Breinen e il segreto della fonte
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Eppure Breinen ha un dono, così speciale che è l’unico a poter salvare il loro villaggio (e il mondo intero) dalla tremenda epidemia spagnola che sta mietendo milioni di vittime. È sua nonna a metterlo sulle tracce di una potente Fonte in grado di guarire ogni male, purché se ne comprenda il segreto.
Fiammetta Rossi nasce a Roma ma all’età di tre anni si trasferisce in Sud Africa con la famiglia; qui vive l’apartheid in prima persona ma, lungi dal soffrirne, impara il valore della diversità e scrive simpatiche storie per le sue sorelle. Al ritorno in Italia, si laurea in Economia e Commercio e, dopo una lunga parentesi amministrativa, si stabilisce a pochi metri dal fiume azzurro: il Ticino. Ha già pubblicato una breve raccolta di favole dal titolo Ancora nonna! e La strana bottega del signor Balaji.
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Anteprima del libro
Breinen e il segreto della fonte - Fiammetta Rossi
Epilogo
Breinen
Germania 1918
Ricordo perfettamente la mia prima volta. Avevo tredici anni, ed ero nella piazza del mercato di Gressburg, minuscolo paesello della Sassonia non ancora raggiunto dalla Grande Guerra.
Un giorno mi ammalai. Nemmeno il medico del paese riuscì a fare qualcosa e, quando fu evidente che stavo per morire, la mamma riuscì a convincere papà a chiamare la nonna.
«Quella strega in casa mia non entra! Inoltre non pensi a quello che diranno gli altri?!».
«Se Breinen muore non me ne importa nulla di quello che diranno e se guarisce me ne importerà ancor meno! E poi è di mia madre che stai parlano!».
Papà acconsentì e mamma fece per uscire e andare a chiamarla. Nemmeno a dirlo, lei era già lì, davanti alla porta di casa, con la sua borsetta in pelle di capretto, il bastone e l’immancabile sorriso ironico.
«Mi stavate aspettando?».
«Mamma!».
Nonna aggrottò le sopracciglia, scosse la testa e senza dire altro entrò. Mi avevano sistemato vicino al fuoco, la mamma aveva profumato l’aria con menta ed eucalipto. Mia nonna la guardò con approvazione: «Hai fatto bene a farlo stare al caldo e hai usato le erbe giuste, vedo che ricordi ancora le ricette. Ora lasciatemi fare. Ha la febbre molto alta, ho bisogno di acqua e di silenzio».
Io stavo male da morire, ero debole, avevo i brividi. La nonna mi fece l’occhiolino e i suoi occhi verdissimi parvero brillare, poi dalla borsetta prese tre boccette colorate, le avvicinò al fuoco e iniziò a intonare una strana nenia. Le fiamme divennero più alte. Mio padre sgranò gli occhi e mia madre lo zittì perché era sul punto di dire qualcosa. La nonna invocò con un soave canto la sua magia, buttò il contenuto della prima boccetta nel fuoco. La stanza fu avvolta da un intenso profumo. Poi prese dalla seconda boccetta dell’olio che mi spalmò su tutto il corpo. Infine, mi fece bere il contenuto della terza. La gola mi ardeva. Bevvi d’un fiato e mi addormentai con la voce della nonna nelle orecchie.
Tutto divenne nero pece.
Mi alzai e girai in tondo: casa mia non c’era più. Una leggera foschia avvolgeva lo spazio. Volevo entrarci in quella nebbia sottile ma non riuscivo a muovermi: le gambe erano rigide, guardai in basso e vidi che si stavano trasformando in tronchi, con tanto di radici. Osservavo terrorizzato il mio corpo ligneo: le gambe, il torace, le braccia. Per quanto mi agitassi non riuscivo a liberarmi. Quando infine il legno arrivò alla mia bocca, mi sentii inghiottire nel vuoto freddo della morte. Poi il nulla.
Da lontano una voce potente tuonò: «Svegliati Breinen!».
Riemersi dalla morte con un sussulto e riconobbi immediatamente il soffitto di casa e il volto stanco di mia madre.
Sorrideva. Non avevo più la febbre, ma ero rimasto incosciente per quasi due giorni. Da quel momento nessuno mi rivolse la parola. Il fatto di essere il nipote della strega non mi aveva mai reso la vita facile. Il mio aspetto non aiutava, capelli scuri ma ramati, pelle olivastra, occhi grigio verde, naso piccolo, mento e orecchie a punta… tanto che i miei coetanei mi chiamavano topo
. Potevo sentirli ridacchiare e bisbigliare al mio passaggio. E, se prima si divertivano a farmi stupidi scherzi, ora preferivano girarmi al largo.
Dopo la guarigione iniziarono i sogni, o qualunque cosa fosse.
Ci si riuniva nella piazza del mercato, ogni primo giorno del mese perché il borgomastro dava notizie e leggeva il bollettino di guerra annunciando morti feriti e dispersi. Mio padre, che voleva fare di me un vero uomo, decise di portarmici. Non era tipo da accettare rifiuti, ma la sola idea mi metteva ansia e voglia di vomitare. Non ebbi scelta, più forte della paura, era il desiderio di non deluderlo.
Mentre il borgomastro scorreva i nomi della triste lista, iniziai ad avvertire uno strano formicolio alla base della nuca. Osservavo la folla farsi sempre più mesta. Mi sentivo stringere da quella disperazione. Alcune donne scoppiarono a piangere, un vecchio svenne e il suo bastone cadde molto, molto lentamente. Quando toccò terra, vi fu un tonfo improvviso che risuonò, come un boato nella mia testa. Caddi e fui quasi inghiottito da una voragine. Mi liberai a fatica e riemersi in tempo per vedere il campanile della chiesa sbriciolarsi come cristallo. Era tutto completamente immobile, silenzioso e abbandonato. La fontana era secca e gli alberi immobili. Un altro fragore mi sconvolse e mi gettò nuovamente a terra in una pozzanghera di fango. A pochi passi da me si formò un enorme cratere. Ovunque sentivo voci concitate parlare in una lingua sconosciuta, ma il suono era attutito in modo angosciante, alcuni soldati correvano verso un rifugio passandomi accanto senza vedermi.
«No! No! No! No!».
Urlavo terrorizzato, ma dalla mia bocca non usciva un solo fiato. Una lettiga portava via i feriti sfidando il sibilo dei proiettili verso un edificio dove sventolava la bandiera italiana. Riconobbi il padre di Joseph Kemp con la testa bendata e macchiata di sangue. Risultava disperso da mesi.
Vomitai. Tornai a casa tra i conati e il biasimo di mio padre che mi giudicava una donnicciola.
«Va’ nei boschi a giocare con gli scoiattoli», disse profondamente deluso.
Segreti e Bugie
Agosto 1918
Qualche giorno dopo passeggiavo per i boschi assorto in mille considerazioni e ancora turbato per la visione, tanto da non accorgermi di essere seguito.
Una pioggia di sassolini e ramoscelli mi piombò addosso seguita da numerosi sghignazzi. Uscirono allora allo scoperto due dei miei compagni. Uno era Markus Lange, il figlio del falegname. Un ragazzone di quattordici anni che si era autoproclamato capo di un manipolo di ragazzini che, quando non avevano niente da fare, si divertiva a tormentarmi. L’altro era il suo inseparabile amico, Joseph Kemp, un saputello tutto libri al soldo di Markus in cambio di protezione. Joseph non mi incuteva paura, perché era mingherlino come me. Aveva capelli castani sempre scompigliati e sulla testa teneva un berretto tutto logoro di suo padre disperso in guerra. Non se ne separava mai.
«Ciao Breinen, ti fai un tè con gli scoiattoli?», chiese Markus.
Non risposi.
«E su topo, mica te la prendi se ti chiamo topo vero? Dove stai andando, dalla strega?».
E perché no? Pensai. Vediamo fin dove si spinge il loro coraggio. Markus aveva voglia di provocare, come al solito, e Joseph sghignazzava a ogni battuta.
«Sì, sto andando da lei. Volete venire?», ostentai un coraggio che non avevo, loro si scambiarono un’occhiata e dopo un attimo di esitazione, Markus sorrise sornione e Joseph parlò: «Ti seguiamo, vediamo dove ci porta questa cosa».
Masticai un’imprecazione e ripresi il cammino seguito da loro due.
«Tua nonna abita vicino al vecchio castello dei Gunther vero?». Feci di sì con la testa. Tutti o quasi conoscevano la storia del castello, ma Joseph non perdeva occasione per mettere in mostra le sue conoscenze.
«Sono per lo più legende. Intrighi di corte, avvelenamenti… I Gunther dovevano allearsi con una potentissima famiglia magiara, ma non tutti erano d’accordo, in particolare i Dashkonov vicini al voivòda Stanislao che avrebbero perso molto da questa unione. Così rapirono il vero principe ereditario ed elessero al suo posto proprio un Dashkonov. Passarono un po’ di anni. La sorte volle che durante una battuta di caccia al cervo, proprio da queste parti, venisse trovato il principe rapito che faceva da servo ai suoi carcerieri».
«Interessante», mormorò poco convinto Markus.
«Cosa accadde dopo?».
«Tutti i Dashkonov furono costretti all’esilio ma in realtà non li volle nessuno in nessun posto, così fuggirono verso est. E nessuno ne seppe più nulla. Poi il castello andò in rovina, è rimasta solo la sala del trono con l’unicorno scolpito e il vecchio enorme camino. Dentro ci stanno sei uomini tant’è grosso».
All’improvviso sbucammo dalla boscaglia. Una grande quercia troneggiava a ridosso della rimessa, a destra invece c’era una casupola di calce soffocata dall’edera rampicante e da un rigoglioso cespuglio di orchidee mai sbocciate: era un’immagine spettrale e affascinante al tempo stesso, la casa di mia nonna.
«Che posto da brivido», mormorò Markus allargando gli occhi.
Il comignolo fumava e accanto la porta vi era un carretto zeppo di fascine.
«Tua nonna è in casa, perché non vai a parlarle? Chissà se è vero che ha gli scheletri appesi al soffitto».
«Mia madre dice che ci sono i gatti di guardia e che di notte si trasformano in lupi pronti a sbranare quelli che si avvicinano», aggiunse Joseph sicuro di sé. Mi veniva da ridere.
«Non credo che mia nonna abbia dei gatti, figurarsi quelli che si trasformano in lupi».
«E che ne sai tu? Sei mai stato a casa sua?».
No, non ero mai stato a casa della nonna, e per quanto ne sapessi poteva esserci davvero un pentolone nero per le pozioni e anche gli scheletri dei folli che si erano avventurati fin lassù e che ora penzolavano dalle pareti. Ma sui gatti ero sicuro: non le piacevano.
«Dai Breinen bussa, quando ti apre inizi a parlare, mentre noi andremo sul retro e dalla finestra sbirciamo dentro».
Joseph era il più curioso e onestamente anche quello con il cervello più fino.
«Sì buona idea!», replicò Markus.
Buona un accidente: il pericolo lo correvo io!
«Ti ha guarito, quindi non credo che ti ucciderà e, se lo farà, noi racconteremo tutto al magistrato», riprese Joseph con fare dotto e istruito. Non sapevo se rabbrividire per l’eventuale vendetta della nonna o per la testimonianza di quei due dopo la mia morte.
«Va bene, io busso e voi guardate dalla finestra sul retro».
Stavo per avviarmi quando una mano raggrinzita e nodosa mi afferrò alla spalla. Urlai. Urlammo tutti e tre. Cercai di fuggire, ma caddi sbucciandomi il ginocchio e strappandomi i calzoni. Il curioso Joseph e il coraggioso Markus intanto se la davano a gambe levate, senza smettere di gridare.
«Che amici coraggiosi…».
Riconobbi la voce della nonna divertita per aver spaventato dei pivelli.
«Ciao nonna», mormorai «noi volevamo… ecco volevamo…».
«… vedere se stavo appendendo uno scheletro al soffitto?», disse lei superandomi di qualche passo.
«Beh ecco, noi volevamo…».
«Breinen, riesci a finirla una frase o devo davvero imparare a leggerti nel pensiero?», ammutolii e lei aggiunse: «Su andiamo, per oggi l’unica pozione che ho preparato è dell’ottima crema. Se non ricordo male i dolci ti piacciono».
Mi sentivo stupido e inadeguato.
«Scusaci nonna, il fatto è che al villaggio si parla spesso di te. E io volevo, ecco far vedere che sei… sì insomma… volevo…».
«…volevi far colpo sui tuoi amici! Dovrei offendermi per questo. Ma non lo farò. Non oggi comunque».
Entrai in casa a capo chino, l’aria era fresca e sapeva di pulito, merito dei mazzolini di menta e lavanda sparsi per tutta la casa.
L’arredo era povero ed essenziale: un letto, un catino, un grande camino di mattoni rossi su cui era poggiato un alambicco, una grande stufa in ghisa, il tavolo, una vecchia credenza blu scuro con sopra dei grandi tomi. Un corno d’avorio bianco pendeva da un chiodo nel muro e dalle travi, salamelle dall’aria gustosa. Di scheletri e gatti nemmeno l’ombra. Tirai un sospiro di sollievo e delusione al tempo stesso.
«Cosa credevi di trovare eh? Su, fammi vedere quel ginocchio, sembra si stia gonfiando». E indicò uno sgabello.
«Mi fa male».
«Così impari ad avventurarti in posti dove non devi andare».
«Non dovevo venirti a trovare nonna?».
«Quando mai sei venuto a trovarmi?», disse con amarezza.
«Ogni tanto veniva Dorothea, tua madre, ma sono anni che non lo fa più».
«È papà che non vuole, e nemmeno io dovrei essere qui», mi morsi la lingua per averlo detto.
Lei mi fissò. Mio padre non le