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L'uomo in oro: Vita ambigua di Friedrich Minoux nella villa dell'Olocausto
L'uomo in oro: Vita ambigua di Friedrich Minoux nella villa dell'Olocausto
L'uomo in oro: Vita ambigua di Friedrich Minoux nella villa dell'Olocausto
E-book399 pagine5 ore

L'uomo in oro: Vita ambigua di Friedrich Minoux nella villa dell'Olocausto

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Info su questo ebook

Una vita come una favola, Friedrich Minoux (1877-1945), figlio di un sarto di paese, orfano a quindici anni, ha un talento straordinario per gli affari, viene pagato due volte il suo peso in marchi oro durante la disastrosa inflazione della Repubblica di Weimar, quando un uovo arriva a costare dieci miliardi, i tedeschi hanno fame, e Friedrich diventa ricchissimo.
Ma con il denaro non potrà avere la donna che ama. Rifiuta di aiutare Hitler, i nazisti confiscano la sua villa sul lago a Berlino, dove Eichmann tiene nel gennaio del 1942 la conferenza per lo sterminio degli ebrei. Finisce in carcere, fino alla sconfitta del Terzo Reich, e il mago della finanza, l’uomo d’oro, morirà di fame.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2023
ISBN9788861559547
L'uomo in oro: Vita ambigua di Friedrich Minoux nella villa dell'Olocausto

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    Anteprima del libro

    L'uomo in oro - Roberto Giardina

    Roberto Giardina

    L’UOMO IN ORO

    Vita ambigua di Friedrich Minoux

    nella villa dell’Olocausto

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-954-7

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2023

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Per Fernanda, Helene e Christine

    Dove l’amore impera, non c’è desiderio di potere,

    e dove il potere predomina, manca l’amore.

    L’uno è l’ombra dell’altro.

    Carl Gustav Jung

    PRIMA PARTE

    1

    La nipote della strega

    Christine a sei anni scoprì di essere nipote della strega. Non provò paura, alla sua età si può essere orgogliosi di averne una in famiglia. Nelle fiabe incontrava streghe buone, che portano doni o stordiscono principi un po’ tonti per farli giocare con te, ma quella che abitava sotto il suo tetto era cattiva. Tutto il paese la temeva, gli uomini e le donne non osavano guardare negli occhi sua nonna, die Hexe.

    Al buio, prima di addormentarsi nella stanza al pianterreno, nell’angolo sul bosco, udiva i passi della nonna nella camera sopra la sua, un rumore molle, accompagnato dal colpo del bastone sulle doghe del pavimento. Flop, toc, flop, flop, toc. Silenzio, toc. La strega si era fermata. Christine tratteneva il respiro. La strega sarebbe andata verso destra, alla finestra, o indietro verso la porta, flop, toc, toc finché Christine fosse scivolata nel sonno fitto di sogni.

    Negli anni dopo la guerra, nel giardino della villa regalata alla nonna da Onkel Minoux, coltivavano patate, zucchine, pomodori. I fiori erano uno spreco. La villa apparteneva al nonno – perché sono gli uomini a gestire gli affari – ma anche lui sapeva chi era la vera proprietaria, la destinataria del dono di zio Minoux. Christine nei suoi primi anni conobbe solo guerra e dopoguerra, questa era la vita. Nulla più prezioso del cibo, sempre non sufficiente. Quel che c’era, lo lasciavano a lei. La madre, il padre, i nonni la guardavano mangiare. Lei non si saziava mai, perché mangiava la loro fame.

    Zio Minoux apparteneva al passato felice. Quando c’era Onkel Minoux, ci avrebbe pensato zio Minoux, non mancava nulla con lui. Il nonno, suo padre e sua madre ripetevano: Se ci fosse ancora zio Minoux! La nonna taceva, la nonna sorrideva, perché zio Minoux apparteneva a lei. Christine lo comprese da quando cominciò a comprendere. Perché zio Minoux amava la nonna, da sempre, fin dal primo incontro. Un amore ostinato, che resisté agli anni e che lei, la nonna, mai corrispose.

    Una strega non ama, una strega non si ama, una strega ti strega, sussurrava Christine, una nenia per dormire. La storia di zio Minoux era la storia preferita, la chiedeva ogni sera, attenta che non cambiassero le parole. Una fiaba è di cristallo, cambi una parola, e va in frantumi.

    Guardava le foto: zio Minoux seduto alla scrivania smisurata, zio Minoux adagiato sulla sedia a sdraio, in giardino, un braccio piegato sotto la testa, zio Minoux accanto a zia Lily, più alta, imponente, ma a comandare sono gli occhi di zio Minoux. Foto che vengono da un mondo color seppia, da un giardino, da una villa in riva a un altro lago.

    Nonna, era buono lo zio Minoux?

    E perché ti fa sempre regali, lo zio Minoux?

    E perché non hai sposato lo zio Minoux, se era buono lo zio Minoux?

    Perché non era bello lo zio Minoux, risponde la nonna, la strega.

    Si amano gli uomini belli, come il nonno Jürgen. Non è bello il nonno Jürgen? Quando Christine voleva sapere, era già morto Onkel Minoux.

    Era bellissimo il nonno, alto, snello, i capelli candidi e splendenti, come nelle foto dove aveva i capelli biondi e lucenti. Lo zio Minoux non era bello. Era ricchissimo. Il più abile di tutti, e un uomo ancora più ricco gli pagava ogni anno il suo peso in oro. Quanto pesava Onkel Minoux, chiedeva Christine.

    Non era ricco quando sua nonna, la strega, gli disse di no. Se ne pentì? Non l’avrebbe mai ammesso la nonna. Christine questa domanda non la fece mai, a sei anni le bambine hanno già l’intuito delle donne.

    I nonni litigano tutta la notte, nella camera sotto il tetto. Christine non comprende le parole filtrate dal pavimento di legno. La voce maschile monta con lentezza, un’onda gonfia di parole. La nonna risponde. Una frase breve, scandita, acuta. Segue il silenzio, fino alla risposta, ancora il silenzio. Un duetto, dagli intervalli sempre più brevi. La voce di lui, la voce di lei, quella calda quella gelida, non si soprappongono. Christine, sul limite del sonno, ha l’impressione che ognuno parli a se stesso, in uno specchio. Lunghe parole roventi, brevi parole fredde, e il silenzio.

    Di notte in notte, si abituò. Forse non litigavano dal tramonto all’alba, ma Christine sentiva le voci quando calava il buio, le riudiva al risveglio. I nonni non andavano a dormire?

    Il nonno fu preso dalla gelosia all’inizio dell’estate in cui Christine imparò ad andare a vela sul lago, e i tedeschi divennero campioni del mondo.

    Non hanno la televisione nella villa che testimonia un passato di splendori, i genitori lo ricordano, e lei li ascolta. Christine sospetta che padre e madre, e i nonni, un poco esagerino. O molto.

    A Diessen, il negozio di Herr Fildeiss che vende di tutto – caramelle americane, ferri da stiro – ha esposto una televisione in vetrina, la gente si schiaccia contro il cristallo per seguire la finale.

    Il 4 luglio del 1954, in alta Baviera, fu una giornata di caldo umido. Christine andò al lago perché era troppo piccola per riuscire a vedere qualcosa tra la selva di gambe e di schiene davanti al negozio di elettrodomestici. Il calcio allora non le interessava. Si appassionò molti anni dopo, ma sosteneva i perdenti, con disappunto degli amici, o dei compagni, tifosi del Bayern München, squadra noiosa abituata alle vittorie.

    Si ritrovò sola sul pontile. Attese i compagni e il maestro di vela. Non venne nessuno. Gli optimist in legno lucido (la plastica appartiene al futuro) ondeggiano alla brezza che giunge dall’altra sponda, e fa vibrare il canneto contro la riva. Non l’avvertirono, davano per scontato che lei capisse. Non si va in barca a vela nel giorno della finale.

    Non sarebbe venuto nessuno, rimase seduta sul pontile per assaporare la solitudine. Non era delusa, o arrabbiata con Jürgen, il maestro. Si fece pagare solo dai pochi turisti che cominciavano a tornare a Diessen. Ai ragazzini del posto insegnava per passione.

    Dal centro del paese scoppi d’urla rotolavano fino a lei, e si spegnevano sulla superficie del lago. Le anatre infastidite si ritiravano al sicuro nel canneto. Urla di rassegnazione e di rabbia, urla acute di gioia. E un lungo mormorio. Giunse un urlo senza fine, lo spiazzo dietro il pontile si riempì, uomini eccitati si abbracciavano. Anche le donne. Christine comprese, questa era la felicità.

    Il nonno correva tra la folla, spingeva, veniva risospinto indietro, si fermava, riprendeva la corsa, di scatto. Dove corre il nonno? Inseguiva un ometto. Christine lo riconobbe. Herr Engel, il calzolaio. Il suo nome non era Engel, in paese lo chiamavano Engel perché era un angelo che resuscitava le scarpe a pezzi, moribonde, perfino gli stivaletti della nonna, quelli con bottoni infiniti, sopravvissuti al passato felice. Herr Engel correva avanti, era spaventato, eppure ogni tre o quattro passi si voltava, rideva. Stava giocando con il nonno? Litigavano per la partita di calcio? Litigano sempre gli uomini per il calcio, rifletté Christine.

    Correvano tra la folla, le giungevano vicino, il nonno impugnò la baionetta, gridò: Fermati, fermati, ti uccido. La baionetta della guerra, che teneva tra i libri nello scaffale dietro la scrivania. Un’arma antica di un’altra guerra, c’è sempre una guerra.

    Un gioco, la gente intorno rideva. Arrivò la nonna, andava tra la gente, per strada, avvolta nella vestaglia rossa di seta, sembrava che indossasse un abito da sera nel pomeriggio d’estate. Senza una parola, prese il nonno per un braccio, lo trascinò via. La baionetta cadde sul selciato con un suono secco. La nonna la raccolse, e se la strinse contro, la punta verso il basso. Qualcuno applaudì, tutti smisero di ridere. Quella sera gli uomini si ubriacarono, e anche le donne. La Germania era campione del mondo.

    La villa di Christine era al margine del paese tra l’Ammersee e la strada provinciale che conduce a Herrshing, sull’altra sponda. Ogni pomeriggio, prima di sera, il nonno usciva dal cancello per sfidare a duello Engel, il calzolaio. Tutto il paese rideva. L’angelo e la strega, gli amanti. Chi può amare una strega? Christine soffriva per il nonno, pazzo di gelosia.

    Un giorno il nonno indossò la divisa d’ufficiale, quella del Kaiser. Era orgoglioso della sua taglia rimasta quella di gioventù, alto, nervoso. Ritrovò l’uniforme in soffitta, la stese alla finestra, lasciò che per una notte il vento dal lago portasse via l’odore degli anni. Il suo corpo aveva resistito al tempo, ma la stoffa gli si disfece addosso, prima che potesse uscire dal giardino, che la mamma aveva trasformato in orto. Non risero, perché scorsero le lacrime negli occhi di quel giovane dai capelli candidi.

    Quando il caldo si smorzò, giorno dopo giorno, il nonno salì in paese per uccidere Engel il calzolaio, l’amante della moglie, urlando lungo la strada. Qualcuno corse ad avvertire Engel, che già aveva sentito le urla avvicinarsi. Il nonno trovò il negozio chiuso, sbraitò innanzi alla porta: Vieni fuori vigliacco, non sei un uomo.

    Ma non cercò mai di infrangere la piccola vetrina. Lo spettacolo finì per annoiare i paesani e i villeggianti, che venivano da Monaco. Che cosa sarebbe avvenuto se Herr Engel una sera fosse uscito ad affrontare il rivale? Una gelosia assurda. Il calzolaio era minuscolo e fragile, e la nonna, giudicava Christine, non era una bella donna che potesse conquistare un uomo. Una strega curvata dagli anni.

    Il nonno teneva gli stivaletti in alto, li lasciava dondolare innanzi mentre saliva al paese con passo militare. Erano la prova del tradimento. Perché la nonna andava da Herr Engel a farli riparare così spesso? Per amoreggiare tra le scarpe vecchie nel retro del piccolo negozio. Comprami un paio di stivali nuovi, Jürgen, gli rispondeva la nonna. E un’ombra oscurava lo sguardo di quell’uomo ancora affascinante al termine della vita.

    Gli stivaletti li comprò Onkel Minoux a Parigi per la nonna, ricorda la mamma.

    E lei non li provò? Christine si meraviglia. Onkel Minoux conosceva il suo numero?

    Era anche lei a Parigi, con il nonno, andarono tutti a Parigi, anche la zia Lily, la moglie di Onkel Minoux. Erano tempi felici.

    Christine confusamente capì che era meglio non chiedere perché il nonno non fosse geloso di zio Minoux che regalava gli stivaletti. E volesse uccidere Herr Engel che cambiava i tacchi consunti agli stivaletti venuti da Parigi.

    Tu credevi alle favole, non ricordi?, spiegò la mamma. I bambini vogliono credere alle fiabe. E quando si diventa vecchi come i nonni si inventano nuove favole per vivere. La gelosia del nonno è la sua fiaba. E tutti alla fine sono felici.

    Anche il calzolaio?

    Herr Engel, la mamma sorrise, è felice di recitare la parte del principe azzurro.

    Christine scoprì che alcune fiabe sono senza lieto fine. E altre senza una fine.

    La zia Lily arrivava di tanto in tanto senza preavviso da Garmisch, rifugio per ricchi, sulla sua auto larga, alta, colore di sangue scuro, un’auto scoperta di prima della guerra. La zia Lily era la vedova di Onkel Minoux. Quando risalì in auto e tornò a scomparire, Christine sentì i commenti, ammirati, invidiosi.

    Onkel Minoux le affidò il suo tesoro, e lei riuscì a nasconderlo. I nazisti avrebbero preso tutto, dopo avrebbero preso tutto i liberatori. Ora sapeva chi fossero. Da piccola, faceva confusione. Lo zio Minoux, capiva, si era battuto contro il mondo intero.

    Se chiedeva perché, non le rispondevano. Dopo capirai, diceva la madre.

    La zia Lily assomigliava alla sua auto, era alta, larga, indossava vestiti di seta scollati sul seno oscillante e opaco per la cipria. Le sembrava che la zia fosse in maschera, che portasse un corpo ingannatore su un corpo autentico.

    Comprese da adulta, quando tutti erano scomparsi. Onkel Minoux aveva sposato la sorella del nonno, non una semplice sorella. Zia Lily era la gemella del nonno. Una somiglianza inquietante. Christine vedeva in lei un riflesso del nonno. Aveva un volto deciso zia Lily, un’espressione che affascinava. Lineamenti virili, il corpo vigoroso, come il nonno.

    Zia Lily giunse nel pomeriggio dell’ultima domenica d’estate. Sedeva dietro, al centro, tenendosi il cappello dalle falde smisurate, perché non volasse via nel vento della corsa. Al volante, l’autista calvo e piccolo, il collo teso per scorgere la strada oltre il volante. Parcheggiò con uno stridore nel giardino tramutato in orto. Non si mosse finché l’autista non le aprì la portiera con gesto volutamente teatrale. Lei strinse sotto le braccia i due cagnolini che portava in grembo, uno a destra, uno a sinistra, piccoli cani dal grugno sdegnoso. Erano carlini, nome buffo. Anche i palpitanti abiti di zia Lily erano di prima della guerra.

    Il suo arrivo mise in agitazione la famiglia. Il nonno abbracciò la sorella, la nonna non la guardò, la mamma offrì la torta fatta con le sue mani, che non le riusciva mai alla perfezione, molliccia, o secca si sbriciolava sotto il cucchiaino. Prima della partenza, offrirono alla zia, che aveva tutto, quel che coltivavano in giardino.

    La mamma porse alla zia un cestino con quattro uova. Avevano anche un piccolo pollaio sul retro, nascosto da un cespuglio. La mamma si vergognava di tenere un pollaio nella villa. La zia Lily pose il cestino davanti sul tavolo dai piedi di ferro e la superficie di marmo, in giardino. Si lamentava dell’auto comprata da zio Minoux, troppo grande, troppo pesante, la benzina costava.

    E non riuscì a superare l’ultima curva nella salita per giungere alla villa, sospirava, proprio non ce la faceva. Vecchia? Non ce la faceva neanche appena comprata. Venderla? Chi avrebbe voluto un’auto di prima della guerra?

    Zia Lily prese un uovo, lo ruppe contro il bordo del tavolo, lasciò che il tuorlo scivolasse dal guscio sul pavimento innanzi al carlino. Il cane l’inghiottì. La zia una dopo l’altra ruppe le uova e le diede ai piccoli cani che andavano perdendo il pelo, a chiazze. Poi se ne andò, lasciando i gusci sul pavimento. Niente frittata per Christine quella sera.

    Di notte la strega non si mosse. Il silenzio inaspettato la inquietò, le impediva di dormire come il toc toc del bastone sulle doghe. La strega era in agguato avvolta dal buio. Christine si addormentò quando prese a piovere, e dalla finestra socchiusa la stanza fu invasa dal sentore dell’erba calda d’agosto che s’impregnava d’acqua.

    Trovarono la nonna vestita distesa sul letto, le lenzuola spinte via, un grumo ai suoi piedi. E non si era tolta gli stivaletti di Onkel Minoux, riparati da Engel con amore, anno dopo anno.

    La strega morì o si lasciò morire? Alla domanda Christine da adulta non seppe mai rispondere. O non volle. Il nonno scomparve due settimane dopo. Non ricordava la sua morte, solo che ci furono due funerali. Al cimitero, per la strega e per il vecchio, che era bello come in gioventù fino all’ultimo dei suoi giorni, venne anche Engel il calzolaio. Nessuno rise.

    2

    La ragazza più bella

    Friedrich Minoux fu arrestato di sabato, il 4 maggio del 1940. Gli uomini di Reinhard Heydrich vennero a prenderlo nella sua villa mentre stava terminando la colazione. Offrì il caffè alle SS, che accettarono. Quando giunsero sul ponte in direzione di Berlino, Minoux guardò a sinistra verso il lago.

    Un battello avanzava con cautela tra le barche a vela.

    Non avrebbe più rivisto il Wannsee, e la sua villa. Lo comprese in quell’istante, nel brusco passaggio dal sole sul ponte all’ombra tra gli alberi del bosco. L’ufficiale gli sedeva a fianco, scambiava frasi di circostanza. Lo conosceva quel maggiore, uno degli aiutanti di Heydrich, non ne ricordava il nome, dunque un uomo senza importanza. Le mura del carcere erano in mattoni rossi.

    La prima notte in cella, Minoux non dormì, ma non fu una notte agitata. Per la prima volta da anni provò una pace profonda. La sua partita era finita. Come da bambino per tutta la vita aveva giocato solo contro se stesso, era sempre lui a vincere e a perdere, dove si fermasse la pallina non aveva importanza. Verso l’alba pensò a Julia, l’ultimo incontro, la festa per il suo compleanno. Lei indossava il costume bavarese, il dirndl dalla gonna verde, il corpetto dorato, che lui le aveva comprato quando erano tutti giovani. Julia era ancora dolorosamente bella, ormai non l’avrebbe mai avuta.

    Lo sapeva fin dall’inizio della loro storia. Un rapporto d’amore senza amore. Julia gli aveva donato qualcosa di più vitale del suo corpo, di una passione breve. Ma lo sono tutte le passioni. Un motivo per esistere.

    Nel gioco occorre una posta, nella vita uno scopo, e Minoux scelse la ragazza più bella che avesse mai incontrato. La lasciò a un altro, per non perderla, e salvare la sua vita. Un pensiero confuso prima dell’alba di domenica, sul pagliericcio della cella. Fu scosso da un soprassalto, benché non se ne fosse accorto, doveva pur aver ceduto al sonno.

    3

    La villa di Onkel Minoux

    La rivolta dei giovani cominciò a Monaco prima che a Berlino, e a Berlino prima che a Parigi. Christine lasciò la villa sull’Ammersee per una stanza nell’appartamento di giovani a Schwabing. Conobbe uno sconosciuto Fassbinder, si scontrò sulla Leopoldstrasse con i poliziotti che sfoggiano ancora l’elmo chiodato, e corrono impacciati dai lunghi cappotti in pelle verde. Belli e ingombranti. Manifestò contro Franz Josef Strauss, e contro la visita dello Scià a Berlino, pianse per l’uccisione del giovane Benno Ohnesorge. Anzi, esecuzione. Fu presa dallo sconforto per l’attentato a Rudi Dutschke, bruciò le copie della Bild Zeitung saccheggiate in un chiosco di giornali. Rimase interdetta alle prime azioni di Andreas e Gudrun. Avvertiva il sentore della sconfitta, arrivarono le vittime, poliziotti e compagni. Christine non condivideva ma continuava a chiamarli Gruppe e non Bande. Se fossero stati banditi perché incutevano tanto timore allo Stato?

    Non scese più a protestare per strada. Si batté contro i missili a breve raggio, si batté contro l’atomo, si batté per un mondo verde, con qualche dubbio: perché lottare contro tutto quel che le piaceva? Cadde il muro e sembrò che non ci dovesse più essere qualcosa per cui battersi, o contro cui battersi. Provò tristezza per i giovani del nuovo tempo, costretti alla noia.

    E all’età in cui si cominciano a contare i punti per controllare chi ha vinto, o perduto, per festeggiare l’anniversario del suo matrimonio tardivo, andò nella Berlino che da qualche anno era tornata unita. Provò nostalgia per il tempo della divisione, e non se ne vergognò. Nostalgia della sua giovinezza, non di canti rossi.

    Avevano vissuto a Berlino per periodi brevi, quando non si conoscevano. Pur abitando nello stesso quartiere, come scoprirono quando si conobbero anni dopo, non si erano mai incontrati. Lui e lei andarono al Wannsee per visitare la villa dell’Olocausto. Christine sapeva quel che tutti sanno. Qui, il 20 gennaio del ’42, Adolf Eichmann decise come attuare la soluzione finale.

    La colpa non si eredita, diceva lui, la colpa è individuale. Noi non eravamo nati.

    Christine aveva dei dubbi.

    Nel ’42, sarà stato un giorno di foschia, neve sporca sul parco spoglio, l’acqua grigia, lo sfondo giusto per l’orrore.

    Ai primi di giugno l’aria era fresca, il cielo terso, le barche a vela, il sole di primavera, decisero di pranzare nel locale di fianco al parco della villa. Trovarono un tavolo in riva all’acqua che aveva un altro colore rispetto al suo Ammersee, più cupa, con riflessi metallici. Signore accaldate sorseggiavano Berliner Wasser, rossa o verde, birra con lampone, birra con menta. Dolciastra, e a lei non piaceva.

    La villa?

    Alle nostre spalle.

    Sarà aperta?

    È sempre aperta.

    La villa era grigia al di là del cancello in ferro, che si aprì prima che suonassero il campanello. Quando entrò nel salone centrale, Christine fu presa dalla bellezza, il susseguirsi degli ambienti con le vetrate ampie sul parco e sul lago.

    Sull’altra sponda del Wannsee l’antico stabilimento balneare sembrava alla distanza di poche bracciate. Le immagini da idillio rendevano insostenibile il pensiero di quel che fu deciso nel salone. Christine lesse i documenti battuti a macchina, i fogli sbavati dal tempo, conservati sotto vetro nel tavolo lungo al centro della sala. Sulla parete, i volti incorniciati dei partecipanti alla riunione presieduta da Eichmann. Scelsero un bel posto per l’incontro. Lesse i loro nomi, spostandosi da destra a sinistra. Il salone terminava in un piccolo spazio ovale, un bovindo.

    Al di là dei vetri, cespugli di rose. Un mondo in ordine. Le foto all’estremità della parete, nell’angolo sul bovindo erano piccole. Un signore grasso dall’abito troppo stretto sedeva alla scrivania. Marlier costruì la villa, speculò, la perse, lesse nella breve didascalia.

    Nell’altra foto, quella che aveva visto da piccola, da sempre, il buon zio Minoux minuscolo accanto alla statuaria zia Lily. E le cugine, nella villa sul Wannsee, la villa dell’Olocausto. Lo zio Minoux che aveva regalato alla nonna la casa in cui era nata in Baviera, dove era cresciuta, ed ora viveva, aveva ospitato i mostri, viveva con i mostri. Sua era la villa dell’orrore.

    E il mondo per Christine appassì.

    Non ti senti bene?, la domanda giunse da un lontano presente.

    Lui.

    Lui?

    Era mio zio. Il buono generoso Onkel Minoux.

    4

    Il cliente migliore non paga il conto

    L’Europa è percorsa da una rete di cicatrici, nette o in apparenza invisibili. E incancellabili. I segni della storia. Su uno di questi confini instabili si trova Mutterstadt, paese del Palatinato, francese al tempo di Napoleone, tedesco dopo Waterloo, tornò a essere occupato dalla Francia nel 1918, fino all’ottobre del 1919. Nel 1923, le autorità militari francesi presero possesso della rete ferroviaria della regione per il mancato pagamento dei danni di guerra. In quell’anno, un movimento popolare tentò di proclamare l’indipendenza del Palatinato. Gli abitanti di Mutterstadt per protesta andarono a piedi, per non pagare il biglietto ai francesi.

    In questa terra dall’identità incerta, nacque e divenne uomo Friedrich Minoux.

    Le notizie sulla famiglia sono scarse, poco chiare. Il padre Michael, il sarto di Mutterstadt, nacque nel 1834, figlio di un calzolaio. Sposò Katharina, la figlia di un calzolaio, che morì nel 1872. Si risposò con sua sorella Margaretha. L’anno seguente nacque la prima figlia, Barbara. Il 21 marzo del 1877 nacque Friedrich.

    Monsieur Gilbert non era francese e il suo nome non era Gilbert. Così lo chiamavano per l’aria da gentiluomo parigino, come lo immaginavano in una cittadina di provincia tedesca alla fine del Novecento, e per l’accento morbido, forse naturale, forse artefatto. Monsieur Gilbert era un giocatore, piaceva alle donne, senza risultare odioso agli uomini, capita di rado, o quasi mai. Si vestiva con semplice ricercatezza – che nessuno riusciva a imitare, è il segreto dell’eleganza – ed era cliente del sarto Minoux. Saldava sempre le fatture, quando vinceva.

    Abitava nella stessa strada di Friedrich, nella casa di fronte, o quasi, un blocco più in là, verso la piazza. Dì a tuo padre di venire da me, senza forbici, gli diceva dopo una notte fortunata. Michael Minoux si affrettava, prima che la sorte tornasse a girare. Monsieur Gilbert era il miglior amico di Friedrich. In vita non gli regalò mai nulla, né gli offrì dolciumi, parlava con lui come fosse un adulto, da uomo a uomo. Gli donava massime che gli sarebbero servite nella vita.

    Era un cliente assiduo del padre, sarto apprezzato dagli uomini, meno abile con le donne, perché non si sprecava in complimenti durante le prove. Michael Minoux arrotondava vendendo le stoffe custodite arrotolate nell’armadio in soggiorno. Pezze dai colori sobri, rotoli di seta candida per le camicie. Quando Friedrich aveva otto anni, un’invenzione provocò un grave danno alla famiglia. Nei grandi magazzini giunse la seta artificiale, il padre non riuscì più a confezionare camicie in vera seta, troppo care. Le ordinava solo Monsieur Gilbert, ma il conto lo saldava di rado.

    Friedrich passava ore a osservare Monsieur Gilbert giocare alla piccola roulette sul tavolo in cucina. Non sapeva cosa fosse la ruota contornata da caselle colorate adagiata sul panno verde. Non era un gioco. Monsieur Gilbert prendeva note su un quadernetto rilegato in cuoio rosso diventato scuro per il sudore.

    Nessun gioco è un gioco, ricordalo Friedrich, amico mio, ammonisce mentre la pallina rotola. Nel gioco della vita, che non è gioco, nessuno vince, tranne chi sta dietro al gioco. Hai capito, mon pétit Friedrich?

    Rispose di sì, e mentiva. Monsieur Gilbert lo sapeva, e concluse: Soprattutto non credere che la verità sia l’arma per vincere. La verità è solo un bluff, cos’è un bluff? La verità è un trucco, che inganna solo chi crede di dire il vero.

    L’amico gli insegnò a lanciare la pallina in un verso e a far girare la ruota con le caselle, numeri rossi, numeri neri, nell’altro senso. Friedrich era impacciato. Non riusciva a stringere il pomello dorato della ruota tra le dita. L’indice della destra era paralizzato. Dalla nascita. Un difetto di cui si rese conto quando cominciò a scrivere. Non si notava a prima vista, l’indice cresceva in proporzione con la mano, ma restava leggermente curvo, immobile.

    Non riesco.

    Vedo. Se non ti preoccupi, vedrai, la tua ruota girerà.

    Avvenne al terzo tentativo. La pallina saltellando, esitando, infine si incastrò nell’unica casella verde, tra le molte rosse e nere.

    Lo zero è un numero?

    "Lo zero è l’anima di tutti i numeri. Credi che non valga nulla, uno

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