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Ecovillaggi e Cohousing: Dove sono, chi li anima, come farne parte o realizzarne di nuovi
Ecovillaggi e Cohousing: Dove sono, chi li anima, come farne parte o realizzarne di nuovi
Ecovillaggi e Cohousing: Dove sono, chi li anima, come farne parte o realizzarne di nuovi
E-book340 pagine3 ore

Ecovillaggi e Cohousing: Dove sono, chi li anima, come farne parte o realizzarne di nuovi

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Info su questo ebook

Sono sempre più numerosi giovani e meno giovani che decidono di andare a vivere in un cohousing o in un ecovillaggio, una scelta dettata non solo da motivi economici (vivere insieme costa decisamente meno), ma anche dal crescente bisogno di uno stile di vita sobrio e a basso impatto ambientale, basato su relazioni autentiche e di solidarietà. Il panorama delle esperienze comunitarie, in Italia e all'estero, è assai ricco e variegato. Sempre più spesso si riconosce il valore sociale oltre che ambientale del vivere insieme, tanto che anche in Italia sono in crescita le amministrazioni locali che promuovono bandi per l'assegnazione di terreni o edifici destinati al cosiddetto housing sociale; è successo in Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna e altrove. L'autrice racconta la storia e soprattutto il presente di ecovillaggi e cohousing già attivi in Italia, dei numerosi progetti in via di realizzazione e aperti a nuove adesioni, e delle esperienze internazionali più significative. Quella che emerge è una mappa completa e variegata, utile per chi vuole approfondire una tematica ancora poco conosciuta oppure per chi ha già avviato una riflessione e un percorso, e che nel libro può trovare suggestioni, stimoli e contatti per proseguire il proprio cammino.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2015
ISBN9788866811008
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    Anteprima del libro

    Ecovillaggi e Cohousing - Francesca Guidotti

    Ecovillaggio o cohousing?

    di Francesca Guidotti

    Molto spesso i termini ecovillaggio e cohousing vengono confusi e utilizzati in maniera intercambiabile, quasi fossero sinonimi. In realtà, i due fenomeni presentano fondamentali differenze e solo in alcuni casi particolari possono sfumare l’uno nell’altro.

    La differenza forse più evidente è nella scelta di ubicazione geografica: l’ecovillaggio sorge prevalentemente in aree rurali, a bassa densità abitativa, dove la possibilità di stabilire uno stretto rapporto con la natura e la terra rappresenta uno degli aspetti di maggiore attrattiva. Esistono comunque alcune eccezioni, come il Los Angeles ecovillage1, che si trova in mezzo alla città. Il cohousing ha invece come proprio ambiente naturale il contesto urbano, principalmente le grandi città, dove lugubri palazzine anonime hanno nel tempo fatto sorgere nei condòmini la voglia di riappropriarsi degli spazi, dell’abitare la propria casa, eludendo l’opacità dell’anomia. La riscoperta del luogo dove si abita e delle proprie radici, la rinascita del senso di appartenenza, sono solo alcuni dei motivi che risvegliano le persone da un’assopita presenza nelle città. Questo non significa che chi vive in un cohousing trascuri il rapporto con la terra e la natura, ma nella maggior parte dei casi questo non è il focus principale oppure assume differenti forme di resistenza verde creativa, come orti sul balcone, orti sociali urbani o attacchi di guerrilla gardening2.

    Altro fattore fondamentale è il grado di condivisione, relazionale e materiale, che si stabilisce fra le parti coinvolte: un ecovillaggio è una comunità che condivide una scelta e uno stile di vita, un modus operandi quotidiano che esprime i principi cui aderiscono tutti i suoi membri e che permette il raggiungimento di obiettivi comuni. In ragione di tali obiettivi, costoro sono disposti a mettere in comune almeno in parte l’economia personale, il proprio tempo e il proprio lavoro, oltre a condividere la maggior parte dei pasti. Nell’ecovillaggio è indispensabile un alto grado di coinvolgimento degli abitanti nei momenti di confronto e nelle decisioni che ne derivano, per tutto il tempo di permanenza nella comunità; i membri di un cohousing, una volta assegnate le abitazioni e stabilite le regole di massima per una pacifica convivenza, possono anche scegliere di riunirsi occasionalmente e solo per motivi particolari, se fare o meno attività insieme, se avviare un’attività lavorativa condivisa.

    Il grado d’indipendenza e di autonomia economica, lavorativa, familiare, sociale e politica dal resto del gruppo è maggiore nel cohousing, ed è proprio per questa sua caratteristica, grazie a cui la privacy è maggiormente tutelata, che ha ottenuto importanti adesioni sia in contesti privati che pubblici (come social housing, condomini solidali e progetti abitativi per le fasce sociali deboli).

    Spesso accade che tra i membri fondatori di un cohousing siano presenti professionisti in grado di aiutare il gruppo nella fase di start-up del progetto, così come alcuni di loro possono già aver condiviso un’esperienza nei GAS o in associazioni non profit. L’avvio di un progetto si deve a chi mette a disposizione la propria casa oppure crea un gruppo con un background comune. In ogni esperienza è presente almeno uno di questi aspetti: la progettazione partecipata, un lavoro di gruppo sulla comunicazione (in cui è sempre più spesso coinvolta la facilitazione e il consenso) e l’autocostruzione. Alcuni gruppi di cohousers si sono costituiti in cooperativa, altri si rivolgono alle imprese costruttrici con un progetto predefinito. Non è un caso che molti progettisti e professionisti del settore edile e della comunicazione abbiano manifestato interesse verso il cohousing avviando progetti di grandi dimensioni: ne sono un esempio l’agenzia per l’innovazione sociale Innosense partnership e il Dipartimento Indaco del Politecnico di Milano, che insieme hanno portato a buon fine alcuni progetti di cohousing a Milano, come Urban Village Bovisa e Cosycho3.

    Il coinvolgimento del mondo imprenditoriale può accadere anche nel mondo degli ecovillaggi, come nel caso dell’Ecovillaggio Solare in Umbria, pensato dalla Libera Università di Alcatraz e promosso da Iacopo Fo. Questo progetto di ampia dimensione territoriale prevede la presenza di più unità immobiliari (per questo villaggio) predisposte per accogliere le attività lavorative dei futuri abitanti, oltre a una serie di servizi in comune. Un’esperienza nata dall’unione di consapevolezza ecologica (per questo eco) e di logica imprenditoriale, il che solleva non pochi interrogativi nel dibattito sulla definizione di ecovillaggio4.

    Sul piano etimologico, la parola ecovillaggio è composta da altre due: ecologico e villaggio. Se sul significato del primo termine siamo tutti d’accordo, è su villaggio che casca l’asino. Villaggio come insieme di abitazioni e di attività commerciali, sociali, lavorative e ludico-ricreative autonome, oppure villaggio inteso come comunità la cui esistenza non può prescindere da un ideale e da un percorso definito insieme? Infatti, c’è chi sostiene che prevedere spazi condivisi non sia sufficiente a creare una comunità.

    L’interrogativo coinvolge anche il mondo dei cohousers: può una diversa struttura architettonica essere condizione sufficiente per fare comunità? Più in generale, può questa organizzazione contribuire a un radicale cambiamento nella società e negli stili di vita?

    Esistono studiosi di antropologia ambientale, urbanistica e architettura, sociologia e altre discipline che concordano sul fatto che l’ambiente dove siamo nati e quello dove viviamo influenzano profondamente la nostra cultura e l’identità di ogni essere umano5. Ritengo che costruire con criteri ecologici e dare spazio alla convivialità e all’ecologia aiutino un numero crescente di persone a maturare una cultura più sensibile verso la natura e gli altri esseri umani, oltre a migliorare la qualità della vita.

    Ma la soluzione abitativa non è condizione sufficiente. Oltre a quella, è necessario attivare un processo di cura delle relazioni sociali e di adozione di buone abitudini. Sottovalutare il ruolo delle relazioni umane rischia di ricreare condomini identici a quelli attuali, con la sola differenza di possedere un bellissimo impianto a risparmio energetico. In passato, in questi piccoli agglomerati rurali vigevano norme e consuetudini derivate da un credo religioso, dai legami familiari, da ideali politici o semplicemente dalle necessità economiche. Buone o cattive che fossero, queste regole implicite tenevano unite le persone e legate alla propria casa, al proprio nucleo sociale, al proprio territorio. Oggi il senso di appartenenza, soprattutto di tipo tradizionale, è in declino. Eppure è un aspetto fondamentale dell’esistenza umana, ed è necessario formulare nuovi patti di convivenza, capaci di soddisfare il nostro bisogno di riconoscerci in una comunità senza che questo ci venga imposto, ma come scelta consapevole. Per questo che quando si parla di ecovillaggio bisogna tenere in mente un’altra parolina magica: intenzionale.

    L’ecovillaggio è una comunità intenzionale, dove l’intenzionalità rappresenta la consapevolezza di scegliere un modus vivendi da condividere con altre persone. Un substrato culturale, espresso e sottoscritto, su cui si radicano l’identità e la sperimentazione sociale del progetto. E poiché il progetto è condiviso da molte persone, tutti i membri partecipano alla pari e sono nella stessa misura coinvolti nelle attività e nelle decisioni che lo riguardano.

    Forse solo questa forma di partecipazione può aspirare alla realizzazione di un mondo diverso, dove l’abitare ecologico è il mezzo per testimoniare la riappropriazione dei luoghi, non solo come spazi, ma come dimensione sociale. Come l’ecovillaggio, anche il cohousing ha in sé un grande potenziale culturale. Nella mia esperienza ho potuto constatare che nelle esperienze dal basso si crea spontaneamente una comunità intenzionale, che si rivela attraverso la socialità e la collaborazione intergenerazionale, la diffusione di idee e la solidarietà vicinale. Questa dimensione, indirettamente, genera anche protezione sociale: conoscere chi abbiamo accanto e cosa accade intorno a noi aiuta a prevenire eventi spiacevoli e a ostacolare ogni forma di violenza. La fiducia tra i membri della comunità fornisce un supporto alle famiglie che si prendono cura di parenti svantaggiati o affetti da malattie, normalmente ai margini dalla società e affidati ad aziende del terzo settore, non sempre adeguate. L’ecovillaggio, come un cohousing dove è stato intrapreso il percorso comunitario, fornisce un ambiente dinamico e stimolante: ha la potenzialità d’innescare un circolo virtuoso che coinvolga la popolazione circostante e le pubbliche amministrazioni, che possono trovare in esso valide risposte.

    Se le caratteristiche sopra elencate non fossero di nostro interesse, è meglio smettere di cementificare aree verdi con la scusa delle costruzioni ecologiche e limitarsi a riedificare aree dismesse. Infatti, se erigere nuovi palazzi è propedeutico a un cambiamento a 360° nella vita dei loro futuri abitanti, allora nel bilancio ecologico può valere la pena farlo; se le finalità sono altre, ripensiamoci, perché stiamo solo consumando suolo.

    1 Per informazioni: http://laecovillage.org.

    2 Guerrilla gardening è un’azione spontanea ad opera di cittadini che, in un pomeriggio o in una notte, armati di terriccio e piante, riqualificano piccole aree verdi abbandonate, restituendo loro un aspetto più gradevole e sicuramente più pulito. Ulteriori informazioni: www.guerrillagardening.it.

    3 Vedi www.cohousing.it.

    4 In maniera analoga, il progetto Tribewanted declina l’ecovillaggio a villaggio turistico ecosostenibile. Tribewanted è una Community Interest Company di diritto inglese, che costruisce ecovillaggi a giro per il mondo: per adesso ne sono stati realizzati uno in Sierra Leone, uno nelle Fiji e uno in Umbria, a Monestevole (Pg). Il suo finanziamento dipende da una community on-line di ecoturisti che versano una quota associativa mensile di 10 sterline e che in cambio hanno diritto a soggiornare a prezzi agevolati in tutti gli ecovillaggi di Tribewanted. Ogni 1.000 nuovi membri è possibile costruire un nuovo villaggio. Pur non essendo assimilabile alle esperienze comunitarie presenti in questo libro, anche gli ecovillaggi di Tribewanted si caratterizzano per l’applicazione di dispositivi per il risparmio energetico e la produzione di energia da fonti rinnovabili, oltre che per il sostegno all’economia locale. Per informazioni: www.tribewanted.com

    5 Per citarne alcuni: A. Appadurai, (2001), Modernità in polvere, Sicuri da morire, Meltemi Editore; F. Dei, (2008), Identità, culture e mondi della vita. Convegno ANUAC, Matera; M. Aime, (2004), Eccessi di culture, Einaudi; Y. Friedman, (2007), La comunicazione dei beni culturali. Il progetto dell’identità visiva di musei, siti archeologici, luoghi della cultura, Lupetti; Y. Friedman, (2003), Utopie realizzabili, Quodlibet; M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, (2009), Elèuthera; Z. Baumann, (2007), Voglia di comunità, Laterza; Aldo van Eyck, (1980), Quello che è e quello che non è l’architettura. A proposito di Ratti, Post- e altre Pesti (RPP), Lotus International, n. 28, 15-21; P. Soleri: http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Soleri.

    Capitolo 2

    Che cos’è un ecovillaggio

    Comunità intenzionali ecosostenibili

    di Mimmo Tringale

    Ecovillaggio è un neologismo mutuato dall’anglosassone eco-village, coniato da Robert e Diane Gilman che per primi utilizzarono tale termine nel volume Eco-villages and Susteinable Communities, pubblicato da The Gaia Trust nel 1991. Qualche anno più tardi fu fondato il Global Ecovillages Network (Gen), una rete internazionale cui aderiscono ecovillaggi presenti in tutti i continenti, ma fu solo nel 1995, con il primo meeting ospitato nella storica comunità di Findhorn, in Scozia, che il movimento degli ecovillaggi ricevette il suo battesimo ufficiale.

    La traduzione letterale del termine inglese non fa giustizia del suo significato più profondo, che sarebbe più corretto tradurre con comunità intenzionale ecosostenibile. Questo perché per ecovillaggio si intende una comunità caratterizzata da due elementi fondamentali: l’intenzionalità e l’ecosostenibilità. Anche se il termine ecovillaggio pone l’accento sull’aspetto ecologico, l’orientamento del Gen è di promuovere una sostenibilità a 360 gradi, poiché, così come si legge nella Carta degli intenti della Rete italiana villaggi ecologici (Rive), gli ecovillaggi «si ispirano a criteri di sostenibilità ecologica, spirituale, socioculturale ed economica, intendendo per sostenibilità l’attitudine di un gruppo umano a soddisfare i propri bisogni senza ridurre, ma anzi migliorando, le prospettive delle generazioni future».

    Esistono numerosi tipi di micro e macro comunità; la famiglia è una comunità, e lo è anche una classe di studenti, un gruppo di colleghi di ufficio, o una squadra di calcio, come pure un convento di francescani o una comunità terapeutica di recupero. Rispetto alle comunità basate sui legami di sangue (la famiglia), o alle comunità funzionali, religiose, terapeutiche o di lavoro, l’ecovillaggio si distingue per essere costituito da persone che hanno scelto come impegno prioritario il condividere la loro esistenza con altre persone in virtù di una visione comune.

    I valori fondanti di un ecovillaggio possono essere di natura spiccatamente etica, spirituale, ecologica, sociale o un qualche mix di essi, ma in ogni caso sono caratterizzati da una scelta consapevole di uno stile di vita a basso impatto ambientale: ecco perché la sostenibilità è un aspetto fondamentale della vita in ecovillaggio.

    Vivere in un ecovillaggio

    In una società profondamente individualistica come quella attuale, l’idea di vivere insieme, condividendo professionalità, esperienze, affetti, risorse economiche e intellettuali, può certamente meravigliare. Abituati a vivere le nostre vite in anonimi condomini, stupisce che sia possibile condividere fuori della cerchia ristretta dei legami parentali l’educazione dei propri figli, la preparazione dei pasti, le pulizie, il lavoro. Eppure si tratta di scelte che, oltre a migliorare la qualità della vita perché liberano il tempo e aumentano la socialità, portano a una riduzione sensibile dei costi economici e ambientali. Provate a immaginare quanti televisori, lavatrici, lavastoviglie, scaldabagni, automobili, per non parlare dei piccoli elettrodomestici, vengono normalmente utilizzati in un condominio.

    Se le stesse persone decidessero di vivere in un ecovillaggio o in un cohousing, invece di dieci lavatrici ne potrebbe bastare una, magari più capiente. Lo stesso vale per la caldaia, il televisore e la lavastoviglie, e forse invece che dieci auto ne basterebbero tre. Questo è quanto avviene in numerose esperienze di comunità intenzionali, molto diffuse in altri paesi. Ma un ecovillaggio è qualcosa di più della semplice condivisione di uno spazio e di qualche elettrodomestico: si tratta di condividere una visione e di sperimentare concretamente, nel quotidiano, uno stile di vita in armonia con la natura e basato sui valori di solidarietà, partecipazione, ecosostenibilità e sobrietà.

    Provate a immaginare diciotto adulti di età e professionalità diverse – insegnanti, agronomi, ingegneri informatici, agricoltori, baristi, muratori – che versano in una cassa comune i propri stipendi e che, una volta prelevata una paga uguale per tutti, impiegano le restanti risorse per le spese comuni, ovvero per cure mediche, educazione dei bambini, trasporto, energia, cibo, abitazione ecc. Un’utopia? Eppure è quanto avviene da quasi quarant’anni nella comune di Bagnaia, nei pressi di Siena.

    Provate a immaginare dei bambini che abbiano la possibilità di crescere in compagnia di loro coetanei e con il sostegno di altri genitori adulti che a turno fanno da animatori fuori degli orari di scuola, e che soprattutto possono giocare nella natura con anatre, conigli, capre. Solo fantasia? No, è quanto avviene ogni giorno presso l’ecovillaggio di Torri Superiore, a Ventimiglia.

    L’esperienza degli ecovillaggi può essere descritta e valutata in tanti modi diversi, ma di sicuro non può essere considerata come una sorta di fuga dalla società o una scelta meramente individualistica.

    Lo slogan Un mondo migliore è possibile: noi lo stiamo costruendo, coniato dalla Rive in occasione del Social Forum Europeo del 2003, racchiude molto bene il contributo che l’esperienza degli ecovillaggi può offrire al processo di trasformazione della società. E l’interesse crescente per il movimento degli ecovillaggi è una prova concreta di questo desiderio di cambiamento.

    Giovani e meno giovani, singoli e coppie, lavoratori e disoccupati, baby pensionati, ma anche professionisti e imprenditori: l’idea dell’ecovillaggio sembra coinvolgere in maniera trasversale fasce generazionali, strati sociali ed esperienze di impegno politico e sociale le più diverse, convogliando i desideri, i bisogni e le fantasie più disparate verso una dimensione del vivere finalmente a misura d’uomo.

    Gran parte delle telefonate e delle e-mail che giungono alla segreteria della Rive manifestano un profondo disagio esistenziale e insieme il desiderio di cambiare la propria vita in direzione di una nuova socialità e, sempre più spesso, di un lavoro più gratificante in un luogo, o in una dimensione, il più possibile vicino alla natura.

    Nonostante l’apparenza di decenni di disimpegno e omologazione del pensiero, la prospettiva di investire la propria vita nell’assurdo ritornello lavora-consuma-produci sembra affascinare sempre meno, soprattutto in questi ultimi anni, in cui il crollo del modello liberista ha evidenziato la sua profonda insostenibilità economica, sociale e ambientale.

    Dove sono

    Le esperienze di ecovillaggio, per la loro eterogeneità e per il fatto di porsi, per loro natura, al di fuori delle categorie convenzionali, sfuggono a ogni censimento e pertanto mancano dati ufficiali sul numero e le dimensioni delle comunità intenzionali presenti nel nostro paese.

    A livello mondiale, l’area più ricca di ecovillaggi è il continente americano, dove si contano almeno 2.000 comunità, il 90% delle quali situate negli Stati Uniti, con un numero di residenti intorno ai 100.000. In Gran Bretagna e Irlanda sono segnalate circa 250 comunità, con 5.000 membri. In Germania sono oltre 100, in Francia 33, nei Paesi Bassi 13, nei paesi scandinavi circa 28, in Spagna e Portogallo 23 in tutto.

    Dal punto di vista numerico, il panorama italiano degli ecovillaggi è in linea con quello degli altri paesi mediterranei. Alla Rete italiana villaggi ecologici aderiscono oltre venti realtà e circa una trentina di nuovi progetti, cui vanno aggiunte tutte quelle esperienze che per motivi diversi non aderiscono alla rete nazionale e che quindi sono ancora più difficili da censire.

    Analizzando i diversi modelli di ecovillaggio esistenti in Italia e nel mondo, è possibile trovare numerose linee comuni, ma anche molte differenze. Questo perché non esiste un modello standard, ogni comunità si conforma in base alla propria storia, alle ispirazioni e alle esperienze del gruppo promotore. E molto spesso, la stessa struttura organizzativa e persino i principi ispiratori possono modificarsi nel tempo.

    Principi ispiratori

    Esistono ecovillaggi nati con l’obiettivo preciso di ridare vita a un vecchio borgo abbandonato, nel rispetto dei valori architettonici e ambientali originari, così come altri sono invece sorti intorno all’idea di sperimentare un modello sociale alternativo basato sui principi della solidarietà e della nonviolenza. Alcuni sono legati a una scelta di vita spirituale, spesso fuori dai dogmi delle religioni istituzionalizzate; altri si sono formati per sperimentare un modello di società a basso impatto ambientale basato sulla riduzione dei consumi e l’autosufficienza. Infine, non poche comunità sono state fondate su di più di uno tra questi orientamenti.

    In ogni caso, a cementare l’ecovillaggio è una visione d’insieme che supera la convenzionale separazione dell’impegno nel sociale da un percorso di crescita personale o spirituale, o dell’attivismo ecologico dall’adozione di uno stile di vita sobrio e sostenibile.

    Collocazione e dimensioni

    La maggior parte degli ecovillaggi, anche se non tutti, sono situati in ambienti rurali e condividono la gestione della terra.

    È questo il modello prevalente anche in Italia dove, fatta eccezione per il Popolo degli elfi e Damanhur, i cui residenti superano rispettivamente le 200 e 600 unità, gran parte delle realtà conta mediamente da 10 a 20 membri.

    Economia

    In alcuni casi, la proprietà dei beni (terreni, edifici, mezzi di produzione) è comune e indivisa. Tutti i membri, sia quelli che svolgono un’attività lavorativa fuori dalla comunità, sia quelli che lavorano

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