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Il fiume dei profumi
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E-book190 pagine2 ore

Il fiume dei profumi

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Info su questo ebook

May Ta Tung appartiene a una famiglia di proprietari terrieri che vive nei pressi di Saigon. Il Vietnam è ancora sconvolto dall’ennesima guerra, i suoi abitanti hanno dovuto di nuovo imbracciare le armi per difendere la propria libertà e autonomia. May studia a Parigi e diventa professoressa di letteratura orientale alla Sorbona. In un viaggio verso casa in aereo incontra Pierre Clermont un cronista di guerra francese, che durante il suo breve soggiorno documentando i drammi del conflitto, conosce Marcus Erbert che opera come chirurgo in un ospedale da campo americano. Al ritorno May e Pierre si rivedono mentre la città e la Francia sono investite da un vento di rinnovamento politico e sociale. Marcus tornato anche lui a Parigi riprende la sua attività di cardiochirurgo. Gli eventi del Vietnam e della Francia negli anni sessanta fanno da sfondo ad una storia in cui le vicende dei personaggi si intrecciano tra Oriente e Occidente.
LinguaItaliano
Data di uscita26 lug 2023
ISBN9791222430027
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    Anteprima del libro

    Il fiume dei profumi - Renato Pricolo

    CAPITOLO I

    Erano saliti tutti a bordo, l’imbarco era completato.

    Le assistenti di volo che avevano fino ad allora aiutato i passeggeri a sistemarsi stavano chiudendo i portelloni. May, con mosse aggraziate, ma precise aveva sistemato il bagaglio a mano nella cappelliera e si era seduta accanto al finestrino. Il posto vicino a lei era vuoto, vi aveva appoggiato un libro di poesie, lo avrebbe letto durante il viaggio. Meno male che non si è seduto nessuno! sospirò sollevata. Il lungo volo non l’avrebbe costretta a sopportare un compagno di viaggio poco gradito sul sedile accanto. Ricordava con avversione l’alone esiziale che avvolgeva una sua vicina di sedile come l’esuberante invasione di un passeggero sovrappeso che le era capitato vicino.

    L’aereo per Saigon si mosse lentamente, mentre fuori dal finestrino il vento sferzava l’aria tersa che il sole di aprile non riusciva a riscaldare. I motori che lo spingevano a bassa intensità per raggiungere la pista di decollo, emettevano un sibilo continuo e malinconico, come se con quella manovra stessero facendo un torto alla potenza che potevano esprimere in volo.

    Prima di partire, May aveva atteso la chiamata in una sala ampia, illuminata da grandi finestroni che davano sulle piste di atterraggio. Insieme a lei erano seduti molti altri vietnamiti. Dopo la dominazione francese i voli tra Parigi e Saigon erano sempre pieni di studenti e famiglie variamente composte: padri francesi, ex militari, madri, suoceri vietnamiti, figli con i predominanti caratteri orientali.

    La famiglia di May apparteneva alla realtà rurale del suo paese, i genitori erano proprietari delle terre che coltivavano. Quella posizione sociale le aveva consentito di ricevere un’educazione in scuole francesi in Vietnam e frequentare l’Università proprio in Francia a Parigi dove per non sentirsi un’estranea in terra straniera aveva sempre cercato di sottolineare più le similitudini tra i due Paesi che le differenze. A Parigi si comportava come una parigina sforzandosi di essere in tutto e per tutto francese, perfino nei minimi particolari dell’abbigliamento, evitando ogni riferimento al suo luogo di nascita. Quando invece tornava in Vietnam riprendeva tutte le abitudini di quella terra, a partire dalla lingua.

    Improvvisamente, l’aereo si fermò, il portellone fu riaperto e salì in tutta fretta un uomo che, trafelato, dopo aver sistemato alla rinfusa valigia e macchine fotografiche nel vano del bagaglio a mano con l’aiuto di un altro passeggero, si lasciò cadere con un sospiro sul sedile accanto a quello di May. Gli assistenti di volo diedero le istruzioni di sicurezza ai passeggeri con gesti eloquenti, aiutati da una voce registrata in diverse lingue.

    L’aereo fece un breve tragitto aspettando il proprio turno di decollo. Rullò brevemente sulla pista accelerando con una spinta vigorosa, e in un attimo si sollevò in volo nascondendosi tra le nuvole che coprivano Parigi, per alzarsi ancora con una leggera cabrata e guadagnare l’azzurro del cielo subito dopo.

    «Tutto all’ultimo momento, come se uno dovesse andare a fotografare i turisti a Versailles» disse il nuovo passeggero rivolgendosi a May con fare concitato, mentre trafficava con la cintura di sicurezza.

    «Vogliono che tu vada dall’altra parte del mondo e te lo dicono appena tre ore prima del primo volo disponibile, solo perché il direttore si è improvvisamente ricordato che, forse, il prossimo mese bisognerà riempire le pagine del giornale con qualche foto esotica» proseguì a voce ancora più alta, in modo che tutto l’aereo potesse sentire le sue recriminazioni.

    «Mi scusi, mi chiamo Pierre Clermont, e appartengo a una categoria di pazzi: quella dei giornalisti» disse, voltandosi verso May e presentandosi in quel modo tutto suo alla vicina di sedile.

    «Piacere, May Ta Tung» rispose lei disorientata e convinta di dover fronteggiare per molte ore uno sconosciuto scalmanato e logorroico.

    «Mi auguro che lei non vada a fare fotografie o roba del genere, ma qualcosa di meglio» le disse lui porgendole la mano per salutarla.

    «No, in Vietnam ci sono nata e ci abita ancora la mia famiglia, sto andando a trovarli» rispose May con una stretta incerta, ritirando forse troppo presto la mano da quella di Pierre.

    «I suoi vivono in Vietnam? Spero non nel Nord» aggiunse Pierre insistendo.

    «No, abitano nei pressi di Saigon, a Qiu-lai, un piccolo paese di contadini» rispose rassegnata all’invadenza del vicino di posto «dalle ultime notizie sembra che per ora sia tutto tranquillo».

    «Meno male, con l’aria che tira laggiù non dev’essere un bel vivere, tra risaie e mortai. È la seconda volta che ci torno, come cronista, ma adesso è meglio starsene a casa a fotografare mostre e manifestazioni di piazza» proseguì Pierre guardando fuori dal finestrino, come se quello che stava dicendo si stesse svolgendo in qualche punto tra le nuvole sotto di loro.

    «Mancavo da molto tempo da casa, poi negli ultimi tempi mio nonno ha avuto qualche problema di salute e, approfittando di un momento di pausa dal lavoro, sono qui» disse lei sperando che quella confessione ponesse fine a ulteriori indagini.

    In realtà il nonno di May era stato molto male e nelle ultime settimane si era aggravato. Avvertendo l’avvicinarsi della fine aveva espresso il desiderio di rivedere tutti i suoi cari e di averli accanto. La sua vita era stata sempre vissuta al plurale. Non vi era stato giorno che nonno Quang non avesse baciato o carezzato una persona a lui cara. Diceva che è in questo modo che si arricchiscono le vite. Mai una parola di troppo, i suoi silenzi erano

    eloquenti. Ora che intuiva di non avere più molti giorni da vi vere, voleva che tutti ascoltassero le sue parole. Parole cui aveva già dato un significato concreto attraverso i comportamenti di una vita intera. Sapeva di essere stato, e di essere ancora, la forza di ognuno. L’amore per la moglie era stato arricchito di tenerezza e rispetto andando ben oltre il tradizionale dovere coniugale. Sorelle e fratello non si erano mai sentiti orfani dei genitori perché Quang aveva saputo sostituirsi a loro in tutto. Le figlie avevano avuto la possibilità di fare le loro scelte sapendo che a ogni tribolazione o disavventura avrebbero trovato in lui un porto sicuro in cui rifugiarsi, una guida, un mentore capace di indicare la strada migliore senza giudicare. Perfino le concubine, numerose dopo la morte della moglie, con cui aveva avuto relazioni fugaci erano rimaste affascinate e legate a lui.

    A quell’ultimo incontro qualcuno non avrebbe potuto essere presente, ma le sue parole sarebbero giunte con la loro forza a tutti, ovunque fossero.

    Le hostess rifocillavano i passeggeri offrendo loro bevande e piccoli assaggi, mentre il sole entrava dal finestrino fendendo con la sua lama luminosa il tavolino su cui May aveva posato il suo libro e un bicchiere di tè.

    «Capisco, di cosa si interessa?»

    «Insegno letteratura orientale, sono assistente all’Università.»

    L’interrogatorio non accennava a terminare. May, approfittando di una distrazione di Pierre, che aveva chiesto un bicchiere d’acqua all’assistente di volo, aprì il libro che si era portata e finse di mettersi a leggere. Non ci fu scampo. Appena finito di bere, Pierre tornò a incalzarla:

    «Ora la guerra impegna tutti gli uomini, sia dall’una che dall’altra parte. Si vedono in giro solo donne, vecchi e bambini; passano l’intera giornata a procurarsi qualcosa da mangiare e poco altro: qualcosa con cui vestirsi, i più fortunati trovano una vanga o una zappa per i campi in cui lavorano. Non è certo un bel momento per il suo Paese.»

    «Certo, ma tornare a casa è comunque una gioia» rispose laconica. Anche se il Paese è in guerra pensò, ma non lo disse.

    Non le rimaneva che un’ultima possibilità di fuga. Si girò verso il finestrino, si coprì le orecchie con uno scialle e fece finta di essere colta da un colpo di sonno. Quella innocente finzione ebbe successo. Pierre smise di parlare, iniziando a tempestare di domande il vicino di sedile dal lato del corridoio. Il sonno, invocato come l’unica ancora di salvezza, colse May per davvero, mentre pregustava, raggomitolata sul sedile, la gioia di ritornare nel ventre caldo e accogliente della sua famiglia.

    Al minimo cenno di risveglio, May fu subito investita dalla furia verbale di Pierre.

    «Questo viaggio non finisce mai. Spero almeno ci sia qualcuno ad aspettarmi, che l’ambasciata sia stata informata del mio arrivo e che possa procurarmi al più presto tutti i documenti» protestava «lei non sa quante carte bisogna riempire per scattare qualche foto rischiando la pelle.» Fece una pausa guardando fuori dal finestrino. Poi riprese: «Sicuramente molte di più di quante servono per un certificato di morte» disse, respirando a fondo, come ad allontanare quel pensiero; poi continuò: «Pensi che l’altra volta era in corso un’azione militare attorno al 17° parallelo, ero appena arrivato a Saigon e non mi ero ancora ripreso dallo smarrimento del volo intercontinentale che mi caricarono su un elicottero e mi portarono in una base americana vicino alla linea di fuoco. Dopo neanche due ore mi infilarono un giubbotto antiproiettile e mi dissero: Faccia tutto quello che le dice quel signore, ricordo che era un tenente, si chiamava Donovan.» Si interruppe, osservando la reazione della sua vicina di posto. «Non si spaventi! Purtroppo, adesso, succedono queste cose laggiù.»

    «Non mi spavento! Sono solo dispiaciuta» precisò May, rag gomitolandosi su se stessa, ritraendosi nel suo guscio come un mollusco di fronte a un pericolo.

    «Di nuovo in volo in elicottero, per arrivare in una radura in cui doveva svolgersi, avevano detto, una specie di esercitazione militare. Gli esploratori non avevano segnalato presenze nemiche in quella zona, ma correva voce tra i marines che i Vietcong fossero come i serpenti: ti accorgi della loro presenza solo quando hai i loro denti velenosi conficcati nelle carni» disse mimando con i denti e le mani l’atteggiamento di un felino in prossimità della sua preda.

    «Scusi se dico questo dei suoi connazionali, ma riferisco le dicerie che girano tra i soldati americani.»

    «Si figuri» rispose May girandosi verso il finestrino, non voleva mostrare gli occhi inumiditi che stavano per tradire il dispiacere.

    «Prima di atterrare, i mitraglieri avevano saggiato la boscaglia dagli elicotteri, scaricando raffiche che per fortuna non avevano ricevuto risposta. Appena atterrati e scesi dagli elicotteri, si sollevò un inaspettato crepitio dal limite del bosco. I velivoli si sollevarono e ripresero immediatamente quota per non essere colpiti dalle raffiche nemiche, si allontanarono rapidamente per evitare anche i razzi terra-aria. Il tenente urlò Tutti a terra, fuoco a volontà! mentre veniva colpito. Molti erano alla loro prima vera esperienza di guerra. Le esercitazioni li lasciavano sempre impreparati; per quanto realistiche, mancavano dell’effetto sorpresa, di tutti quegli imprevisti che il combattimento reca con sé, ma soprattutto non aleggiava la paura della morte.

    «In quell’inferno stavo ben disteso a terra con la faccia schiacciata contro il terreno umido, sperando di poter evitare i proiettili e le schegge delle granate; avevo visto e fotografato gli effetti delle schegge roventi sui corpi di quei poveri ragazzi.

    Sentimmo in lontananza il rombo di due jet in avvicinamento e in un baleno gli alberi si accesero in un rogo, e l’odore acre del napalm invase l’aria. Il fuoco nemico cessò. Gli elicotteri ridiscesero nella radura, i feriti furono trascinati dentro, come corpi pronti a morire, e al grido tutti a bordo ci allontanammo alla svelta mentre i paramedici cercavano di tamponare le emorragie.

    «Ecco la mia prima esperienza in Vietnam, ma non le dico tutto questo per spaventarla.»

    May, con calma e serenità gli rispose: «Per fortuna, da quanto so, questi scenari sono lontani da dove vivo. Certo, sono preoccupata per i miei fratelli, ma due settimane fa stavano bene e forse rivedrò anche loro al capezzale del nonno.»

    Alcuni sobbalzi fecero capire che l’aereo era ormai prossimo agli umidi umori della sua terra. Il comandante annunciò l’inizio della discesa, ancora una mezz’ora, e sarebbero atterrati a Saigon.

    «Finalmente! E lei quanto si tratterrà in Vietnam?» urlò Pierre, entusiasta, stirando le braccia.

    «Penso qualche settimana, poi dovrò tornare agli impegni dell’Università che purtroppo non mi consentono di rimanere più a lungo.»

    «Bene, allora ci si vede in giro per il Vietnam o magari a Parigi, che ne pensa?»

    «In Vietnam sarà difficile, frequenterò posti più tranquilli di quelli dove andrà lei o almeno spero; a Parigi, può darsi.»

    Dopo aver ritirato i bagagli, i due si salutarono con un cenno della mano. May, di sottecchi, sorvegliò il giornalista che si avviò a grandi passi verso l’uscita guardandosi intorno alla ricerca dell’accompagnatore che avrebbe dovuto accoglierlo.

    Che strano francese! pensò tra sé quel D’Artagnan dei nostri giorni aveva qualcosa di simpatico al di là della sua loquacità e poi usava un buon profumo.

    L’auto che lo attendeva ingoiò Pierre, bagagli, macchine fotografiche e il fiume di parole con il quale investì l’ignaro guida tore. May cercò un mezzo che la portasse a casa e alla fine trovò una corriera che sarebbe passata nei pressi del suo villaggio.

    Un’unica strada collegava Saigon ai villaggi a ovest della città, una specie di mulattiera battuta sopra un argine che talora veniva superato dal fiume in piena lasciando i contadini isolati per giorni interi a combattere con le acque straripate.

    Salita sull’autobus, si guardò intorno e avvertì un’aria di tristezza e un velo di preoccupazione che percorreva gli occhi e le bocche dei passeggeri, ricordò di averle lasciate sempre pronte a un sorriso affabile. In quattro anni di assenza molte cose erano cambiate. L’enorme quantità di divise mischiata ai modesti abiti civili della gente le procurò la strana sensazione di qualcosa di inappropriato ed estraneo al paesaggio cui era abituata:

    sembrava l’ora di ricreazione di un grande collegio militare.

    Non c’era posto per armi e soldati in quella terra che a tutto faceva pensare fuorché alla violenza di una guerra pensò tra sé.

    L’abituale confusione era aumentata dall’incredibile numero di auto e mezzi che affollavano le strade. Nell’attraversare Saigon la corriera era costretta a fermarsi di continuo quasi ogni poche decine di metri. L’autista doveva fare brusche frenate per non investire gli spericolati guidatori di biciclette e motorini necessari ai nuovi commerci nati dall’occupazione statunitense. Ingombravano le strade e a frotte, come cavallette in preda a un movimento senza sosta, zigzagavano tra auto, moto e pedoni, sfiorando ora gli uni ora gli altri. Quando avvenivano gli incidenti, seppur raramente, si radunava una piccola folla dalla quale salivano le ragioni urlate degli incidentati che

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