lasciando spazio di movimento alle braccia e alle spalle, libere da quella stretta soffocante. Da un lato del letto spuntava una gamba. Un raggio di luna gli illuminava il viso, che appariva quasi angelico nell’oscurità della notte. Spostò lo sguardo dal volto del figlio alla fotografia sul comodino accanto al letto. C’era anche lei e il suo sguardo beffardo gli urtò i nervi.

    Entrò nella stanza in punta di piedi e afferrò la cornice, avvicinandola alla luce della luna per osservare meglio i lineamenti di lei. Quanto la detestava.

    Il ragazzo si mosse, ritraendo la gamba sotto la trapunta e voltandosi di spalle. Lui osservò la fotografia ancora una volta prima di infilarla con decisione sotto il braccio.

    «Quella stronza non tornerà più», sussurrò al figlio. «Spero tanto che marcisca all’inferno».

    Capitolo due

    Charlie Stafford era in ritardo. Era sempre in ritardo. Le cose non facevano che capitarle sotto il naso. Quel giorno aveva aiutato il controllore a inseguire uno spirito ribelle che aveva superato i tornelli della metropolitana con un salto per evitare di pagare. Il mercoledì prima era stato il turno del ciclista sbalzato dalla bici e il giovedì della vecchietta disperata per aver smarrito il portafoglio. L’indomani sarebbe successo qualcos’altro. Per quanto lei si sforzasse di arrivare puntuale, le cose le capitavano e basta!

    Tutto era cominciato il 6 luglio 2007, quando aveva vent’anni e, al cospetto nientemeno del capo supremo delle forze di polizia, si era presentata in ritardo alla consegna del proprio diploma perché era incappata in un paio di nuove leve pronte a darsele di santa ragione in una delle palazzine del campus. Era stata l’ultima cerimonia conclusiva officiata al centro di addestramento di Hendon, davanti alla statua di Sir Robert Peel, il fondatore della Metropolitan Police, prima che la scuola chiudesse le porte ai cadetti.

    Nove anni dopo, Charlie arrivava ancora perennemente in ritardo. Non era cambiato niente!

    Era stata soprannominata attiragrane dai colleghi scansafatiche o acchiappabanditi da quelli più zelanti, invidiosi delle inspiegabili vie che la portavano a imbattersi nel crimine e nei criminali.

    La verità universalmente accettata, tuttavia, era che al fianco di Charlie non ci si annoiava mai.

    Impostò un passo da corsa moderata, le scarpe da ginnastica che cigolavano sotto la pressione aggiuntiva. Era lunedì e lei odiava i lunedì; tutti i lunedì e i mercoledì, ma per qualche ragione quella mattina aveva un sentore diverso. Alla fine della settimana precedente aveva frequentato un corso. Forse l’atmosfera le sembrava stranamente irrequieta per via del giorno libero in più, che aveva prolungato un tantino il weekend? Non ne aveva la certezza, ma avvertiva qualcosa nell’aria: una nuova sfida, forse un nuovo caso con il quale misurare il proprio acume.

    La centrale di polizia di Lambeth apparve in vista. Charlie puntò lo sguardo verso l’imponente facciata a vetri dell’edificio, strizzando gli occhi per la luce del sole mattutino che si rifletteva contro i palazzi di fronte. Al mattino le sembrava sempre così imponente, arretrato di un paio di centinaia di metri rispetto al Tamigi, nella parte più a sud di Londra, i piani superiori rivolti verso il Palazzo di Westminster e il Big Ben. Ospitava diverse squadre operative e dipartimenti al servizio del distretto di Lambeth, con i suoi ventisette chilometri quadrati di sfide poliziesche: l’area di competenza spaziava verso nord dal London Eye a South Bank, passando per i club e i ristoranti di Vauxhall e Clapham, fino ai quartieri residenziali e dello shopping di Brixton e Streatham a sud.

    Charlie alzò lo sguardo verso le finestre cercando di individuare il proprio ufficio al quarto piano, poi controllò l’ora. La sua squadra ormai doveva essere già in riunione.

    Superò con un balzo la rastrelliera delle biciclette all’esterno del palazzo e nell’osservare il proprio riflesso sui vetri delle porte girevoli si rese conto di aver dimenticato ancora una volta di domare il ciuffo ribelle che le si rizzava sempre, come il corno di un rinoceronte, proprio in mezzo alla fronte. La mattina anche i capelli corti le davano del filo da torcere. Si scrutò con occhio critico. Semplice, ma aveva del potenziale; così almeno diceva sua madre. Altezza media e fisico atletico, con qualche chiletto da mascherare. Pelle chiara, ma piuttosto slavata; le avrebbe fatto bene qualche uscita all’aria aperta per un pizzico di esercizio e adrenalina. Quanto ai vestiti… spiegazzati, con i gomiti e le ginocchia sporchi per la zuffa con il furbetto della metropolitana. Nel complesso, doveva proprio ammettere di avere un aspetto malconcio perfino per i suoi standard.

    Fu assalita da un leggero sconforto. Maledizione, si sarebbe beccata un’altra ramanzina da Hunter, il suo capo. Si passò le mani tra i capelli nel vano tentativo di appiattire il ciuffo ostinato, dubitando che lui avrebbe chiuso un occhio sul suo aspetto, nemmeno se fosse stata il commissario della centrale di Lambeth.

    «Ah, detective Stafford, di nuovo in ritardo e con un bell’aspetto di merda. Mi fa comunque piacere che tu sia di nuovo fra noi, fresca fresca del corso per super fisionomisti. Dove ti eri cacciata? Ti stavamo aspettando tutti. O forse non ti sei accorta che sono già le 8:30 del mattino e non le 8?».

    Il detective capo Geoffrey Hunter non attese la sua risposta. «Okay, ora che finalmente siamo tutti qui, possiamo procedere». Enfatizzò le parole e Charlie arrossì per il tono sarcastico. Una bella lavata di capo di lunedì mattina davanti a tutti i colleghi non era certo il modo migliore di iniziare la settimana.

    «Mi dispiace, capo», azzardò.

    Lui la ignorò. «Nel corso del weekend abbiamo ricevuto delle nuove segnalazioni che vorrei assegnarvi. Una delle quali sembra promettente».

    Charlie tese le orecchie. Di rado arrivavano casi promettenti al suo dipartimento, a meno che Hunter non intendesse che promettevano grane. Lei faceva parte della Community Support Unit, l’unità di supporto alla comunità che costituiva una diramazione del

    CID

    , il dipartimento d’investigazione criminale, e solo nell’ultimo anno aveva scoperto l’ambizione di seguire le indagini sui reati gravi.

    Aveva sempre rinviato l’idea di diventare detective, prediligendo i più immediati crimini di strada e, dal momento che le accadevano spesso sotto il naso, si era rivelata bravissima.

    Il suo primo grosso arresto dopo l’addestramento a Hendon e l’assegnazione alla centrale di Charing Cross era stato quello di uno stupratore riconosciuto tramite un’elaborazione facciale digitale. Basandosi su poco più del proprio istinto e della somiglianza con il sospettato, lo aveva beccato in possesso di nastro adesivo, coltello e chiavi di una Vauxhall. Perlustrando poi le strade, aveva individuato l’automobile e rinvenuto fotografie e generalità di una donna che viveva nelle vicinanze. Aggravati i sospetti, si era precipitata a casa della stessa e aveva sfondato la porta a calci per trovarla legata e imbavagliata nel suo letto, ultima vittima di una serie di orribili aggressioni perpetrate dall’indiziato. L’angoscia psicologica della vittima l’aveva colpita profondamente. Ne aveva fatto una questione personale. Era rimasta accanto alla donna per tutto il corso delle indagini, determinata a rivendicare giustizia. Charlie sapeva bene cosa significasse subire un’ingiustizia. Proprio per quella ragione si era arruolata in polizia.

    Agli inizi era rimasta a Charing Cross perché amava l’adrenalina della strada, poi si era trasferita nel distretto di Lambeth, dove aveva continuato a crogiolarsi nei suoi successi. Era stata premiata con un corso avanzato di guida d’inseguimento e ora quello per super fisionomisti, introdotto di recente, e aveva ricevuto diverse offerte da parte di vari dipartimenti di polizia investigativa della Met che si occupavano di indagini relative a crimini e criminali seri.

    Dopo essere rimasta ferita in una sparatoria in un vicolo di Brixton, Charlie aveva deciso infatti che nella polizia investigativa avrebbe potuto fare davvero la differenza, così era tornata al centro di addestramento di Hendon, per ritrovare solo il guscio della scuola prestigiosa che era stata, con la maggior parte degli edifici e delle palazzine vuoti e abbandonati.

    Ne era riemersa con il titolo di detective ed era stata subito assegnata all’unità di supporto alla comunità, prima tappa per chiunque aspirasse al

    CID

    . Dopo quasi sei mesi, era ancora lì.

    Il suo reparto prendeva in carico le denunce di violenze nell’ambito domestico, razziale, religioso, dell’orientamento sessuale e della disabilità, ma Charlie aveva scoperto a poco a poco che si trattava del nucleo più rischioso e potenzialmente esplosivo di tutto il dipartimento investigativo. Un passo falso mentre lavoravi lì e la tua carriera finiva ancora prima di cominciare.

    «Qualcosa di interessante?», chiese.

    Sperava di uscire subito di pattuglia e, in tal caso, che Hunter andasse con lei. Sarà stato anche il capo, ma gli piaceva scendere in strada e aveva la fama di attirare l’azione.

    «Come dicevo», proseguì Hunter sforzandosi accuratamente di evitare il contatto visivo con lei. Era chiaro che si divertiva a farla sudare. «È un caso promettente. Una donna e suo figlio, scomparsi da venerdì, come ha denunciato il marito oggi. Niente di allarmante per ora, anche se lui sembra un bastardo schifoso. Il caso è in mano all’unità persone scomparse, ma ci hanno chiesto di dare un’occhiata, perché la coppia ha alle spalle una storia di violenze domestiche. Può darsi che la moglie sia rinsavita e abbia deciso di mollarlo, ma preoccupa che abbia lasciato a casa l’altro figlio».

    Hunter fece una pausa e stavolta la guardò dritto negli occhi.

    «Charlie, voglio che verifichi le notizie che abbiamo sulla coppia. Quante denunce di violenze domestiche, a quando risalgono la prima e l’ultima, se accennano ad aggressioni fisiche o minacce di aggressione. In tal caso, controlla se si sono aggravate di recente. È strano che una madre porti con sé un figlio e abbandoni l’altro, soprattutto se esistono precedenti di violenze».

    La squadrò da capo a piedi con aria critica, la faccia distorta in una smorfia di disappunto.

    «Una volta finite le ricerche, datti una sistemata e andremo insieme a trovare il marito».

    Charlie annuì, paonazza in viso.

    «C’è un ferro da stiro nel mio ufficio. Quando, e solo quando, ti reputerò in ordine come dico io, ci presenteremo al suo indirizzo e gli parleremo a quattr’occhi. Non vedo l’ora di prendere una boccata d’aria fresca e sentire di persona che cos’ha da dire, ma solo se avrai l’aspetto professionale di un ufficiale di polizia e non di un oggetto appena recuperato da una discarica».

    La squadrò con la stessa espressione che avrebbe riservato a un adolescente cocciuto, ma a lei non sfuggirono il luccichio bonario che aveva negli occhi e la lieve scrollata di capo quando Hunter girò sui tacchi.

    La porta si richiuse alle sue spalle e prima ancora che si fosse allontanato dalla portata d’orecchio, Paul si lasciò sfuggire una risatina sonora.

    «Charlotte Stafford. Ma ti sei vista?»

    «Ehi, non ti azzardare a chiamarmi Charlotte, solo mia madre ha il permesso di farlo. E solo se ha qualcosa da ridire».

    «Allora scommetto che ti chiama Charlotte di continuo!».

    La frecciatina la colse in contropiede ma solo per un secondo. Ripensava alla prima volta che qualcuno l’aveva ribattezzata Charlie, tanti anni prima su una spiaggia sabbiosa di West Wittering. Da allora quel nome le era rimasto appiccicato. Deglutì a fatica e si stampò un sorriso sulla faccia.

    «Può darsi», rispose e gli altri scoppiarono a ridere.

    Lavorava con altri cinque colleghi: Bet, Paul, Colin, Sabira e Naz, ma quel giorno le ultime due avevano il turno serale.

    Paul la cinse per le spalle in un gesto protettivo. «Be’, noi qui ti adoriamo tutti». Fece una pausa e le strinse il braccio. «Qualunque cosa dica quel brutto cattivo».

    Charlie rise. Paul scherzava, ma non le piaceva che definisse Hunter così. Il brutto cattivo era l’uomo che lei rispettava di più in assoluto. Non aveva mai conosciuto il vero padre e il patrigno non meritava il benché minimo rispetto. A parte alcuni colleghi con i quali lavorava attualmente, ben poche influenze maschili si erano guadagnate la sua stima. Tra tutti i capi che aveva avuto, Hunter era senza dubbio quello che ammirava di più.

    Era un cacciatore di nome e di fatto, nonostante avesse l’aspetto da preda più che da predatore. A trent’anni sembrava già un vecchio: basso, tarchiato, calvo e con l’incarnato rubicondo. Adesso che ne aveva cinquantasei, il suo corpo dimostrava finalmente la vera età.

    Charlie lo adorava, certo non in senso romantico, era abbastanza vecchio da poter essere suo padre. Ma Hunter rappresentava tutto ciò che lei aspirava a diventare: un leader impavido, un ufficiale di polizia instancabile e di sani principi e un imbattibile acchiappabanditi, con il valore aggiunto di essere sempre super organizzato e puntuale. Charlie sapeva che anche lui, dietro la facciata rigida, a suo modo le voleva bene, anche se non lo avrebbe ammesso neanche morto e la trattava come una scolaretta sulla cattiva strada.

    A giudicare dalla reazione di poco prima, tuttavia, si riteneva fortunata che alla fine avesse comunque assegnato a lei le ricerche preliminari.

    In ogni caso, Paul scherzava e basta. A volte era un vero rompiscatole dispettoso e Charlie sapeva che aveva notato il suo debole per Hunter. Gli bastava nominare il capo per vederla arrossire.

    Cinse il collega per la vita e ricambiò la stretta. Sapeva riconoscere d’istinto un amico, nemico o persona neutra nel giro di una ventina di minuti dal primo incontro, e Paul era decisamente un amico. Lui aveva la capacità di scorgere, sotto la corazza esteriore felice, sicura e indefessa che Charlie si era costruita, il suo animo insicuro e vulnerabile. Non ci riuscivano in molti, era piuttosto brava a recitare.

    Quella mattina Paul sembrava assonnato. Charlie lo aveva notato subito mentre Hunter parlava e lui sorseggiava piano la sua tazza di caffè fumante. Era specializzato nelle indagini legate alla sfera dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Di norma si presentava in abiti impeccabili, i capelli biondi e leggermente diradati impomatati con cura e la barba ben rifinita. Due grossi orecchini di diamante gli impreziosivano entrambi i lobi delle orecchie e la lingua ostentava un piercing dorato che tintinnava contro i denti quando era concentrato. A completare la sua immagine trendy e mondana, un paio di jeans, scarpe di marca e una camicia perfettamente stirata e abbottonata fino al colletto. Quel giorno, però, Paul aveva un’aria più disordinata che impeccabile.

    «Reduce da un weekend pesante, eh?».

    Lui si asciugò la fronte, affettando un’espressione indignata.

    «Non hai idea di cosa mi sia capitato sabato sera, Charlie. Ho incontrato l’uomo dei miei sogni, con dei piercing davvero favolosi sui capezzoli. Datti una sistemata e ti vuoto il sacco, per così dire».

    Charlie annuì. Tolse la giacca, tentò invano di lisciare le pieghe della camicia e dei pantaloni e si passò la mano tra i capelli per la terza volta.

    «Okay, sono sistemata».

    Bet alzò lo sguardo dal monitor del computer e scosse il capo.

    «Ma come sei messa, Charlie? Fila in bagno e bagnati quei capelli, poi mettiti il mio cappotto e dammi i tuoi vestiti. Te li stiro io. Non farti beccare ancora così dal capo o la prossima volta andrà davvero su tutte le furie. O peggio, ti lascerà a terra».

    Charlie obbedì al volo. Non voleva rimanere in ufficio né tantomeno mettersi a discutere con Bet, se l’alternativa era scendere in campo.

    Anche Bet era un’amica, aveva quasi il doppio dei suoi anni e le faceva più da seconda mamma che da collega. Era la più anziana dell’ufficio, sulla cinquantina, con il fisico a mela, i capelli folti e grigi, fumava come una turca ed era stata sposata quattro volte. Non c’era niente che non sapesse di violenze domestiche, per esperienza professionale e personale. I poliziotti erano volubili tanto quanto le persone comuni e nel corso della sua vita Bet aveva raccolto diverse mele marce.

    Charlie accese il computer mentre la collega si affaccendava con i suoi vestiti.

    Per qualche minuto alternò l’ascolto dello sfogo di Paul allo smaltimento di semplici richieste via e-mail, poi si rimise i vestiti freschi di stiro, nascosta tra il cappotto e il monitor del computer.

    Le rivelazioni del lunedì mattina si stavano ormai esaurendo. Charlie digitò il nome che Hunter le aveva lasciato sulla scrivania e osservò lo schermo riempirsi di risultati, di colpo ansiosa di procedere con l’incarico assegnato. Se il capo lo riteneva un caso promettente, doveva esserlo per forza. E sarebbe stata lei a dimostrargli di averci visto giusto.

    Capitolo tre

    Julie Hubbard, quarantadue anni, sposata una volta sola con Keith, era sparita con il figlio Richard, quattordici anni. L’altro figlio, Ryan, di quindici, era rimasto con il padre. Julie e Richard godevano entrambi di buona salute, nessuno dei due si era mai allontanato prima e nulla lasciava intendere che l’uno o l’altra presentasse disturbi mentali, istinti suicidi o avesse precedenti di autolesionismo.

    Charlie esaminò la denuncia della scomparsa. C’era una storia pregressa di violenze domestiche; l’avrebbe verificata a breve. Julie non aveva precedenti condanne, mentre Keith Hubbard era noto per aggressione, possesso di armi, risse e reati contro l’ordine pubblico. Si trattava senza dubbio di un individuo violento e irascibile. La moglie poteva benissimo averlo lasciato. Anzi, a leggere il rapporto, sembrava proprio la situazione famigliare tipica da giustificare la doppia sparizione.

    Altre teorie erano al vaglio. Forse Julie aveva prelevato Richard da scuola prima del previsto per una sorta di vacanza intesa a consolidare il rapporto tra madre e figlio. Dopotutto, mancavano solo due giorni alla chiusura per la Pasqua. Stavano contattando la scuola per avere conferma di un’eventuale comunicazione dell’assenza da parte sua.

    Charlie tornò con la mente alla propria infanzia. Sua madre, Meg, insisteva nel riservare a lei e alle due sorellastre Lucy e Beth delle giornate speciali individuali, da quando l’esistenza tranquilla della loro famiglia era implosa quel mercoledì di tanti anni prima. Charlie adorava quelle occasioni, tutta sola con la mamma, libera di scegliere le attività che preferiva. In un certo senso, le giornate saltuarie trascorse solo con Meg cancellavano in parte il suo senso di solitudine, ma non le avrebbero mai fatto smettere di odiare i mercoledì.

    Più rifletteva sulla teoria del legame tra madre e figlio, più la escludeva. Per lei era inconcepibile che Keith, o Ryan in particolare, non avessero idea della partenza dei due familiari. Ricordava bene quanta pena si fosse data Meg per assicurarsi che lei, Lucy e Beth fossero ben informate di ogni singola giornata speciale. Sua madre era sempre stata scrupolosamente equa e desiderava che fosse evidente. Non aveva preferenze tra loro. Entrambi i mariti l’avevano delusa, ma lei amava le tre figlie allo stesso modo, a prescindere dagli errori dei relativi padri. No, era del tutto fuori discussione che sua madre potesse partire per un weekend con una sola delle tre sorelle, o anche per un unico giorno, senza prima informare le altre. Sarebbe stato impensabile.

    D’un tratto Charlie provò un’incredibile tristezza. Andava ancora a trovare la madre e le sorelle con regolarità, ma negli ultimi tempi si erano allontanate. Lucy e Beth, nate dal secondo matrimonio di Meg, erano ancora adolescenti e vivevano nel Surrey, nella casa di famiglia, condividevano gli stessi gusti in fatto di musica, moda e ragazzi. Charlie invece si era trasferita in un appartamento in affitto a Clapham, più vicina al lavoro, e viveva da sola. Le mancavano molto la madre e le sorelle. Anche se distavano solo tre quarti

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