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Musica sull'abisso
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E-book368 pagine4 ore

Musica sull'abisso

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Info su questo ebook

Li ha uccisi nel corso degli anni. Uno dopo l'altro. Tutti allievi della stessa classe, tutti lo stesso giorno.
L'ultima volta che Gwendolina Nanni, giovane imprenditrice bolognese, è stata vista viva era mattina molto presto e come al solito stava correndo lungo gli argini del Bacchiglione prima di andare al lavoro. Il suo corpo è stato ritrovato molti giorni dopo in un’ansa del fi ume, ormai irriconoscibile. Il caso viene chiuso come suicidio dalla polizia locale. Ma i familiari non ci stanno e si rivolgono alla Sezione Omicidi di Bologna, dove è stata da poco trasferita l’ispettore Micol Medici. Le ricerche vertono attorno agli ex-studenti di un liceo storico bolognese, il Cicerone, dove si diploma la migliore gioventù della città. Ma c’è una classe del passato che ha avuto un destino infausto: uno dopo l’altro, anno dopo anno, stanno morendo tutti coloro che quindici anni prima sono stati compagni di classe. Tutti in circostanze sospette e tutti lo stesso giorno, il 21 febbraio. Cosa lega questi delitti? E com’è possibile che una canzone, scritta in latino e cantata da alcuni di loro, abbia previsto con anni di anticipo in che modo sarebbero morte le vittime?
Micol, con la sua abilità speciale legata ai suoi incubi notturni, cerca di scoprire la verità, muovendosi sullo sfondo di una città dove ogni torre e ogni portico sembrano nascondere qualcosa.
Dopo il successo delle Spose sepolte, primo caso dell’ispettore Micol Medici, Marilù Oliva ci presenta un thriller inquietante e attuale, una storia di sopraffazione e ferocia, che racconta quanto ciò che siamo oggi è il frutto di quello che abbiamo – o non abbiamo – ricevuto.
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2019
ISBN9788858999011
Musica sull'abisso
Autore

Marilù Oliva

Marilù Oliva Nata a Bologna, è scrittrice e insegna Lettere alle superiori. Autrice di due trilogie noir, ha vinto il Premio dei Lettori Scerbanenco con Questo libro non esiste (2016). Si occupa da sempre di questioni di genere. Ha curato le antologie Nessuna più – 40 autori contro il femminicidio e Il mestiere più antico del mondo?, entrambe patrocinate da Telefono Rosa. È caporedattrice di Libroguerriero.it e cura un blog su Huffington Post.

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    Anteprima del libro

    Musica sull'abisso - Marilù Oliva

    21 FEBBRAIO 2004 – LORENZO,

    MEZZ’ORA PRIMA DI SCOMPARIRE

    Se mia madre quel giorno avesse saputo che non mi avrebbe più rivisto, non mi avrebbe permesso di aprire l’uscio di casa.

    La conoscevo troppo bene. Mi avrebbe trattenuto e, se non l’avessi ascoltata, mi avrebbe legato stretto stretto, incatenato, perfino stordito. Prima ancora mi avrebbe implorato senza pudore, mi avrebbe scosso, avrebbe pianto, perché a me dispiaceva quando le lacrime le solcavano il viso: Non uscire di casa, ascolta la mamma, mi avrebbe detto con voce straziante. Salta la scuola, oggi. Se varcherai quella porta, non ci rivedremo più. Mai più.

    Cosa significa mai più? Cosa significa, per noi uomini fatti di dubbio e materia? Che non ci saremmo ritrovati più legati l’uno all’altra in quella dimensione, con le ore scandite dagli orologi, la terra da solcare coi piedi, coperti dalla stessa pelle. Che non avremmo mai più avuto modo di scoprirci come qui, di sorriderci, di abbracciarci.

    Se varcherai quella porta, non ci rivedremo più. Mai più.

    Così mi avrebbe detto.

    E io l’avrei presa per pazza. Ormai ero maggiorenne, alto un braccio più di lei. Fingevo di obbedirle quando mi imponeva le cose, ma sapevamo entrambi che io decidevo il bello e il cattivo tempo. Ero il suo principe, la sua ragione di vita. Le poche volte che mi sgridava, dal basso della sua fronte all’alto del mio mento, agguerrita per pochi minuti e rattrappita dalla scoliosi, io mantenevo la testa china e l’espressione mortificata, dispiaciuto come un gigante gentile.

    Non si può chiedere a una madre di sopportare una mancanza così.

    Se l’avesse saputo.

    Se avesse immaginato che quella mattina era l’ultima volta che il suo sguardo incrociava il mio, avrebbe sfidato il destino opponendosi a esso con tutte le forze pur di avermi ancora accanto, ogni giorno.

    Ma il futuro infausto non te lo svela nessuno, nessuno ti anticipa la combinazione terribile degli eventi: la impari dopo, quando già diviene irreparabile.

    I primi cinque mesi dopo la mia scomparsa, una frazione di lei non aveva perso la speranza che io tornassi. Quando svanisce la persona più preziosa al mondo, non smetti di aspettarla, anche se la coscienza cerca di convincerti che il tuo caro è morto: È trascorso troppo tempo, devi fartene una ragione. Soltanto così sopravviveva pur sentendosi in trappola, appesa ai lacci, nella stanza delle torture. Ma sapeva che io, se davvero fossi stato vivo, non avrei permesso che tra noi si frapponesse così tanto tempo. Avrei trovato il modo per raggiungerla o almeno per chiamarla e dirle: Mamma, ci sono ancora. Anche se non torno, ti penso spesso, sai? Non smettere di aspettarmi.

    Invece niente. La mia assenza la seviziava come una tenaglia infaticabile. Alle volte le frullavano in testa le ipotesi più inverosimili.

    E se mio figlio avesse perso la memoria e con essa l’identità?, si domandava all’inizio. Se qualche malintenzionato l’avesse trovato così, smarrito, in giro per le strade, senza meta, e gli avesse fatto del male? Magari, invece, l’ha portato all’estero… e ormai dove posso cercarlo?

    O se lo avessero rinchiuso in una segreta? In uno spazio angusto, in una cantina? Se gli avessero imposto la triste condizione subita dalla piccola Sandra Sandri, la bambina di San Lazzaro sparita quando aveva undici anni e tenuta prigioniera probabilmente da un gruppo di pedofili? Almeno così dicevano nel suo rione, ma di lei non è rimasta traccia e i sospettati non sono mai stati arrestati… Se Lorenzo non potesse, pur desiderandolo ardentemente, mettersi in contatto con me?

    Se lo era chiesta tutti i giorni, quei primi, atroci mesi. Una parte di lei la induceva a sperare, mentre l’altra le gridava che tutto, tutto, tutto era perduto. Saliva e scendeva le scale della nostra villetta, come in attesa che il campanello muto suonasse. Poi tornava ossessivamente all’ultimo giorno, riviveva i dettagli, le scansioni temporali. I presentimenti. Quel giorno lo aveva avvertito che qualcosa di lugubre si stava avvicinando.

    Io di solito rincasavo alle due e venti, lei attese fino alle tre prima di scoppiare di angoscia.

    Quando si erano fatte le due e trentacinque mi aveva chiamato ripetutamente. Il cellulare era spento, scattava la segreteria. Avete idea di cosa vuol dire ascoltare quella cantilena asettica e impostata al posto della confortante voce della persona che ami, in un momento come quello? Era come se qualcuno le stesse intasando la gola di ghiaccio.

    Alle tre mia madre aveva contattato James, il mio amico di sempre, quello con cui facevo la strada per andare al liceo, il ragazzo che ogni giorno veniva a trovarmi, dopo i compiti. Frequentava casa nostra come se fosse una sorta di cugino e delle volte si portava dietro il fratellino.

    Ma James non mi aveva visto.

    «Come non l’hai visto? Stamattina non avete preso l’autobus insieme per andare a scuola, come sempre?»

    «Oggi era sciopero, molti di noi non sono andati a scuola.»

    «Non mi ha detto niente… Cos’è questa storia dello sciopero? Sono gli insegnanti che devono decidere se scioperare o meno, non voi.»

    «Sì, è vero, però siccome raramente si fa lezione quando c’è sciopero, stavolta abbiamo deciso in massa di non andare a scuola.»

    Perché non le avevo detto dello sciopero? si era domandata mia madre, masticando l’ansia.

    Aveva poi pensato e ripensato all’ultima volta che mi aveva visto, quella mattina. Avevo fatto colazione alla mia maniera vorace, inzuppando le fette di torta nel latte, ingurgitandole in due bocconi. Mi preparava una torta un giorno sì e due no e io la finivo puntualmente. Le sue buonissime torte. Quella mattina ero assonnato, ma mi ero sforzato di seguire il telegiornale, ci tenevo a sapere cosa accadeva nel mondo, almeno da quando alla fine della seconda liceo era arrivato un prof nuovo di storia: il mio idolo, Tiziano Viccardi, che ci aveva spiegato quanto fosse fondamentale informarsi. Mia madre ricordava ogni servizio trasmesso quella mattina. Ricordava i miei occhi pieni di sonno e il bacio distratto che le avevo stampato sulla guancia prima di dileguarmi nel nulla.

    Un minuto dopo le tre il ronzio all’orecchio era divenuto un presagio che tormentava il cuore, grattandolo senza sosta come un’unghia di gatto. James non le era stato d’aiuto: «Quindi non sai dove sia, non l’hai sentito?».

    «No, mi dispiace. Ma cos’è successo?»

    Mamma, mammina cara. Se tu potessi tornare indietro, a quel giorno maledetto, all’istante prima che io aprissi la porta, tu mi raggiungeresti con l’affanno. Mi terresti stretto per il braccio e mi ripeteresti allo sfinimento quanto mi ami. Poi mi diresti: Qualsiasi cosa capiti, la mamma sarà dalla tua parte. Risolveremo tutto insieme, c’è sempre una soluzione. Io e te ci siamo fatti coraggio da quando papà ha avuto la rottura dell’aneurisma cerebrale ed è bloccato a letto, io lo assisto come un bambino, tu mi aiuti ad alzarlo e a curarlo, quando te lo chiedo. Che vuoi che siano gli altri problemi? Posso aiutarti a sistemare ogni cosa. Ma stamattina, ti prego: non uscire da quella porta.

    Questo mi avrebbe detto, la mia cara mamma.

    Eppure io non l’avrei ascoltata.

    I

    L’ispettore Micol Medici stava rientrando da Monterocca con lo sguardo di chi sembra sulle nuvole e non vuole rinunciare a gustarsi una piccola porzione di felicità. La provinciale collinare che conduceva a Bologna era intasata e la musica a volume considerevole che accompagnava la voce densa di Soha – Mil pasos, trasmesso alla radio – stava sortendo l’effetto di un flauto incantatore. Micol non era in ritardo ma, se il traffico non si fosse smaltito, non sarebbe mai arrivata puntuale.

    Si fermò a uno dei tanti semafori rossi. Sua madre, Donatella, la prendeva in giro, diceva che lo faceva apposta ad arrivare agli incroci quando era scattato l’arancione. In realtà la madre non c’era mai, al suo fianco di guidatrice, le tante volte in cui Micol passava col verde.

    Strane coincidenze.

    Micol abbassò il volume e ripensò a Roven. Il weekend era stato ristoratore, di quelli che ti regalano almeno tre giorni di benessere. Monterocca era un altro mondo, aria buona, uno spettacolo di alture innevate a incoronare quell’incanto di febbraio, cibo genuino che conservava i sapori, acqua fresca di sorgente e poi… e poi c’era lui. Era stato tutto così fulmineo, con Roven. L’aveva conosciuto durante la sua ultima indagine: Roven era un valente ricercatore dell’azienda farmaceutica lì ubicata. Di origini albanesi, corretto, puntuale, gentile, premuroso ma non servile, ottimo conversatore – aveva sempre qualcosa di interessante da aggiungere – e, dettaglio non irrinunciabile ma che non guasta, fisicamente notevole.

    Scattò il verde. Micol ripartì con gli occhi ancora trasognati, avvicinandosi sempre più alla città, fino a toccare la pianura. Lì, della neve, era rimasta soltanto fanghiglia. L’ispettore tornò col pensiero al suo ricercatore. Finalmente un compagno con cui non bisogna consumarsi in sterili discussioni. Una persona con i tuoi stessi ritmi, gusti affini, un partner che ti cerca con lo stupore negli occhi. Almeno per il momento. L’aveva condotta a esplorare i boschi sovrastanti il lago, facendola tornare alla Rocca che dava il nome al Comune: un rudere medievale di cui restava più suggestione che gloria. Proprio davanti a quel mezzo monumento minuscolo e scalcagnato, preda dei rampicanti ma pur sempre ammantato del fascino del passato, lui le aveva proposto di fare, in estate, una vacanza in qualche località nel mondo scelta da lei. Micol aveva avuto la sensazione di non aver mai provato quel tipo di incastro con un uomo.

    Il traffico si intensificò e Micol valutò che, se non si fosse snellito entro i successivi tre chilometri, avrebbe dovuto avvisare la Questura del ritardo. Lanciò un’occhiata al navigatore per controllare l’orario, e in quell’istante sua madre la chiamò al cellulare. Micol rispose mettendosi al volo un auricolare.

    «Dove sei?»

    «Ho passato Rastignano.»

    «Sei sola? Cosa fai?» Sempre toni indagatori, lei.

    «Guido, tu?»

    «Sto preparando le collane nuove.»

    Si era messa a maneggiare pietre preziose e cristalli: da quando aveva conosciuto quella strana erborista di Monterocca che si faceva chiamare la Circassa, sua madre si era fissata con i rimedi naturali: all’inizio aveva frequentato diversi corsi intensivi, poi aveva creato attorno a sé un vero e proprio giro di affari di cristalloterapia in cui coinvolgeva amiche, vicine di casa, parrucchiera e conoscenti. Aveva deciso di aprire un’attività proprio con la Circassa: una sorta di negozio magico in cui l’amica si sarebbe occupata di erboristeria e lei di cristalli. Col tempo, le due arti sarebbero state intercambiabili.

    «Micol, mi hai comprato la frutta buona?»

    «Sì.»

    «Bene. Quando me la porti?»

    «Non lo so mamma, devo correre in commissariato.»

    «Non riesci a passare un attimo da casa mia?»

    «Adesso proprio no, c’è un gran traffico e sono quasi in ritardo.»

    «Soltanto un secondo, non sali nemmeno: scendo io, ti aspetto davanti al portone del palazzo e mi passi il sacchetto al volo.»

    «Non ce la faccio, davvero.»

    «Come non ce la fai? Sono sulla strada…»

    Nessuno sapeva essere insistente come lei. Era così caparbia che spesso la gente, anche solo per ripicca, le diveniva ostile. Non Micol che, se avesse potuto, avrebbe sempre voluto farla contenta. Cercò un tono di voce che dissimulasse l’irritazione, dovuta anche all’ennesimo semaforo rosso.

    «Mamma, non sei proprio sulla strada. Adesso ti devo salutare, ci vediamo stasera.»

    «Ceniamo assieme?»

    «No, ho un appuntamento.»

    «E quando mi porti la frutta, dopo cena? Con chi è l’appuntamento?»

    «Mamma…»

    Di nuovo scattò il verde e Micol fece un sospiro di sollievo nel vedere che via Toscana si stava liberando. Ai due lati facevano da cornice piccoli palazzi dai colori tenui risalenti agli anni Settanta, alti quanto i fili del tram.

    «Non puoi dirmi con chi esci? Lo conosco?»

    «Dai, mamma. Adesso ti devo proprio salutare, ciao.»

    Ogni volta chiudeva bruscamente la comunicazione. Era l’unico modo per svincolarsi. Era difficile sfuggire da sua madre, la avvinghiava coi suoi tentacoli da quando suo padre se ne era andato, ovvero da sempre.

    Certo, un giorno, se la relazione con Roven fosse diventata seria, avrebbe dovuto anche parlargliene. Per ora rimandava quel momento nell’intento di salvarsi dalla marea di domande che ne sarebbero immancabilmente seguite.

    Micol arrivò in Questura alle nove precise ed entrò soddisfatta per la sua puntualità. Aveva ottenuto il trasferimento alla Squadra Mobile presentando domanda, ed era stata accolta a braccia aperte dal dirigente della Sezione Omicidi, entusiasta di come lei avesse contribuito, qualche mese prima, a risolvere in maniera significativa un caso molto triste e complicato, quello detto delle Spose Sepolte. Il vicequestore Giuseppe D’Aquila era un cinquantacinquenne alto e moro. Quando lo aveva visto per la prima volta, Micol si era domandata se si tingesse i capelli, non ne aveva nemmeno uno bianco. Di origini romagnole, era celebre perché spesso coloriva le frasi con slang regionale. Era un single impenitente, si diceva che gli piacessero le belle donne, ma non mischiava le passioni col lavoro: le donne prediligeva abbordarle altrove, trentenni dal fisico mozzafiato, appassionate a letto e poco impegnative, nel senso che non dovevano costruirsi strani castelli di sabbia su un eventuale futuro insieme. Solo cenette, sesso, divertimento. Ogni tanto però anche lui cascava male. In Questura circolava il gossip di un’avvocatessa, divenuta sua stalker, che lo seguiva tutte le mattine e si piazzava nel bar di fronte pur di monitorarlo da lontano. Ma era una vecchia storia.

    Micol comunque era guardinga con tutti. Il più simpatico le sembrava un agente scelto, Ivo Tiberio Ginevra, un ventottenne palermitano dalle spalle larghe e dalla battuta pronta con gli altri sodali – ma con lei manteneva un’estrema deferenza – e dall’aspetto tipico che hanno i siciliani il cui sangue è intinto con quello normanno: capelli tendenti al biondo, occhi chiari. Micol trovava piacevole quell’accento spinto del Sud che la catapultava in un lontano viaggio in Sicilia, molti anni prima.

    Poi c’era il commissario Attila Tarantola che di unno, almeno fisicamente, aveva poco. Poco più di un metro e sessanta, ovvero alto all’incirca quanto Micol, i capelli scomposti e radi, non vantava un aspetto prestante, si inceppava nella camminata per via di un difetto alla gamba e fumava una sigaretta dietro l’altra, anche in ufficio, tanto nessuno gli diceva nulla. L’unico che avrebbe potuto rimproverarlo era il dottor D’Aquila, ma non interveniva. Tarantola era una celebrità, in polizia, perché ogni tanto andava ospite in televisione in virtù della sua amicizia di lunga data con un noto dirigente dell’FBI: si vociferava che fosse stato proprio lui a introdurre in Italia alcune tecniche di investigazione come il BPA – Bloodstain Pattern Analysis – e la sensazione, al suo fianco, era quella di trovarsi in prossimità di una persona ingombrante ma rispettata da tutti. Micol, comunque, con lui stava prendendo le misure.

    Il vero tasto dolente, per la giovane poliziotta, era piuttosto la presenza di Antonio Iacobacci che, senza dire niente a nessuno, aveva avuto la medesima idea di trasferirsi e aveva preparato in sordina la domanda. Iacobacci. Proprio lui. Il poliziotto più maschilista e cafone che avesse incontrato. Quasi Micol non ci aveva creduto, quando se l’era rivisto davanti anche alla Omicidi. E proprio a lei l’avevano assegnato! Ho pensato di mettervi fianco a fianco, visto che avete già lavorato insieme, aveva commentato D’Aquila, forse convinto di fare cosa gradita. E Micol muta, ma dentro… che nervoso. Era così contenta, quando aveva ricevuto la notizia del trasferimento, all’idea di essersene liberata! E invece… Era sicura di non piacergli affatto: quante volte lui ne aveva approfittato per esternarle la sua avversione, la sua scarsa considerazione di lei, arrivando perfino a ignorarla nonostante tra i due l’ispettore fosse Micol e lui, da sovrintendente, avrebbe dovuto seguire i suoi ordini. La ragazza si ripromise di mandar giù il boccone amaro. Del resto qualche rogna, nella vita, bisogna metterla in conto.

    Il commissario Tarantola, che solitamente giungeva con calma, quella mattina l’attendeva con impazienza. Le andò incontro zoppicando e, come spesso faceva, fissò la cicatrice che dalla parte bassa della guancia le arrivava fino al mento: «Ti stavo per chiamare».

    «Sono le nove adesso…» rispose lei togliendosi il chiodo invernale – ne aveva due, entrambi neri consunti, uno imbottito per il freddo e uno, più leggero, per la primavera – e lo sistemò a fatica sulla montagna di giacconi che intasavano l’attaccapanni.

    «Sì, lo so. Però oggi sono venuto prima, perché volevo valutare con te una storia un po’ strana. Vieni di là da D’Aquila.»

    Il giubbotto stramazzò a terra e lei lo recuperò. Se lo avesse nuovamente messo lì sopra sarebbe caduto ancora; se lo adagiò sul braccio e si diresse nell’ufficio del vicequestore, non prima di lanciare, di passaggio, il chiodo sulla sedia dell’ufficio che condivideva con alcuni colleghi. Lei e Tarantola si accomodarono una di fianco all’altro alla scrivania del dottor D’Aquila, che convocò al telefono il sovrintendente Antonio Iacobacci e l’agente scelto Ivo Tiberio Ginevra. Questi li raggiunsero trenta secondi dopo e si sedettero. D’Aquila cominciò: «L’anno scorso, a marzo, una certa Gwendalina Nanni, bolognese di trentadue anni, è stata rinvenuta in un’ansa del Bacchiglione. Il mese prima, a febbraio, la famiglia ne aveva denunciato la scomparsa. I sommozzatori l’hanno recuperata e… Fata roba!» e voltò una foto verso i presenti, stampata in formato A4.

    Il cadavere presentava i classici segni di un corpo rimasto parecchi giorni in acqua, in balia della morte. Tumido e macerato, volto deformato, occhi sporgenti quasi fuori dalle orbite, lingua gonfia che si era fatta protuberanza oltre le labbra a canotto. Sotto ogni zigomo era come se si nascondesse una pallina da ping-pong, il che conferiva alla salma un’aria quasi caricaturale. I globi oculari sembravano sul punto di scoppiare e le iridi avevano assunto uno strano colore vitreo, conferendo all’espressione orrore puro: come se quella giovane donna, sul punto di morire, avesse fatto l’incontro più terrificante della sua vita.

    II

    Tarantola non staccò lo sguardo dalla foto, mentre si accendeva una sigaretta: «Quanti giorni ci è rimasta?».

    «A occhio e croce hanno detto dai dieci giorni ai due mesi» rispose D’Aquila.

    «Segni di lesione?»

    «Qualche escoriazione, ma compatibile con la permanenza in acqua, potrebbe aver sbattuto contro il fondale o contro qualche roccia.»

    Tutti lo guardarono in attesa della rivelazione. Lui stese le braccia come se dovesse sistemare i polsini della camicia. Gli piaceva venire ogni giorno al lavoro in jeans, camicia e giacca. Riprese: «La sorella di questa ragazza è stata qui poco fa e, credetemi: non sembrava una mitomane, non ha precedenti penali. Si è rivolta a noi adesso perché i colleghi di Padova hanno appena chiuso il caso come suicidio. I familiari negano che lei possa essersi uccisa. Aveva amici, un uomo con cui intratteneva una mezza relazione, anche se lui era sposato, un bel lavoro che le piaceva. Per quello si era trasferita a Padova, dove poi è stato rinvenuto il suo corpo».

    «Di cosa si occupava?»

    «Ciò, era direttrice della filiale padovana dell’azienda paterna di vini.» Ciò, il vicequestore bello e incapace di innamorarsi intercalava spesso le frasi con questa parola che trasudava le sue origini riminesi e di cui nessuno capiva il significato preciso. «Sua sorella, Smeralda Nanni, è arrivata qui a nome della famiglia, dichiarando che non è possibile che Gwendalina si sia suicidata. Secondo lei è stata uccisa. Non sa da chi, ma non è questo il punto. La Nanni sostiene inoltre che lo stesso omicida che ha fatto fuori sua sorella abbia ucciso anche altre persone, e non solo residenti a Bologna, di cui mi ha dato nome e cognome. Dice che i colleghi di Padova non le hanno dato ascolto. Se davvero fosse così sarebbe un fottutissimo caso che brucia, ragazzi.»

    «Aspetti, aspetti…» si inserì Iacobacci «Secondo questa tizia ci sarebbero diverse vittime in giro per l’Italia, accomunate da un filo conduttore?»

    «Sì. I nomi che mi ha dato coincidono con quelli di persone decedute in circostanze particolari. Non solo: si tratta di casi che non abbiamo mai collegato. Ciò, mettiamo in conto la possibilità che la tipa non sia una pazza. Se quello che afferma è vero, abbiamo a che fare con un serial killer che ha fatto fuori un bel po’ di gente.»

    Tarantola ironizzò, senza curarsi di buttare il fumo quasi in faccia a Micol: «Le persone hanno una passione malata per i serial killer».

    «Quello che ho pensato io, almeno all’inizio» lo appoggiò D’Aquila.

    «Infilano i serial killer nei film e in troppi libri. Metterebbero i serial killer anche nell’insalata, se potessero» borbottò Tarantola.

    D’Aquila sorrise. Tarantola lo rispettava perché era uno da vivi e lascia vivere, ma soprattutto perché non si era mai lamentato che lui fumasse.

    «Quanti serial killer abbiamo avuto in Italia? Le dita delle mani sono troppe per contarli.»

    «Sai che sono d’accordo con te, Attila» rispose lui «Però stavolta qualcosa non quadra. Quello che mi ha detto la Nanni non è completamente campato per aria. Certo: ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a una persona un po’ ossessionata dalla storia che mi stava raccontando, ma sincera. Da quello che ho controllato, c’è un fondo di verità nelle sue parole. Dobbiamo soltanto capire fino a che punto. Ecco, le cose starebbero così: c’è una classe maledetta. Una quinta superiore del liceo Marco Tullio Cicerone, di cui sono già morte otto persone.»

    Il liceo Marco Tullio Cicerone, detto semplicemente liceo Cicerone. L’istituto più antico della città, fondato all’inizio del secolo scorso, luogo di formazione di gioventù rampante, di rilevanti personalità politiche ed eminenze culturali. Il sovrintendente Iacobacci domandò: «E cosa c’è di strano? Anche mio nonno è l’unico sopravvissuto della sua classe di ragioneria».

    «C’è di strano che tuo nonno avrà quasi novant’anni anni, ciò. Mentre gli allievi di questa classe ne hanno trentatré, trentaquattro e sono morti dai diciotto anni in avanti» rispose lui.

    Micol sbarrò gli occhi. Trentatré anni… come lei. Troppo giovani per morire tutti casualmente. Domandò: «Otto morti su una classe di… quanti allievi?».

    «La sorella non ricordava il numero preciso, comunque non era una classe numerosa.»

    «Tutti assassinati?»

    «No. Ad esempio, oltre agli otto deceduti, c’è uno scomparso. Ricordate il caso di Lorenzo Bentivogli?»

    Micol ebbe un flashback. Quel diciannovenne sparito una mattina in cui a scuola c’era uno sciopero dei docenti, e nessuno aveva mai scoperto dove fosse finito. La storia aveva scioccato la città e la provincia. La madre era andata in televisione con la tristezza negli occhi a lanciare appelli. Aveva tappezzato i pilastri dei portici con i manifesti del figlio: lui con lo zaino sulle spalle, gli occhi azzurri, bellissimo, l’aria da sportivo, il sorriso lusingato di chi è abituato a ricevere amore da tante ragazze senza darne troppo in cambio.

    «Certo che ricordo» commentò l’ispettore «Ne rimanemmo tutti scossi. Ma… gli altri otto compagni di classe?»

    «Si tratta di persone che da adolescenti risiedevano a Bologna o qui vicino e sono venute a mancare da giovani. È seguito un altro caso strano, in quella classe, mi ha raccontato sempre la Nanni: un altro compagno, Cristoforo Vannetti, è impazzito dopo aver assunto un mix di droghe. Troppi eventi infausti. Bisognerebbe andare a controllare negli archivi della scuola, ci pensate voi, Micol e Antonio?»

    Loro annuirono poco convinti, ben sapendo che avrebbero trovato una scusa per disobbedire all’ordine.

    D’Aquila non aveva chiesto nulla al commissario Tarantola. Lui, come al solito, avrebbe diretto le operazioni dalla centrale. Il fatto di essere considerato un duro, in polizia, rendeva autorevole il suo parere. L’andatura zoppicante, poi, stimolava l’istinto di protezione. Lui sapeva di poter godere di una posizione privilegiata, ragion per cui si azzardava a dare del tu al vicequestore e faceva spesso trapelare la sua disapprovazione, mascherandola d’ironia col fumo denso delle sua boccate: «E chi sono quei cervelloni che non si sono mai accorti di questa singolare coincidenza?».

    «Credo che siamo noi: il liceo Cicerone è qui dietro.»

    Tutti si girarono verso Tarantola, per scorgere nel suo volto un velo di imbarazzo che non comparve. D’Aquila proseguì: «Ciò, abbiamo una giustificazione se qualche patacca ci punta il dito addosso: non ce ne siamo accorti perché gli ex allievi sono morti nel corso degli anni, in maniera diversa. Non sembravano omicidi e mancavano gli estremi per sospettarlo».

    Micol avvertì il cellulare vibrare. Scommise che fosse una chiamata di sua madre e, sbirciando il display, ne ebbe la conferma. D’Aquila proseguì: «Due mesi dopo la scomparsa di Lorenzo Bentivogli, la classe è andata in gita in Polonia e lì è avvenuto un brutto incidente: una ragazza è morta precipitando dal balcone della sua stanza, al settimo piano. Poi il migliore amico di Lorenzo, il ragazzo scomparso, si è impiccato…».

    Micol riesumò dalla memoria anche quella

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