Come cenere a Vallaida
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Anteprima del libro
Come cenere a Vallaida - Stefania Rinaldi
XVI
I
L’autostrada era più trafficata del solito quel giorno, immersa in un brulicante sfrecciare di auto che, senza apparente limite di velocità, divoravano rabbiosamente i chilometri di grigio e consumato bitume.
Paolo non era un amante della velocità; lui, in realtà, adorava godere appieno del viaggio, osservare con calma il paesaggio circostante nella silenziosa quiete della sua utilitaria, riflettendo spesso sui destini che era solito incrociare lungo la strada.
Chi c’era in quelle vetture? Non solo persone, non semplici esseri umani. Ognuno di loro aveva un passato, dei ricordi o, ancora, delle ferite, dei timori.
Volti ignoti che fissavano impassibili la strada, puntando dritti alla meta, senza la benché minima intenzione di accarezzare il freno. Era questa la vita: una folle, rapidissima corsa verso un qualcosa oppure un qualcuno.
Ma, pensava spesso Paolo, a furia di correre non era insolito che qualcuno arrestasse a metà il proprio percorso, dovendo dire addio alla possibilità di raggiungere l’obiettivo tanto desiderato.
No, non era giusto correre, la vita doveva essere vissuta lentamente, imparando a danzare leggeri sulle note gentili del vento, con le braccia sempre protese al cielo per accogliere la tempesta con la consapevolezza di dover chiudere per bene gli occhi perché, dopo la pioggia impetuosa, il sole sarebbe comunque tornato a risplendere.
Paolo non aveva avuto una vita semplice, ma questo suo ottimismo gli era giunto in aiuto in ogni momento di particolare sofferenza o sconforto: lui sapeva perfettamente quanto preziosa fosse la vita e ne avrebbe goduto di ogni istante rendendolo unico, speciale proprio come se fosse l’ultimo.
Quel giorno partì da casa con largo anticipo, non avrebbe mai voluto far tardi a un appuntamento tanto importante: la sua piccola Martina, che viveva ormai da nove anni in America, stava per atterrare in Italia e non si sarebbe trattenuta troppo a lungo, considerati i tanti impegni che il suo lavoro di fotografa comportava.
Paolo non amava doversi separare dai propri cari, a maggior ragione da lei, dalla sua unica, dolcissima figlia che aveva deciso di prendere il volo per approdare all’altro capo del mondo: non poteva fargliene una colpa, in fin dei conti la fotografia era la sua passione e lei era veramente un’eccellente artista.
Il successo americano se lo era meritato tutto quanto ed era giusto che continuasse a crescere laddove di opportunità non gliene sarebbero di certo mancate.
Ovviamente l’idea che Martina si potesse creare una vita lì non lo rendeva il più felice dei genitori; la proverbiale gelosia dei padri nei confronti delle figlie si rifletteva anche in quell’amore smodato che lo aveva da sempre legato alla sua bambina, e non voleva neanche immaginare che ci fosse qualcuno con cui la sua piccola avrebbe potuto intrattenere una relazione d’amore o, peggio, di sesso.
Rabbrividiva al solo pensiero, ma doveva pur realizzare che Martina era diventata una donna, era cresciuta ed era terribilmente bella di una sensuale avvenenza che avrebbe fatto perdere la testa a qualunque uomo.
Quando il pensiero andava in quella direzione, preferiva virare maldestramente per tornare all’idea di sempre: la sua Martina era e sarebbe rimasta in eterno quella candida creatura che non faceva mai mistero del grande amore che provava per il suo papà.
Sì, era decisamente meglio così e poi con quel caratterino da osso duro che si ritrovava non si sarebbe di certo resa facile preda di qualche muscoloso avvoltoio dall’accento americano: lo sapeva bene Paolo, quella testa dura di sua figlia aveva ereditato l’incredibile forza della sua mamma e, per questo, con lei si era spesso scontrata nel corso dell’adolescenza.
Erano due rocce, due bellissime, grandiose rocce.
Paolo ne era completamente dipendente e non faceva mistero, persino in pubblico, dell’immensità del sentimento che lo legava alla sua famiglia, alle donne della sua vita che, come droga, gli provocavano una piacevole assuefazione.
Era a pochi chilometri dall’uscita che conduceva all’aeroporto e il battito del cuore si faceva sempre più accelerato; riabbracciare Martina a ogni suo ritorno era un po’ come vederla nascere per l’ennesima volta.
Per nove mesi aveva ardentemente atteso il momento in cui l’infermiera gliel’avrebbe consegnata tra le braccia ancora in lacrime per il disorientamento provocato dal venire alla luce così… ecco, era esattamente questa la sensazione che provava ogni volta che Martina lo stringeva nelle rare occasioni di ritorno.
Le auto incolonnate in prossimità dell’aeroporto non mancavano di mostrare tutta l’impazienza dei conducenti che reclamavano un varco per arrivare con sufficiente anticipo: avrebbero dovuto correre per non perdere l’aereo e, considerati i tempi del check-in e dell’imbarco, sarebbe stato necessario suonare il clacson ad arte perché il messaggio fosse chiaro a tutti gli automobilisti in transito.
Fuori faceva veramente caldo, i monitor esposti all’ingresso dell’aeroporto segnavano trentacinque gradi e le persone facevano a gara per potere accedere nel più breve tempo possibile all’interno della struttura: l’aria condizionata li avrebbe ristorati, avrebbe risollevato il morale a quella gente che partiva alla ricerca di un po’ di svago oppure per lavoro o, ancora, per tornare dalle proprie famiglie, esattamente come stava facendo Martina.
Diede un ultimo sguardo al cielo prima di oltrepassare la porta automatica: tre o quattro grossi aerei gli saettavano sulla testa, immersi nell’assordante fracasso dei motori che spingevano affinché potessero salire sempre più su, là, oltre le nuvole, dove il sole non cessa mai di splendere, illuminando gli sguardi ansiosi dei passeggeri che, a quelle altezze, godono di un magnifico spettacolo.
L’aeroporto era sempre lo stesso: immense pareti grigie e bianche separavano il mondo circostante da quel crocevia di addii e ritrovi.
Lì, dove non c’era mai un attimo di calma, miriadi di destini si incrociavano quotidianamente, ignari gli uni degli altri.
Il tabellone segnalava che il volo tanto atteso era finalmente atterrato.
Investito da quella mistura di odori che univa l’aroma del caffè alla fragranza della pizza appena sfornata, Paolo stava in piedi davanti la porta che lo avrebbe separato ancora per poco dalla sua bambina.
Avrebbe dovuto trovare le parole più adeguate per spiegare a Martina tutto quello che era accaduto negli ultimi mesi e la triste novità che li aveva investiti come e più di un treno in corsa.
Ci sarebbe riuscito, lo avrebbe fatto per gradi, ma sua figlia sarebbe stata messa al corrente.
Le porte si spalancarono e pian piano iniziò la sfilata dei passeggeri che perdevano i loro sguardi nella spasmodica ricerca dei volti amici; ad attendere molti di loro c’erano abbracci e lacrime di gioia.
Paolo amava l’aeroporto perché era un luogo che, inconsapevolmente, lo rendeva spettatore della commozione altrui, prendendolo fin dentro l’anima: era impossibile rimanere indifferenti davanti all’abbraccio di un padre, di una madre, di un marito, davanti a quelle scene che facevano della vita un’opera teatrale nel momento stesso in cui il ritrovarsi, o il separarsi, faceva venir fuori il fiume in piena dei sentimenti che non poteva e non doveva essere arginato, considerato il tempo esiguo che avrebbe condotto i viaggiatori là, oltre gli alberi e i grattacieli.
Trascorsero una manciata di minuti prima che l’arrivo di Martina potesse riportarlo alla realtà. Aveva trentuno anni, ma quel suo modo di sorridere la faceva apparire poco più che quindicenne. Si ritrovarono abbracciati.
Tutti i discorsi che Paolo si era preparato qualche attimo prima furono improvvisamente cancellati dalla sua mente, per lasciar spazio soltanto all’istintività di un abbraccio che trasudava amore al punto tale da rendere superflua ogni sillaba.
Persi nella sacralità di quel contatto, sembravano essersi completamente dimenticati di tutto ciò che li circondava.
«Papà! Sono felicissima di rivederti!», la sua voce ruppe il silenzio nel quale si erano rifugiati.
«Martina, finalmente! Questi ultimi mesi sono sembrati interminabili. Ho contato le ore, i minuti e persino i secondi che mi separavano dal riabbracciarti», le rispose commosso Paolo.
«Papà adesso sono qui e voglio che questi dieci giorni siano indimenticabili. Ma dov’è mamma?», chiese la giovane delusa per l’evidente assenza.
Paolo esitò per un istante, quindi prese la parola rivolgendo lo sguardo verso l’uscita.
«Tesoro mio ricordi che ultimamente la mamma non riusciva a parlarti al telefono per via delle sue forti emicranie? Ecco, anche oggi purtroppo ne è arrivata una e non si è sentita di affrontare il viaggio ma…», si interruppe un istante cercandole la mano, «stai pur certa che non vede l’ora di riabbracciarti!».
Aveva sempre creduto che nulla al mondo fosse più vile della bugia, ma in alcuni casi riteneva che si potesse chiudere un occhio perché, a volte, le menzogne a fin di bene riescono a proteggere le persone amate dal dolore di una realtà troppo cruda da mandare giù.
Martina non aveva capito nulla; l’espressione serena di suo padre non le dava modo di immaginare che qualcosa non andasse per il verso giusto.
Paolo prese il trolley rosso della sua bambina, non riuscendo a fare a meno di osservarla mentre si perdeva nella contemplazione di tutto quello che tempo prima aveva lasciato.
Era ancora più bella.
Quei lunghi, morbidi capelli biondo cenere le si adagiavano delicatamente sulla spalla destra lasciando in bella vista il profilo di un’incantevole bambolina in porcellana dagli occhi verdi e l’abbigliamento casual raccontava di una fresca semplicità.
No, Martina non avrebbe avuto bisogno di tacchi a spillo e vistosi make up, lei, pensava Paolo, era già stupenda così.
Una volta presa l’auto dal parcheggio, uscirono dall’aeroporto.
Né il caldo, né tantomeno il traffico avrebbero potuto rovinare quel momento unico.
II
Martina, che non aveva per niente perso le proprie abitudini, ci mise un attimo ad accendere la radio.
Paolo, in realtà, non la utilizzava mai; credeva fermamente che la musica moderna non facesse per lui che invece era cresciuto a pane e Opera
, come amava raccontare a tutti.
Ma non disse nulla, per la sua bambina avrebbe accettato tutto, persino quelle melodie infernali. Le stringeva la mano, tenendola sotto la sua, poggiata sul cambio: non l’avrebbe lasciata per un secondo di quei miseri dieci giorni che li avrebbero visti insieme, neanche per cambiare marcia.
«Papà quanto mi è mancata questa tua mano. Ricordi che mi tenevi esattamente così quando mi accompagnavi a scuola?».
Paolo si commosse al ricordo di quei tempi andati in cui non c’erano distanze tra loro, quei tempi in cui bastava portarla in braccio per proteggerla dal resto del mondo.
«Sì, piccola. Non potrei mai perdere le mie abitudini di sempre. Hai trentuno anni, ma sappi che per me rimani e rimarrai la bambina di allora, nonostante io sia perfettamente cosciente del fatto che lì, oltre l’oceano, tu abbia la tua vita da donna e, chissà, magari anche un uomo… », disse simulando una strana, imbarazzata tosse.
Martina comprese il sentimento del padre e cercò subito di cambiare discorso.
«Papà ma che vai a pensare! Lì in America c’è, in effetti, un grande amore e si tratta del mio lavoro. Per quanto riguarda l’uomo della mia vita, sai benissimo che, mantenendo la promessa di tanti anni fa, un giorno non lontano ti sposerò!», così dicendo scoppiò in una fragorosa risata.
«Brava! Come no! Prenditi pure gioco di questo vecchio!», le rispose lanciandole uno sguardo stizzito.
«Dai papy… non arrabbiarti! Ho trentuno anni, non sono più una bambina. So perfettamente badare a me stessa!». I suoi occhi da cerbiatta imploravano la comprensione che non tardò ad arrivare al suono di una complice risata.
Il paesaggio tutt’intorno era completamente immerso nella moltitudine dei raggi del sole che sferzavano l’aria in ogni suo millimetro.
Il cartello stradale a pochi metri da loro indicava chiaramente che l’uscita per casa doveva essere presto imboccata.
Martina la osservava con occhi sognanti mentre, allegramente, canticchiava la canzone che lo speaker aveva da poco presentato come la prima nella classifica della top ten mondiale.
«Papy ci siamo!», gli si rivolse indicando l’uscita.
Paolo non avrebbe voluto deluderla, ma fu più forte di lui: non mise alcuna freccia e continuò dritto per la strada senza neanche simulare una frenata.
Martina spense all’improvviso la radio e, con essa, anche il suo sguardo.
«Papà hai sbagliato! L’uscita era proprio lì! Dove stai andando?», credeva che quell’uomo avesse improvvisamente perso il senno.
Iniziò ad agitarsi, fin quando Paolo decise di aprir bocca.
«Piccola mia, non temere. La mamma non si trova a casa», le parole si facevano sempre più caute e uscivano a fatica. «Ho deciso di portarla in un centro specializzato perché potesse trovare un rimedio al forte dolore delle sue emicranie», continuava a mentire, «a breve ti porterò da lei, ma prima concedimi una piccola deviazione», il suo sguardo emanava un’insolita tenerezza, rivelando un’infantile sensibilità alla quale Martina non riuscì a non arrendersi.
Quella giovane donna non avrebbe mai immaginato che le emicranie potessero rendere necessario un ricovero.
«Capisco papà! Potevi dirmelo prima. Ok! Allora andiamo subito da mamma».
Imboccarono un’uscita a circa trenta chilometri dal loro paese e proseguirono oltrepassando l’intera città.
Martina, sempre più perplessa, scrutava il paesaggio tutt’intorno a sé nella speranza di scorgere lontanamente una qualche struttura che potesse anche solo somigliare a una clinica.
Certa che suo padre sapesse perfettamente ciò che stava facendo, non si permise di proferir parola fin quando si vide scorrere alle spalle tutte le costruzioni possibili: da quel momento solo aperta campagna.
L’asfalto lasciava pian piano la scena al selciato che, malconcio, conduceva in un’unica direzione: un sentiero sterrato che non avrebbero potuto percorrere in auto.
«Papà adesso inizio ad avere paura. Ti prego, dimmi dove stiamo andando, io non vedo nessuna clinica né ospedale qui intorno», il respiro si faceva ansante per l’inquietudine che la giovane avvertiva.
Comprendendo lo stato d’animo della figlia, decise di svelarsi.
«Tesoro mio non temere, papà non è mica impazzito! Adesso scendiamo e proseguiamo a piedi. Hai con te la macchina fotografica?», le chiese, custodendole il viso nel rassicurante e delicato tocco del palmo delle sue mani.
«Sai bene che non me ne separo mai… ma, non capisco, vuoi che fotografi qualcosa? Cosa c’entra tutto questo con la mamma?». Martina, più spaesata che mai, annaspava nell’incredulità.
La celeberrima stravaganza del padre continuava a colpirla nonostante l’età: lui che amava la teatralità, i colpi di scena, lui che viveva la vita all’insegna del sentimento vero, puro, lui che aveva vissuto sino ad allora ispirato da un unico motto: fa’ che la tua vita sia come l’Opera
.
Martina prese tutto quanto e, dopo aver chiuso l’auto, i due si incamminarono lungo il sentiero sterrato.
Paolo le rivolgeva frequentemente lo sguardo, cercando nei suoi occhi una serenità che, però, non riusciva a far capolino: Martina sospettava che ci fosse qualcosa di inconsueto nell’atteggiamento del padre e che, probabilmente, a breve, sarebbe stata informata del motivo di cotanto mistero. Era impossibile non sudare sotto la calura di quel giorno d’estate rovente: non era di certo il momento più adeguato per affrontare una passeggiata del genere in aperta campagna.
Dopo circa un quarto d’ora, i due giunsero a un bivio nel quale un’arrugginita e lacera insegna lasciava intravedere una scritta.
«Leggi un po’ Martina. Dove ci troviamo?», ruppe il ghiaccio con queste parole.
La giovane, sbigottita, si avvicinò all’insegna nel maldestro tentativo di ripulirla con l’aiuto di un kleenex; ci volle qualche minuto prima che la scritta divenisse chiara e leggibile.
«Vallaida… ehm, credo che indichi una sorte di valle; tu conosci questo posto suppongo», gli disse, accennando una strana smorfia di incertezza.
Paolo sorrise, i suoi occhi lucidi parlavano inequivocabilmente di un qualche ricordo lontano; sembrava che lì, in quel luogo immerso nella natura, avesse lasciato un pezzo del suo cuore e che adesso, non si sa per quale ragione, tornasse a riprenderlo.
«Sì, conosco molto bene quel posto. Andiamo, fra pochi minuti saremo lì!», le rispose laconico.
Insetti di ogni tipo tracciavano la circonferenza del suo corpo ronzandole intorno prepotentemente: Martina li detestava, le provocavano da sempre il voltastomaco e, anche se era perfettamente cosciente del fatto che fossero decisamente innocui rispetto a bestie di grossa taglia, non riusciva a fare a meno di agitare le mani nel vano e goffo tentativo di cacciarli.
Il timore che un qualche essere strisciante la potesse sorprendere lungo il cammino la costringeva a inchiodare lo sguardo per terra, allontanandola dal proposito di urlare tutto il suo disagio.
In breve tempo giunsero a destinazione: un’ampia vallata si stagliava sterminata ai loro occhi.
Un’arsa e secca vegetazione si mescolava a ruderi e detriti creando, al centro, una sorta di enorme cerchio contenitore di distruzione: sotto i raggi cocenti del sole si propagava un leggero odore di bruciato che ristagnava in tutta la vallata in quella giornata afosa, priva di quel venticello che avrebbe potuto lavar via l’odore di morte e distruzione che si percepiva all’interno di quell’insolito circolo.
«Oh mio Dio, papà, non dirmi che è opera degli alieni!», il suo sguardo atterrito implorava un qualche chiarimento da quell’uomo che, invece, continuava a sorridere commosso alla vista di tutto quanto.
«Ma quali alieni e alieni», così dicendo si diresse verso due enormi massi posti al di là della circonferenza.
Martina lo seguì in silenzio.
Lui vi si sedette sopra, invitando la giovane a fare lo stesso; poi la prese per mano e cominciò a parlare.
«Mia adorata bambina, non puoi conoscere questo posto: tua madre non mi ha mai permesso di portarti qui perché temeva che questo campo di ruderi, mescolato all’odore tanto nauseabondo di bruciato, potesse spaventarti, ricreando nella tua mente un’immagine diversa dalla mia, che ti avrebbe soltanto causato incubi; al contrario, invece, di tutti i sogni che a me ha regalato e continua a regalare», le sue parole trasudavano pacatezza e, insieme, commozione.
Martina, stupita, continuava a rimanere in silenzio, agitando di tanto in tanto le mani per cacciare via quelle fastidiose mosche.
«Potresti provare ad alzarti e scattare alcune foto tutt’intorno?», le chiese.
«Papà non vorrai mica regalare a mamma queste immagini. Non lo trovo per niente romantico e, in più, qui intorno è tutto distrutto, sembrerebbe un reportage di guerra, te ne rendi conto?», cercò di farlo rinsavire, di farlo desistere da quel macabro proposito.
«Tesoro mio, te ne prego, a breve capirai il perché».
Martina non poté far altro che mettersi in piedi sul masso e iniziare a scattare fotografie del paesaggio circostante.
Il suono che la macchina fotografica produceva a ogni scatto ridestava in Paolo una gradevole sensazione di pace: la sua bambina avrebbe impresso in maniera indelebile quelle scene che l’avrebbero ricondotto al suo passato.
Terminati gli scatti, Martina si sedette al suo fianco e gli mostrò le immagini. Suo padre rimaneva estasiato davanti alla possibilità di rivedere all’istante le fotografie direttamente su quello che lui spesso definiva aggeggio fotografico
.
«Io ancora mi ostino a conservare i rullini! Guarda là, dove siamo arrivati!», così esordì Paolo mentre il suo sguardo stupito divertiva tanto sua figlia che, adesso, gli mostrava orgogliosa le magie che quell’aggeggio
riusciva a creare.
Le tinte delle foto potevano essere modificate a proprio piacimento: il bianco e nero ne risaltava l’aspetto bellico, il seppia invece faceva apparire tutto, forse, un po’ romantico, lo sfumato ne esaltava l’alone di mistero.
«Adesso, papà, credo che sia arrivato il momento delle spiegazioni, non credi?», cedette alla necessità di scoprire non uno, ma i tanti perché della loro presenza in quel luogo mai visto prima.
«Martina, oggi voglio raccontarti una storia. La mia!», disse accarezzandole dolcemente il volto un po’ arrossato dal sole.
La giovane rimase in silenzio chiedendosi, però, cosa ancora non sapesse di suo padre.
Dopo aver preso un bel respiro, Paolo cominciò.
«Ero ancora in fasce quando mi portarono qui, all’interno di questa immensa valle. Ogni singolo centimetro di questa terra è stato spettatore della mia infanzia, compagno di gioco dei miei anni più teneri; ricordo, proprio come fosse ieri, quelle folli corse a perdifiato sul prato fresco di rugiada, con i piedi umidi e vogliosi di spingersi sempre più in là, oltre ciò che oggi vedi e che, allora, mi apparteneva al punto tale da sentirlo scorrere in me come fosse linfa vitale. Quello che per te rappresenta la devastazione, in realtà, fu, in tempi ormai andati, florido e rigoglioso regno di gioia e speranza, fu culla su cui figli di madre divina si adagiarono stringendo tra le braccia sogni di gloria, fu luogo d’incontro che superbamente unì realtà a finzione al punto tale da confonderne i confini, donando agli spettatori l’incanto di magiche atmosfere», così, fiero, si esprimeva al cospetto di Martina, gesticolando animatamente come se, più che parlarle, stesse recitando un monologo.
«Figlia mia, non stupirti del mio ardore, ma questo luogo è figlio di una madre divina… l’arte… l’arte della recitazione e del bel canto», le sue parole confondevano ulteriormente la giovane che, adesso, si sentiva più disorientata che mai.
«Papà vuoi dirmi qualcosa che c’entra con la tua passione per l’Opera?».
Paolo, annuendo, sorrise e continuò.
«Quelli che tu hai chiamato nonni per tanti anni, sì, proprio quei due amabili vecchietti che ti hanno donato tutte le cure e le attenzioni possibili, in realtà, non erano legati a te o a me da un vero vincolo di sangue; ciò che ci univa era l’amore, quel grandissimo sentimento che erano capaci di donare a quella che per loro era la famiglia. Io ne divenivo figlio a distanza di un paio di mesi dal mio decimo compleanno, ritrovandomi a dover rinascere nel grembo di una nuova madre che tanto mi amava e mi attendeva da tutta la vita, quella stessa vita vissuta nel tormento di una logorante sterilità che, però, non faceva di lei una donna peggiore delle altre, perché quell’impossibilità nel procreare veniva compensata da un’immensa fertilità del cuore: la sua capacità d’amare sembrava non avere limiti», le parole di quell’uomo riempivano l’aria silenziosa, rapendo l’interesse di Martina che, sempre più inebetita, lo ascoltava con la mano destra poggiata sul petto, lì, dove il cuore accelerava pian piano il suo ritmo.
Paolo si stava aprendo, rivelando una verità che molti avrebbero narrato con evidente dolore e malinconia, ma non lui che aveva fatto dell’ottimismo il suo baluardo, arrivando inesorabilmente a contagiare chiunque gli si trovasse intorno.
«Cara Martina, quando persi la mia vera famiglia ero appena un ragazzino, un esserino che si ritrovava a dovere vivere la vita da solo, in balìa degli eventi che violentemente mi investivano facendomi capire che, per me, era ormai arrivato il momento di crescere, di metter via i balocchi e i sogni, di imparare a gettarmi in quel vuoto che i miei genitori avevano lasciato in me andandosene via in maniera tanto tragica, proprio qui a Vallaida», un insolito lampo di tristezza velò i suoi occhi.
Martina si sentiva sconvolta e anche un po’ irritata per la verità che le era stata da sempre taciuta, ma aggredire il padre con le sue parole non avrebbe condotto a nulla di buono; avrebbe dovuto continuare ad ascoltare quella storia che, innegabilmente, la turbava, andando a mettere in discussione le sue stesse radici.
«Martina so che le mie parole ti stanno travolgendo, riportandoti a una realtà che tu hai sempre creduto essere diversa; ho promesso a tua madre che mai ti avrei svelato il mio segreto, ma credo che sia arrivato il momento di venir meno al patto, sono sicuro che lei capirà», così dicendo rivolse un malinconico sguardo al suolo.
«Mio padre era un grande tenore, lo ricordo ancora nei suoi abiti di scena: spade, corazze, elmetti. Casa nostra non era grandissima, ma a ogni angolo un elaborato costume la faceva sembrare un teatro in miniatura. L’aria profumava d’arte, di passione per il teatro, per l’opera in musica, al punto tale che mia madre aveva confezionato una tendina in morbido velluto rosso che, fungendo da sipario, sostituì in men che non si dica la porta che divideva il salottino dal corridoio». Una risata gli sfuggì a sottolineare quanto stravaganti ritenesse i gusti dei suoi genitori.
Martina lo fotografò a sua insaputa; la gioia che in quel momento Paolo riusciva a trasmettere con quello sguardo che scrutava l’orizzonte, come fosse in attesa di un’improvvisa visione o un ritorno, diveniva talmente palpabile che non sarebbe sfuggita al suo obiettivo.
«Mia madre era molto giovane quando si conobbero. Aveva appena quindici anni ed era bellissima pur non essendo una stangona ossuta di quelle che si vedono oggi in televisione o sulle copertine delle riviste. Nel suo metro e sessanta custodiva generose fattezze, morbide curve che risaltavano la sua condizione di giovane donna appena sbocciata alla vita adulta, quella non più fatta di bambole e fiabe. A quell’età le giovani si aprono all’amore, vivono in maniera differente la propria femminilità, avvertendo fortemente il desiderio d’esser oggetto d’attenzioni non più paterne.
I miei nonni materni non erano benestanti e, come puoi immaginare, crescere sette figli con uno stipendio di poche centinaia di lire non era semplice: la penuria economica impedì a tutti quanti di affrontare gli studi e, così, mia madre e i miei zii cominciarono a lavorare da subito. I miei nonni soffrivano nel vedere i figli strappati ai loro sogni d’infanzia, ma per portare un