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Agricoltura contadina e lavoro giovanile: Ruolo pedagogico delle fattorie didattiche e sostenibilità ambientale
Agricoltura contadina e lavoro giovanile: Ruolo pedagogico delle fattorie didattiche e sostenibilità ambientale
Agricoltura contadina e lavoro giovanile: Ruolo pedagogico delle fattorie didattiche e sostenibilità ambientale
E-book556 pagine6 ore

Agricoltura contadina e lavoro giovanile: Ruolo pedagogico delle fattorie didattiche e sostenibilità ambientale

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Info su questo ebook

«Sostenibile» è uno degli aggettivi che da tempo egemonizza molta saggistica e chiama in causa temi come l’inquinamento, la vivibilità nei grossi conglomerati, il degrado delle periferie, il costante deterioramento dell’ambiente incapace di resistere all’aggressione di un progresso appiattito sul profitto e sulla ricchezza.
Seppur lentamente, si sta facendo strada l’idea che si debba voltar pagina per lasciare alle future generazioni un bene, il Pianeta, di cui abbiamo goduto, ma che abbiamo ricevuto in prestito dalle generazioni passate per riconsegnarlo a chi verrà dopo di noi. Il tempo stringe, ma abbiamo a disposizione un patrimonio da spendere, la cultura, intesa nella sua più ampia accezione. Solo una piena consapevolezza del problema e la volontà di metterci alla prova potrà farci risalire la china. Il primo, forse l’unico vero destinatario di queste scelte
epocali è la natura, dapprima considerata nemica, ora paradossalmente vittima dell’uomo. Ma la natura siamo anche noi, che abbiamo il potere di cambiare le regole del gioco. Per far ciò non possiamo più fare affidamento solo sulla tradizione e il buon senso. Urge un salto di qualità, dobbiamo dotarci di un bagaglio di conoscenze scientifico-tecniche adeguate. E da dove cominciare se non dal mondo agricolo contadino? Nella organizzazione lavorativa di una fattoria si trovano le condizioni ideali per una nuova sintesi tra il dire ed il fare, fra teoria e prassi, tra passato e futuro. Le fattorie agricole possono diventare un centro propulsore di cambiamento culturale, luoghi dove sviluppare un’imprenditorialità intelligente, legami socio-comunitari, servizi educativo-formativi e soprattutto una produzione alimentare alternativa, ponendo come prioritario il nostro benessere attraverso la salvaguardia dell’equilibrio ecologico del Pianeta. In questo contesto di riscoperta delle potenzialità del lavoro agricolo (multifunzionale) trova un leva necessaria la pedagogia per aggiornare una propria branca definita «pedagogia del lavoro», succube finora se non appiattita sulle teorie della formazione, di stampo prevalentemente psico-socio-economico.
Molte sono le questioni affrontate in questo ampio saggio – la storia, la tecnica, la co-produzione, la biodiversità, l’equilibrio dell’ecosistema ecc. – ma la questione che più ha guidato queste riflessioni è legata all’auspicio che, cominciando a ragionare in questi termini, si aprano nuove prospettive occupazionali per una generazione indifesa di giovani senza futuro, cui abbiamo sottratto, con il lavoro, un’occasione irripetibile di autoconoscenza e maturazione personale nel contatto davvero formativo con la realtà materiale, umana e sociale.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2021
ISBN9788838251047
Agricoltura contadina e lavoro giovanile: Ruolo pedagogico delle fattorie didattiche e sostenibilità ambientale

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    Agricoltura contadina e lavoro giovanile - Carla Xodo

    CARLA XODO

    AGRICOLTURA CONTADINA E LAVORO GIOVANILE

    Ruolo pedagogico delle fattorie didattiche e sostenibilità ambientale

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Padova – Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA)

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 978-88-382-5104-7

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838251047

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    I. IL PARADIGMA DEL LAVORO AGRICOLO

    1. Il concetto di paradigma

    2. Il concetto di paradigma applicato al lavoro agricolo

    3. La condizione di vita contadina

    4. La matrice del paradigma del lavoro agricolo: l’economia di lavoro di Cajanov

    5. Analisi del paradigma del lavoro agricolo

    6. Le caratteristiche del lavoro contadino

    7. Costituenti del paradigma del lavoro agricolo

    8. Il valore educativo del lavoro agricolo

    II. ALLE ORIGINI DEL PARADIGMA DEL LAVORO AGRICOLO

    1. L’economia di lavoro nell’antichità: la testimonianza di Esiodo

    2. La democrazia del lavoro: tutti lavorano

    3. Il valore dell’agricoltura

    III. LA RIVOLUZIONE AGRARIA E LA NASCITA DELLA PEDAGOGIA DEL LAVORO

    1. La pedagogia del lavoro contadino di Filippo Re (1763-1817)

    1.1. Una teoria collegata alla pratica

    1.2. Come scegliere i libri per istruirsi

    2. La nascita delle fermes-écoles

    2.1. I principi ispiratori delle fermes écoles

    2.2. L’istituto modello di Hofwill

    2.3. La ferme école di Roville

    3. La ferme école di Meleto in Val d’Elsa

    3.1. La pedagogia del lavoro di Cosimo Ridolfi ( 1794-1965)

    3.2. Il valore educativo del lavoro

    3.3. La pedagogia familiare di Meleto

    4. Lavoro /conoscenza/ educazione nel periodo post unitario

    4.1. I Comizi agrari

    4.2. Tipologia del lavoro agricolo

    IV. LA RIVINCITA DEL LAVORO AGRICOLO

    1. Sei ragioni di riscoperta del mondo agricolo

    2. Territorialità

    2.1. L’agricoltura matrice del territorio

    2.2. La deterritorializzazione dell’agricoltura industriale

    2.3. L’approccio territorialista per uno sviluppo sostenibile

    3. Una nuova ruralità

    3.1. Riscoperta del rurale e sua differenza da agricolo

    V. MULTIFUNZIONALITÀ

    1. Premessa epistemologica per una corretta analisi del sistema di produzione agricolo

    2. La normativa europea

    3. La normativa italiana

    3.1. L’imprenditore agricolo

    3.2. La cooperativa sociale

    4. Le attività di agricoltura sociale

    VI. FATTORIE DIDATTICHE E TEORIE PEDAGOGICHE SULL’AMBIENTE

    1. La fattoria didattica: origine di una istituzione

    2. Dalle fermes écoles alle fattorie didattiche

    3. Dalla fattoria didattica alla fattoria pedagogica

    4. Che cos’è una fattoria agricola?

    5. Analisi pedagogica della fattoria didattica: il concetto di ambiente

    5.1. Il valore educativo dell’ambiente

    5.2. Il dibattito sul valore pedagogico dell’ambiente

    5.3. Globalismo, sensismo, astrattismo

    5.4. Ambiente come mezzo o come fine?

    5.5. Lo studio d’ambiente

    5.6. Il tema dell’ambiente nella pedagogia personalistica

    5.7. Nuove linee interpretative dell’ambiente: Il costruttivismo di Vygotsky e Bruner

    6. Cambio di paradigma: dalla teoria dello studio d’ambiente all’educazione ambientale

    7. Dalla educazione ambientale allo sviluppo sostenibile

    Conclusione

    VII. ORGANIZZARE UNA FATTORIA PEDAGOGICA: PREGIUDIZI DA EVITARE

    1. Pregiudizi ricorrenti

    2. Le potenzialità educative di una fattoria agricola

    2.1. Gli spazi fisici

    2.2. Gli animali

    2.3. La famiglia e le solidarietà

    2.4. Il lavoro nella corresponsabilità

    2.5. La frugalità come stile di vita

    VIII. IL PROGETTO: UNA FATTORIA PEDAGOGICA SECONDO IL MODELLO DELLA PERMACULTURA

    1. Il valore educativo della Permacultura

    2. Progettare una fattoria pedagogica e sociale

    3. Il progetto

    3.1. Finalità.

    3.1.1 Obiettivi specifici

    3.2. Strumenti

    3.2.1 Conoscenze relative all’ecosistema naturale

    3.2.2 Conoscenze relative all’ecosistema uomo

    3.3. Spazi e strutture

    3.3.1 Organizzazione logistica dello spazio

    4. Pet Therapy e Pet Education

    5. La Pet therapy nella pedagogia del lavoro contadino

    6. La scelta delle piante e l’ortocoltura

    CONCLUSIONE

    APPENDICE: TESTIMONIANZE

    1. SERGIO GIACOMAZZI: LE RAGIONI DEL CUORE CHE SFIDANO LA RAGIONE

    2. LORENZO PISTOLATO IL PRIMO BIO DEL TREVIGIANO: 40 ANNI DI CONTROLLI RIGOROSI E RIPETUTI. ZERO CONTESTAZIONI

    3. BRUNO MORO: FATTORIA DIDATTICA MULTINAZIONALE CON CO-HOUSE

    4. VILLA BOZZA A PADOVA: DI TUTTO DI PIÙ E DI MEGLIO

    5. MICHELE MORANDIN: DIVERSO PARERE: BIOLOGICO? GIUSTO, MA SIAMO TROPPO IN ANTICIPO SUI TEMPI

    6. CASI RIPORTATI DALLA STAMPA

    BIBLIOGRAFIA

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA STUDIUM

    A mio padre, agricoltore per eredità

    e per vocazione

    INTRODUZIONE

    Vi sono dei progetti di cui non riusciamo a liberarci e che restano sospesi in attesa del colpo di grazia per veder la luce. E può capitare che un evento, un’occasione, un imprevisto liberi quell’energia capace di risvegliare l’idea dormiente e ci si ritrovi di colpo presi da un fuoco improvviso per metterci in cammino. Nel mio caso l’occasione è stata una vista all’Expo di Milano 2015. Com’è noto, l’argomento dell’Esposizione Universale era Nutrire il Pianeta, energia per la vita. Il tema dell’alimentazione l’ha fatta da padrone, mettendo in luce una infinità di connessioni: come nutrirci, come nutrire il pianeta, come coltivare ecc. In quell’evento mondiale l’agricoltura ha guadagnato il centro della scena, dopo essere stata, per molto tempo, largamente emarginata o occultata nei grandi dibattiti. Noi, si sa, siamo vittime, magari anche inconsapevoli, del totem della globalizzazione, salutata come la panacea di tutti i mali: cibo sano e soprattutto a basso prezzo.

    Partendo dal cibo e dall’alimentazione in genere, funzione umana vitale come il respirare, si è aperto ovunque nel mondo un ventaglio di questioni sullo stato di sviluppo economico del Pianeta; sviluppo che, secondo l’opinione pubblica più sensibile, non promette nulla di buono nei tempi medio-lunghi. L’umanità sembra, infatti, procedere senza una meta, avendo come unica bussola il calcolo economico, la supremazia irresistibile della tecnica. La maggior parte di noi, in nome della modernizzazione, è, infatti, apertamente schierata verso la scienza e la tecnica che, onestamente, hanno finito per dettare l’agenda politica in quasi tutti i governi democratici. A questa si oppone una minoranza, assai battagliera per altro, che si sforza di mettere in discussione il modello di sviluppo, cui si imputa l’oggettiva crisi ecologica che rischia letteralmente di isterilire il nostro pianeta.

    Dalla paura che la Terra non abbia in sé gli anticorpi adeguati per opporsi alle conseguenze disastrose di un’industrializzazione dal forte potere distruttivo, sta, dunque, nascendo a fatica una cultura nuova, che nel lavoro dei campi trova la spinta a proporre un modo alternativo di rapportarsi col bene insostituibile che è la terra. Si deve a questa diversa sensibilità l’idea di un’agricoltura organica cui si riconosce il potere di cambiare le regole del gioco. Basta con la chimica che inquina e distrugge i terreni e li stressa con lavorazioni troppo intensive, questa in estrema sintesi la critica di fondo.

    Chissà, siamo solo agli inizi di una battaglia per ri-creare un mondo migliore e sostenibile, ridisegnare i confini tra il progresso dovuto alla scienza ed il mondo della campagna, dove l’artificio trova una sua controparte nella natura. Probabilmente i tempi sono ancora lunghi. Una certa cultura pervasiva ci schiaccia sull’oggi e non ci lascia tempo per pensare seriamente al futuro. È oggettiva la difficoltà a fare proseliti in questa prospettiva ideale o, che è lo stesso, prevale un sostanziale atteggiamento di sufficienza ed irridente fatalismo dei più. Siamo al punto che i resistenti passano per illusi, eredi di un tradizionalismo atavico, reazionario, fuori tempo, e tuttavia, paradossalmente, non ostracizzati perché si deve riconoscere che, a costo zero, sono il presidio necessario per la conservazione di un ambiente che a cascata porta innegabili benefici per la salute di tutti. Insomma non è eccessivo parlare di un atto d’amore a difesa della natura, che ai più giunge gratuitamente!

    E tuttavia, nonostante le difficoltà, come spiegare l’esistenza e il fascino che sprigiona questa nicchia di utopia? Perché l’agricoltura contadina, dal tempo di Esiodo ad oggi, non ha mai cessato di svolgere la sua duplice funzione: di stimolo al lavoro e di riserva di moralità? Come spiegare l’attrazione di frange giovanili verso questo tipo di lavoro, uno stile di vita così in controtendenza rispetto agli standard su si è strutturata la società nel tempo?

    Queste le provocazioni che mi ha dato la visita all’EXPO e che si sono depositate su una base di riflessione maturata nel tempo sul tema più generale del lavoro e dei suoi riflessi in chiave pedagogica.

    Ciò ha costituito lo stimolo vero a rivisitare lo stato della pedagogia del lavoro sulla quale mi stavo interrogando da tempo e che presentava, e presenta, alcune falle epistemologiche. A livello di accademia, questa branca della pedagogia è sempre stata vittima del condizionamento esercitato dall’industrialismo, con tutti i suoi pro (innovazione, reddito, lavoro), ma anche con tutti i suoi contro, che hanno gravemente inciso sul mondo dei contadini.

    Vi è qualche speranza che oggi forse siano maturi i tempi per voltar pagina. Si dovrebbe imprimere una forte accelerazione verso un modello se non alternativo, quanto meno tale da poter reggere al confronto con quanto ci propone il mondo industriale. Ma per raggiungere l’obiettivo bisognerà investire in cultura. Serve imprimere una decisa accelerata sul versante scientifico nei riguardi di un mondo, quello contadino, in cui il buon senso, la tradizione sono importanti ma non esauriscono tutte le esigenze che vengono da parte di chi fa una scelta nobile, ma comunque irta di difficoltà; dall’altro, per quanto ci concerne, bisogna rilanciare il ragionamento pedagogico, finora troppo succube se non appiattito sulle teorie della formazione, di stampo prevalentemente psico-socio-economico.

    Vi è un punto che può avvalorare la nostra ipotesi, o auspicio: le dimensioni della crisi che sta attraversando il mondo del lavoro industriale, il graduale venire meno del lavoro salariato, sempre più sostituito dalle macchine, l’incertezza di un futuro per larga parte dei giovani, dominati da una cupa rassegnazione, cui viene prospettata il limbo di un modesto welfare che dovrebbe essere assicurato solo dopo la fine del ciclo lavorativo. Ecco, queste pagine vorrebbero rispondere alla domanda: se e come è possibile invertire la rotta che ha impoverito il lavoro in termini di quantità (numero di lavoratori) e qualità (significato etico e formativo del lavoro). La prudenza è d’obbligo, ma il mondo sarebbe ancora meno allettante se non fosse concesso di sognare, soprattutto quando si è giovani.

    Per imprimere una valenza culturale alla nostra ipotesi abbiamo tentato di dare un taglio storico nella prima parte del volume. Nei primi capitoli, abbiamo cercato conferme dei caratteri costitutivi del paradigma del lavoro agricolo, cominciando ab ovo, dal mondo greco pre-ellenistico che ha saputo esprimere fin da allora un punto di vista assolutamente originale per il tempo in cui fu formulato. Il capitolo dedicato alla rivoluzione agraria e alla nascita delle fermes ècoles, innovazione di capitale rilievo in cui l’Italia ha giocato un ruolo decisivo, documenta l’origine della pedagogia del lavoro all’interno del lavoro stesso e ci riporta all’attualità didattica rappresentata dall’alternanza scuola–lavoro.

    Arriviamo ai nostri giorni nella seconda parte del volume. Molte pagine sono dedicate allo studio della fattoria agricola. Proprio perché luogo di formazione e di educazione non formale, complementare a quello scolastico, essa è stata illustrata anche attingendo al narrativo come integrazione della parte squisitamente saggistica. La fattoria, più che un luogo di lavoro, è stata, infatti, anche il centro propulsore di un modello di vita familiare e sociale umanizzante e per questo ci si è concesso di dar spazio alla sua rievocazione in presa diretta, attraverso il vissuto, dove si riconoscerà chi ha concretamente condiviso questa esperienza.

    L’ultimo capitolo propone alcune linee di progettazione per una fattoria pedagogica. Lo scopo era dare rilievo e visibilità all’approccio ecologico nonché al valore della biodiversità secondo le linee di indirizzo della permacultura e della zoo-antropologia.

    La conclusione propone una riflessione concreta sull’oggi. Il vissuto di chi ha fatto una scelta di vita abbastanza controcorrente è stato estratto, per cosi dire, dal vivo. È stata inserita un’appendice con casi veri o riportati dalla stampa. Il quadro che ne emerge è un chiaroscuro che riflette il mondo contadino così come è, dove si percepisce la passione di chi mette i suoi ideali sopra le repliche della storia.

    Dispiacerebbe che queste riflessioni lungamente meditate restassero chiuse nell’accademia. Se proprio andrà così siamo però certi che, come in un fiume carsico, l’acqua ritornerà alla superficie. Meglio se presto.

    I. IL PARADIGMA DEL LAVORO AGRICOLO

    1. Il concetto di paradigma

    Preliminare ad una definizione del lavoro agricolo è la messa a fuoco del concetto di paradigma. Parole quasi definitive in proposito si devono al filosofo epistemologo Thomas Kuhn [1] che non solo ha spiegato l’ambito semantico del termine, ma ha indagato anche sul come e perché quel concetto sia entrato nel linguaggio scientifico e quali ne siano i fondamenti e, di qui, i presupposti per lo sviluppo della nostra conoscenza. Suo il merito della tesi secondo la quale i nostri progressi scientifici avanzano non per cumulazione e stratificazione, ma per strappi e rivoluzioni che, proprio per questo, chiamano in causa il concetto di paradigma e di cambio di paradigma. In tal modo vengono scalzate le basi su cui si era retta l’epistemologia positivista e popperiana. Ancorate entrambe al principio di gradualità, esse avevano legittimato la tesi secondo cui le nuove conquiste scientifiche si realizzano progressivamente in due modi: accumulando nuovi dati informativi per mezzo della verifica empirica (positivismo); attraverso il principio di falsificazione dei precedenti risultati della ricerca (Popper).

    Per Kuhn, invece, il progresso è governato dalla legge della discontinuità: cambi di marcia e brusche inversioni di direzione elevano positivamente la rottura a condizione necessaria per quella rivoluzione scientifica indispensabile a generare un cambiamento di paradigma. Etimologicamente paradigma (dal tardo latino paradigma, dal gr. παράδειγμα, der. di αραδείκνυμι, «mostrare») significa «mostrare» e può essere sinonimo di «esempio», «modello» con cui si familiarizza fin da quando si studia il latino, dove il termine indica il modello di declinazione del nome ( rosa - rosae) o di coniugazione del verbo ( amo, as, avi, atum, are). È in filosofia, però, che il termine acquista pienezza e complessità epistemologica. Utilizzato da Platone, esso si riferisce a realtà ideali, ritenute eterni modelli di quelle sensibili. Ad Aristotele serve per sottolineare un caso esemplare di riferimento, per illustrare un determinato concetto. Kuhn si pone sulla scia del pensiero greco, nell’ambito della filosofia della scienza, ma con alcune distinzioni. Anche per il filosofo americano paradigma è «un modello, o uno schema accettato» [2] , nondimeno esso va interpretato nel suo farsi, quindi senza la pretesa di fissarlo in maniera immutabile.

    La funzione del paradigma è quella di permettere la riproduzione di esempi [3] . Ma all’interno della scienza «un paradigma è raramente uno strumento di riproduzione [quanto piuttosto, ndr] lo strumento per un’ulteriore articolazione e determinazione sotto nuove o più restrittive condizioni» [4] . Un paradigma nasce, infatti, da un insieme di problemi e di soluzioni accettabili non solo su base logica, ma a partire da un modo nuovo di vedere la realtà, comprensivo di valori e idee diversi. Per questo, un nuovo paradigma determina una riconcettualizzazione degli elementi costitutivi della ricerca scientifica, una sorta di Gestalt switch: indotta da contesti storico-sociali, intellettuali, materiali mutati.

    Il contributo di Kuhn è aver messo in discussione il formalismo scientifico, rivitalizzandolo, conferendogli maggior concretezza e radicandolo nel tempo. In tal modo, al principio logico egli affianca quello ermeneutico. Lo scopo è non solo spiegare, ma anche interpretare i cambiamenti scientifici all’interno della loro epoca, della loro storia, mettendo in guardia da facili semplificazioni comparative. Il che spiega perché i progressi scientifici non avvengano seguendo la via di quella che Kuhn definisce «scienza normale», ma attraverso una sospensione della normalità, l’attivazione di un modo di vedere diverso che, all’interno di un medesimo campo di ricerca, produce posizioni scientifiche nuove, derivanti da paradigmi scientifici difformi tra loro e incommensurabili.

    Un paradigma scientifico è costituito, infatti, da un insieme di concetti e regole coerenti tra loro che forniscono la base teorico-metodologica su cui si sviluppano le nostre conoscenze in un certo periodo di tempo.

    Non si tratta di un apparato teorico immodificabile e indiscutibile, ma di concetti sotto stress, soggetti cioè a cambiamento. Quando, infatti, nella ricerca scientifica si rilevano palesi anomalie e si verificano fenomeni non spiegabili con il paradigma di riferimento, anche una base teorica condivisa, non più suffragata dai fatti, può e deve subire revisioni critiche.

    Inizialmente, per una naturale resistenza al cambiamento e per il rifiuto di abbandonare il modo tradizionale di procedere, queste irregolarità o elementi atipici tendono ad essere ignorati o respinti fino a quando l’impossibilità di applicare il consueto dispositivo concettuale sfocia in una crisi, dalla quale emerge un nuovo paradigma che rivoluziona quello precedente, introducendo cambiamenti radicali. Nel Poscritto del 69 [5] , Kuhn cerca di precisare ulteriormente il suo concetto di paradigma, presentandolo anche come «matrice disciplinaria», ossia insieme di credenze condivise all’interno di un ambito disciplinare, comprensivo di generalizzazioni simboliche, modelli, elementi metafisici ed euristici [6] .


    [1] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (tit. orig. The Structure of Scientific Revolutions, 1962), Einaudi, Torino 2009.

    [2] Ibid., p. 41.

    [3] Ibid.

    [4] Ibid.

    [5] T. Kuhn, Poscritto del 69, in La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit. , p. 211-251. Id, Secondi pensieri sui paradigmi, in a AA.VV. Paradigmi e rivoluzioni nella scienza, Armando, Roma 1983; Logica della scoperta e psicologia della ricerca, cura di, I. Lakatos-A. Musgrave, Cultura e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1976.

    [6] Ibid.

    2. Il concetto di paradigma applicato al lavoro agricolo

    Il concetto di paradigma ha delle conseguenze molto importanti rispetto al tema che qui stiamo trattando, cioè il lavoro. Esso si configura, infatti, come una realtà molto più articolata rispetto alla semplice tecnica produttiva. Oltre ovviamente alla soddisfazione di alcune esigenze primarie, esso è un fattore decisivo nella vita umana complessivamente considerata, ha ricadute anche su aspetti esistenziali che solo apparentemente sembrano ignorare le dinamiche lavorative, come, ad esempio, la possibilità di una vita affettiva, la qualità di quella familiare e sociale, il tempo libero, la nostra felicità ecc. Per questo, se il lavoro deve essere scelto con la consapevolezza di questa sua influenza totalizzante nella vita delle persone, esso va valutato e compreso alla luce di una filosofia, di un’assiologia: meglio, nel linguaggio di H. Arendt, di una condizione di vita [1] .

    E prima della Arendt è stato Rousseau ne l’ Emilio [2] ad intuire nel lavoro la dimensione esistenziale, l’implicazione anche di uno stile di vita. Nel giovane la conoscenza tecnica e la padronanza delle procedure esecutive sono importanti, ma lo è altrettanto il bagaglio del proprio vissuto, dell’esperienza e reale condivisione. Questo è l’Emilio di Rousseau, falegname di mestiere, ma dentro ad «una condizione di vita che non possa perdere, che gli faccia onore in ogni tempo» [3] . Questo profilo si attaglia perfettamente anche al giovane di oggi e di ogni tempo.

    Se accettiamo l’idea di paradigma come principio regolatore dell’evoluzione scientifica in ogni ambito, che cosa avviene quando è applicato al lavoro agricolo, tema di queste pagine?

    Il campo semantico dell’aggettivo agricolo è ampio, comprensivo di «modi differenti di fare agricoltura» [4] , da quello contadino a quello ecologico fino a quello industriale. Ma mentre il metodo industriale è stato ben analizzato e studiato, quindi codificato, fare agricoltura ha suscitato meno interesse investigativo al punto che ancor oggi restano delle «pratiche senza rappresentazione teorica» [5] .

    Per sgombrare il campo da possibili ambiguità l’espressione paradigma del lavoro agricolo, proprio per sottolineare la specificità del lavoro dei campi rispetto a quello delle fabbriche, viene qui utilizzata con riferimento al lavoro contadino. Con questo corollario: diversamente dall’agronomo olandese Van der Ploeg – che sarà ripetutamente chiamato in causa in queste pagine – non convince la contrapposizione lavoro contadino vs lavoro imprenditoriale giacché l’imprenditorialità rappresenta, infatti, una caratteristica strutturale anche del lavoro contadino, che qui valorizza i suoi costituenti originari. In altri termini, pur riconoscendo la fondatezza delle analisi comparative di Van der Ploeg tra agricoltura contadina e agricoltura imprenditoriale, più corretto è individuare l’elemento di differenza tra i due modelli. Che consiste non nella imprenditorialità in quanto tale, quanto piuttosto nel modo di interpretarla e gestirla, dove i punti di contatto sono di tutta evidenza. Se come criteri distintivi si assumono la capacità di innovare e non farsi condizionare dall’esterno, l’imprenditorialità contadina non è meno significativa della imprenditorialità industriale. Da questo punto di vista vale richiamare l’idea di imprenditorialità espressa a livello europeo e contenuta nella Nuova Proposta di Raccomandazione del Consiglio relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, varata il 17 gennaio 2018. La Proposta porta un Allegato che contiene il nuovo quadro delle competenze chiave per l’apprendimento permanente sostitutivo di quello del 2006.

    Tabella 1. Quadro comparativo delle competenze chiave 2006/2018

    Come si vede, capacità e abilità previste dalla Raccomandazione del 2006 ora sono trasformate tutte in competenze, per sottolineare la componente personale di apprendimento permanente. In tal modo, si comprende come il punto 7 nella declaratoria del 2006, che riportava la voce spirito di iniziativa e imprenditorialità, sia stato modificato nella declaratoria del 2018 in quelle competenze imprenditoriali che delle prime sono un derivato e una maturazione. Va da sé che competenze personali, sociali, civiche si riferiscono ai tratti tradizionali della formazione contadina. Le altre alludono invece ad un nuovo profilo di contadino, un aggiornamento delle conoscenze e competenze che mettono il contadino al passo con i tempi.

    Interessante rilevare come questa posizione politico-economico sia stata valorizzata anche nella sfera religiosa. Nella Enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI si ritrova la stessa interpretazione: in quanto pre-esistente e propedeutica ad ogni forma economica, compresa l’organizzazione capitalistica, l’imprenditorialità, vi si dice, non è prerogativa di un unico modello economico particolare. Più precisamente, essa deve proseguire nell’itinerario di plurivalenza anche se la perdurante prevalenza del binomio Mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all’imprenditore privato di tipo capitalistico, da un lato, e al dirigente statale, dall’altro. In realtà una serie di motivazioni meta-economiche conferiscono all’imprenditorialità un significato umano prima che professionale. Essa è inscritta in ogni lavoro visto come actus personae, per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso sappia di lavorare in proprio [6] .

    Proprio sulla base di questo ancoraggio antropologico dell’idea di imprenditorialità, il lavoro contadino – il cui connotato principe, come si vedrà, è l’autonomia – rivendica per sua natura una dimensione imprenditoriale. Questa componente differenzia i modelli economici e indebolisce l’opposizione proposta dal citato Van der Ploeg che, paradossalmente, si contraddice quando sottolinea proprio la capacità di agency del contadino, «non come un attributo aggiuntivo, ma bensì come una caratteristica centrale» [7] .

    Tutto ciò premesso, si può facilmente convenire su un punto: l’importanza di saper distinguere tra gli schematismi teorici, che hanno una funzione didascalica, e la realtà pratica, che è sempre più ricca e sfumata, portata a tracimare dagli schemi in cui la si vuol imprigionare. Avviene che le nostre «contrapposizioni schematiche possono essere molto utili quando permettono di chiarire le basi del ragionamento, ma al tempo stesso rischiose nella loro staticità e nel contenuto di supposte certezze» [8] . Dunque nella prospettiva universalistica delineata dall’Enciclica, l’imprenditorialità, contadina, che così chiamiamo si realizza nell’alleanza con la natura, si giustifica proprio col criterio prima definito dell’innovazione. Stante, infatti, l’imprevedibilità dei fenomeni naturali, si impone al contadino una costante reinvenzione di nuove soluzioni ed aggiornamento dei propri modelli comportamentali.

    Su queste basi, proprio in rapporto al concetto di paradigma che stiamo illustrando, sembra molto più appropriata la contrapposizione tra agricoltura contadina vs industriale, rispetto all’opposizione proposta Van der Ploeg, che tuttavia ci farà da guida nelle riflessioni che seguono, con questa modifica: sostituendo la qualificazione «imprenditoriale», presente nell’agronomo olandese, con «industriale», come noi proponiamo, in linea per altro con la tesi sostenuta e ben argomentata dallo stesso P. P. Poggio nel volume presentato in occasione dell’Expo 2015 [9] .

    Nel definire la portata del paradigma del lavoro agricolo è importante partire da questa premessa: il complesso dell’attività sviluppata storicamente si regge su due capisaldi, il tecnico e l’umano. Mentre il portato tecnico è scontato, l’aspetto meta-tecnico è spesso lasciato in penombra, quando, in realtà, è decisivo per inquadrare criticamente il fenomeno. Si tratta di credenze, conoscenze, valori, ma anche del contesto storico-sociale in cui si impone questo tipo di attività. In altri termini, importa tenere conto anche delle condizioni del lavoro contadino. È ovvio, pertanto, che metodologicamente si debba partire dalla condizione di vita contadina per giungere a capire il significato del lavoro agricolo.


    [1] H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana (tit. orig. The Human Condition, 1958), Bompiani, Milano 1994.

    [2] J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, a cura di P. Massimi, Mondadori, Milano 1997, p. 255 e segg.

    [3] Ibid., lib.3, p. 262 e segg.

    [4] J.D. Van Der Ploeg, I nuovi contadini. Le campagne e le risposte nell’era della globalizzazione (tit. orig. The New Peasantries. Struggles for Autonomy and Suastainability in an Era of Empire and Globalization Earthscan, 2008), Donzelli Editore, Roma 2009, p. 33 e segg.

    [5] Ibid., p. 3.

    [6] Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, p. 65.

    [7] J.D. Van Der Ploeg , I nuovi contadini. Le campagne e le risposte nell’era della globalizzazione (tit. orig. The New Peasantries. Struggles for Autonomy and Suastainability in an Era of Empire and Globalization Earthscan, 2008) , cit., p. 41.

    [8] S. Bocchi, I sistemi colturali tra tradizione e innovazione, a cura di P. P. Poggio, Le tre agricolture, contadina, industriale, ecologica, Jaca Book, Milano 2015, p. 61.

    [9] P.P. Poggio, Introduzione, a cura di P.P. Poggio, op. cit ., p. 11 e segg.

    3. La condizione di vita contadina

    Il concetto di condizione contadina , particolarmente importante dal punto di vista della pedagogia del lavoro, si pone in continuità con quello di condizione umana , collegandosi alla dimensione antropologica della nostra tradizione, alla base della stessa attività lavorativa.

    La «condizione umana», titolo di un volume famoso di H. Arendt, richiama ma non coincide con l’«essenza umana». A noi, infatti, è dato conoscere la natura di tutte le cose che ci circondano, ma non possiamo conoscere noi stessi, spiegare cioè chi siamo, per la semplice ragione che – osserva giustamente la Arendt – sarebbe come pretendere di «scavalcare la propria ombra» [1] . Ma se non siamo in grado di risolvere il problema della natura umana, possiamo però identificare le condizioni all’interno delle quali si svolge la nostra esistenza, come la natalità, la mortalità, la mondanità, la pluralità, l’attività nella triplice versione, in cui la tratta H. Arendt, comprensiva, cioè, anche del lavoro.

    La condizione umana, dunque, è legata a doppia mandata con la condizione del lavoro. Di più, nel caso di specie, del lavoro contadino, il requisito rilevante dell’autonomia economica ha il suo fondamento nell’autonomia personale che richiama esigenze di libertà e di coerenza.

    Passare dalla condizione umana alla questione economico-lavorativa il passo è breve, quasi automatico e così ci portiamo in vista di Aleksandr Vasil’evic Cajanov. È lo studioso russo di economia agraria (e di parte non marxista) più noto nel mondo occidentale e ad esso si deve l’identificazione del paradigma del lavoro agricolo con le caratteristiche antropologiche su evidenziate, da cui probabilmente anche Van der Ploeg ha attinto spunti [2] .


    [1] H. Arendt, op. cit., p. 10.

    [2] F. Sperotto, Introduzione. L’economia di lavoro quale forma specifica del neopopulismo in epoca sovietica, in A.V. Cajanov, L’economia di lavoro. Scritti scelti, a cura di F. Sperotto, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 37 e 45.

    4. La matrice del paradigma del lavoro agricolo: l’economia di lavoro di Cajanov

    Cajanov, un intellettuale versatile come pochi, si è misurato in svariati campi: economia, sociologia, politica agraria, agronomia e persino pedagogia, pur essendo di professione economista. Professore dal 1913 presso l’Istituto agricolo di Petrovskoe Razumovskoe, sostenitore ed attivista del movimento cooperativo agrario panrusso, si è dedicato con convinzione allo studio dell’agricoltura russa contemporanea e ai problemi del suo sviluppo.

    L’interesse del modello economico agricolo, identificato da Cajanov come economia di lavoro, è rappresentato dal fondamento etico, da lui individuato e valorizzato sul piano economico come terza via tra Stato e Mercato: alternativa tanto all’economia capitalistica che a quella socialista. Il suo obiettivo, all’indomani della rivoluzione russa, è di avviare il processo d’industrializzazione cercando di evitare tanto la proletarizzazione del capitalismo che la collettivizzazione del socialismo. Per questo egli pensa che tra lo Stato e la società civile possa esistere un corpo intermedio, rappresentato dalla famiglia contadina organizzata nell’ associazionismo cooperativo [1] .

    Forte delle sue convinzioni, nel dibattito sulla pianificazione del 1923, alla crescente deriva collettivista Cajanov cerca di contrapporre la cooperazione, la forma che avrebbe consentito al capo-famiglia di conservare una propria autonomia ed in tal modo contribuire alla crescita socio-culturale del Paese nella direzione della democrazia. È interessante rilevare, ai fini del nostro ragionamento, che per diffondere questo suo programma socio-economico egli si documenta sui metodi della pedagogia di J. Dewey, diventando egli stesso docente di pedagogia presso l’Università popolare di Sanjavskij [2] . Ma tutti i suoi sforzi saranno inutili e cadrà vittima dell’offensiva stalinista nel 1930.

    L’opera fondamentale di Cajanov, L’organizzazione dell’azienda contadina [3] , si basa su una profonda conoscenza del mondo contadino che egli aveva studiato viaggiando per l’Europa, ma soprattutto percorrendo le campagne della Russia dove aveva avuto modo di conoscere la vera realtà dell’azienda familiare contadina.

    Soggetti tutt’altro che sprovveduti per esperienza e pratiche collaudate, i contadini russi avevano saputo individuare ed applicare una specifica razionalità organizzativa all’azienda contadina che Cajanov si propone di approfondire per farla emergere nei suoi tratti costitutivi. Il merito riconosciuto a questo economista è proprio aver capito l’importanza «de definir l’èconomie paysanne come un système de production, et de la distinguer d’autres structures historiques telles que l’esclavage, le capitalisme et le socialisme» [4] .

    Innanzitutto, importa capire perché Cajanov definisca quella contadina economia di lavoro, diversificandola da quella capitalistica in quanto economia di profitto.

    La peculiarità del lavoro contadino secondo lo studioso russo

    consiste nella radicale diversità dei fini fondamentali dell’economia di lavoro e di quella capitalistica [...]. Scopo dell’ azienda contadina di lavoro (corsivo nostro) consiste nel fornire i mezzi di sussistenza alla famiglia conduttrice mediante il più ampio e razionale impiego possibile dei mezzi di produzione di cui dispone e delle forze di lavoro della famiglia stessa [...]. Scopo dell’ azienda non di lavoro (corsivo nostro) consiste nel più completo impiego del capitale investito in azienda: in altri termini, nel conseguimento del massimo profitto su questo capitale [5] .

    Di conseguenza, il criterio economico con cui viene calcolato il profitto dell’azienda contadina è profondamente diverso rispetto a quello capitalistico. Nel secondo caso è misurato in termini contabili, mentre nel primo caso si basa sulla «correlazione tra il grado di soddisfazione del fabbisogno della famiglia conduttrice e la pena dei lavori effettuati» [6] . Significa che l’economia contadina non dipende dal mercato, che per questo non rincorre il profitto, ma dà precedenza alla soddisfazione dei bisogni familiari. Siccome lo scopo dell’affittanza non è l’ottenimento del profitto nel senso del capitale, ma la necessità di aumentare i mezzi di sostentamento della famiglia con l’impiego della sua forza lavoro che non trova occupazione» si è disposti a lavorare anche in perdita, dentro in famiglia o all’esterno, con «occupazioni ausiliarie», «lavori artigianali e simili», «in terreni presi in affitto a somme che superano notevolmente la redditività di queste terre [7] .

    Semplificando, quella contadina è definita economia di lavoro perché esso è l’unica risorsa cui si ricorre nei frequenti momenti di bisogno. Il lavoro, su cui si fa leva, si configura soprattutto come un dovere, un dono offerto per soddisfare esigenze primarie, non un’offerta al mercato di competenze lavorative come merce da vendere per ricavare un utile maggiore. Se la resa della terra non basta, va integrata con quella del bestiame, aggiungendo alla coltivazione l’allevamento e, se del caso, variando anche le specialità, integrando gli animali da stalla con quelli da cortile, senza sindacare sul lavoro da svolgere.

    La figura che segue presenta la ripartizione del lavoro all’interno della famiglia per tipo di attività, anche se resta la difficoltà di immaginare un’organizzazione regolare, stante i cambiamenti congiunturali sempre possibili e le variazioni tipo: clima, suolo, culture, salute, malattie ecc. La ripartizione prevede tutte quelle attività che oggi, come si riprenderà oltre, vengono valorizzate con il termine multifunzionalità. Vi è il lavoro domestico, quello dedicato alle colture contadine e quello richiesto dall’accudimento dei figli, il soccorso ai malati all’interno del gruppo familiare, le attività non agricole, i giorni di festa e il tempo libero dal lavoro. Ma tutto questo insieme di incombenze parte dalla famiglia e si giustifica in funzione del potenziale lavorativo che essa può garantire e sulla base del quale vengono fissati i rapporti tra i diversi soggetti produttivi, in maniera armoniosa, nel rispetto delle risorse lavorative e delle capacità di ognuno. Esiste una «liaison étroite entre les dimensions de la famille et le volume de son activité économique» [8] , come si evince dalla figura che seguente.

    immagine 1

    Ripartizione del lavoro per tipo di attività, da Cajanov (1990)

    Rappresentazione dell’entità economica familiare.

    Ricavata da F. Dannequin, A. Diemer (2000)

    Una variabile, importante quasi quanto il clima, è la natura stagionale del processo di produzione agricolo. Da ciò i vari livelli d’intensità del lavoro agricolo, nel succedersi nei diversi periodi dell’anno, come indicato nel grafico che segue.

    Intensità stagionale del lavoro agricolo, da Cajanov (1990)

    Ma il ciclo produttivo agricolo non è condizionato solo dalla stagionalità che finisce per determinare il numero di giornate lavorative in un anno. Esso varia anche in rapporto alla diversa intensità oraria del lavoro giornaliero nell’avvicendarsi delle stagioni, come si evince dalla figura sottostante.

    Durata oraria di una giornata lavorativa mensile.

    Ricavata da Cajnov (1990)

    I condizionamenti climatici tendono ad essere considerati in chiave negativa solo nel confronto con l’organizzazione razionale dell’industria. In realtà essi non sono limitazioni da superare, ma vincoli da rispettare nella logica di una produzione, quella agricola, in cui l’elemento materiale non viene sfruttato, ma esaltato nella sua specificità affinché possa concorrere positivamente al risultato. Per garantire questa sinergia, il contadino ha come unica leva il lavoro che aumenta nei periodi più favorevoli e diminuisce quando, come nel periodo invernale,

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