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La filosofia nasce dalla meraviglia: Piccole grandi domande per dare un senso a tutto… o quasi
La filosofia nasce dalla meraviglia: Piccole grandi domande per dare un senso a tutto… o quasi
La filosofia nasce dalla meraviglia: Piccole grandi domande per dare un senso a tutto… o quasi
E-book460 pagine6 ore

La filosofia nasce dalla meraviglia: Piccole grandi domande per dare un senso a tutto… o quasi

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Info su questo ebook

Questo libro trae ispirazione dai bambini ma non è pensato per loro. I bambini sono il mio cavallo di Troia: non sono in cerca di menti giovani; sono le vostre menti quelle che voglio. I bambini faranno filosofia con o senza di voi. La mia speranza è che voi proviate a farla di nuovo.

Assolutamente godibile, con tantissimi aneddoti e curiosità… Un saggio sincero e intelligente che mette definitivamente in pensione l’idea che la filosofia appartenga alla torre d’avorio dell’ambiente accademico.Publishers Weekly Starred Review

In parti uguali divertente e profondo, chiaro e brillante. Un’introduzione scherzosa ma seria alla filosofia.Kirkus

«Cosa fa un filosofo?»

«Pensa

«A cosa?»

«A tutto: giustizia, religione, legge...»

«Anche io... Allora sono un filosofo?»

È possibile aprire una finestra su alcuni dei misteri più profondi su cui l’uomo si interroga da sempre e guardare il mondo con occhi nuovi? La risposta è sì, con questa guida all’arte di pensare scritta da un celebre professore di filosofia.

Prendendo spunto dalle questioni che gli sottopongono i suoi figli, Rex e Hank, Scott Hershovitz ci guida in un viaggio attraverso la filosofia classica e contemporanea al ritmo di domande come: Hank ha il diritto di bere Fanta? Quando si possono dire le parolacce? Il numero sei esiste?

Appellandosi a una schiera di filosofi, famosi e meno noti, perché ci aiutino lungo la strada, esplora temi importanti come il rapporto tra punizione e autorità; questioni di sesso, genere e razza; la natura della verità e della conoscenza; l’esistenza di Dio.

La filosofia nasce dalla meraviglia è una brillante avventura filosofica, fresca, profonda, ma anche divertente, che ci sfida a riaccendere la nostra innata meraviglia infantile. Perché se lo facessimo, saremmo tutti pensatori migliori e più attenti a ciò che ci circonda.

LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2023
ISBN9788830592926
La filosofia nasce dalla meraviglia: Piccole grandi domande per dare un senso a tutto… o quasi
Autore

Scott Hershovitz

Docente di Giurisprudenza e di Filosofia all’Università del Michigan, ha ottenuto un dottorato di ricerca in Filosofia politica all’Università di Oxford e un dottorato professionale (JD) alla Yale Law School. Vive ad Ann Arbor con la moglie, Julie, e i loro due figli, Rex e Hank.

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    Anteprima del libro

    La filosofia nasce dalla meraviglia - Scott Hershovitz

    Prima parte

    Dare un senso alla morale

    1

    Diritti

    Adoro riempire la vasca da bagno. Non per me, ovviamente. Sono un uomo etero nato e cresciuto nel secolo scorso, quindi non faccio mai il bagno e non esprimo l’intera gamma delle emozioni umane. Ma i miei figli fanno il bagno nella vasca e qualcuno deve pur preparare l’acqua, e quel qualcuno voglio essere io.

    Perché? Perché il bagno è al piano di sopra. E al piano di sotto è un vero manicomio. Quando i bimbi sono stanchi, la loro energia cinetica aumenta e perdono ogni forma di autocontrollo. Sembra di stare nel bel mezzo di un concerto rock. Qualcuno urla perché è ora di esercitarsi al pianoforte, o perché non c’è tempo per esercitarsi al pianoforte. O perché non abbiamo mangiato il dolce, o perché abbiamo mangiato il dolce ma lui se l’è rovesciato sulla maglietta. O semplicemente perché ci dev’essere qualcuno che urla. Le urla sono una costante cosmologica.

    Così io mi dileguo. «Vado a preparare il bagno per Hank» dico, salendo le scale di corsa, ansioso di arrivare a quello che è il momento migliore della mia giornata. Chiudo la porta, apro il rubinetto e controllo la temperatura dell’acqua. Non troppo calda né troppo fredda. Muovo il miscelatore prima a destra e poi a sinistra, in cerca del punto perfetto. Ma non mi faccio illusioni: l’acqua sarà sicuramente troppo calda o troppo fredda. O entrambe, visto che i bambini rifiutano il principio di non contraddizione. Fallirò. Ma mi sento in pace, perché in bagno le loro urla arrivano attutite. Seduto solo soletto sulle piastrelle del pavimento, mi godo la compagnia dei miei pensieri (e per pensieri intendo il telefono), beandomi di quell’isolamento.

    Mia moglie, che ha capito come stanno veramente le cose, a volte mi batte sul tempo. «Vado a preparare il bagno per Hank» dice, lasciandomi nella più nera disperazione. Ma siccome è una donna etero nata e cresciuta nel secolo scorso, spreca l’occasione. Apre il rubinetto e poi, invece di restarsene a giocherellare con il cellulare mentre la vasca si riempie, fa qualcosa di sensato, come il bucato. O qualcosa di inspiegabile, come tornare nella stanza in cui si trovano i bambini per… fare la mamma! So che dovrei sentirmi in colpa per questo e lo faccio, ma non per il motivo per cui dovrei. La solitudine è il lusso più grande che possiamo concederci. Qualcuno dovrebbe riuscire a godersela. Meglio Julie che me. Ma se non lo fa lei, allora lo faccio io.

    E così eccomi lì, sul pavimento del bagno, con l’impressione che il casino che imperversa al piano di sotto sia più folle del solito. Hank (cinque anni) sta piangendo come un ossesso; quindi, deve trattarsi di qualcosa di serio (e per serio intendo banale). Quando l’acqua quasi non ci sta più nella vasca, chiudo il rubinetto, mandando in pezzi la mia serenità.

    «Hank, il bagno è pronto» grido giù per le scale.

    Nessuna risposta.

    «HANK, IL BAGNO È PRONTO!» provo a urlare più forte di lui.

    «HANK, IL BAGNO È PRONTO!!!» mi fa il verso Rex, con evidente soddisfazione.

    «HANK, IL BAGNO È PRONTO!» interviene Julie, con visibile irritazione.

    E poi sento avvicinarsi i suoi singhiozzi. Lentamente. Un. Passo. Alla. Volta. Finché arriva Hank, senza quasi più fiato e disperato.

    Provo a calmarlo. «Hank» gli dico sommessamente, «cosa c’è che non va?» Non risponde. «Hank» gli ripeto con voce se possibile ancora più dolce, «cosa ti preoccupa?» Non riesce ancora a parlare. Comincio a togliergli i vestiti mentre lui prova a riprendere fiato. Finalmente entra nella vasca da bagno. Ci riprovo: «Hank, cosa ti preoccupa?».

    «Non… non ho…»

    «Che cosa non hai, Hank?»

    «NON HO NESSUN DIRITTO!» sbotta Hank, scoppiando di nuovo in lacrime.

    «Hank» gli chiedo sottovoce, sempre sperando di tranquillizzarlo, ma ora anche incuriosito, «che cosa sono i diritti?»

    «Non lo so» piagnucola, «ma io non ne ho.»

    Quella volta Hank aveva davvero bisogno di un filosofo. E per sua fortuna ne aveva uno in casa.

    «Certo che hai dei diritti, Hank.»

    Le mie parole attirarono la sua attenzione. Le lacrime rallentarono un po’.

    «Certo che hai dei diritti. Un sacco di diritti.»

    «Davvero?» domandò lui, smettendo finalmente di singhiozzare.

    «Davvero. Ti piacerebbe sapere quali sono?»

    Annuì.

    «Bene, parliamo di Tigey» dissi. Se Hank è Calvin, Tigey è il suo Hobbes: una tigre bianca di peluche da cui non si è mai staccato da quando è nato. «Gli altri possono portarti via Tigey?»

    «No» rispose.

    «Gli altri possono giocare con Tigey senza chiederti prima il permesso?»

    «No» disse Hank, «Tigey è mio.»

    Le lacrime erano quasi scomparse.

    «È vero» dissi, «Tigey è tuo. E questo significa che tu hai diritto a lui. Nessuno può prendere Tigey o giocare con lui se non sei tu a dirgli che può.»

    «Ma qualcuno potrebbe prendere Tigey» obiettò Hank, nuovamente sul punto di scoppiare a piangere.

    «Proprio così, qualcuno potrebbe prendere Tigey. Ma andrebbe bene? O sarebbe sbagliato?»

    «Sarebbe sbagliato» rispose.

    «Esatto. È questo che significa avere un diritto. Se è sbagliato che qualcuno prenda Tigey, allora hai il diritto che nessuno lo prenda.»

    Il volto di Hank si illuminò. «Ho diritto a tutti i miei aminali!» disse, scambiando la N e la M e producendosi in quella che era la mia preferita fra tutte le sue storpiature.

    «Bravo! Ne hai diritto! E questo significa che sono tuoi.»

    «Ho diritto a tutti i miei giocattoli!» disse Hank.

    «Proprio così!»

    Solo che a quel punto il suo bel faccino crollò nuovamente. Ricominciò a singhiozzare, il volto rigato di lacrime. «Hank, perché sei triste?»

    «Non ho diritto a Rex.» Ecco la causa scatenante di tutto quel folle casino al piano di sotto. Hank voleva giocare con Rex. Rex voleva leggere. E Hank, in effetti, non aveva diritto a Rex.

    Gli spiegai: «No, non hai alcun diritto su Rex. È lui a decidere se vuole giocare o meno. Non abbiamo diritti sulle altre persone, a meno che non facciano una promessa».

    È vero che le cose sono un po’ più complicate di così. A volte abbiamo dei diritti sugli altri anche se non ci hanno promesso nulla. Ma decisi che avrei tenuto una conversazione più approfondita sull’argomento quando il mio studente sarebbe stato meno disperato. Invece, parlammo di ciò che Hank poteva fare da solo quando Rex voleva leggere.

    Prima di scoppiare nuovamente a piangere, Hank aveva fatto un’osservazione intelligente sui diritti. All’inizio gli avevo chiesto se qualcuno potesse prendere Tigey senza il suo permesso. Mi aveva risposto di no. Ma una frazione di secondo dopo ci aveva ripensato. Qualcuno avrebbe potuto prendere Tigey senza il suo permesso. Anzi, Hank stesso lo aveva fatto con Rex. Il Tigey di Rex si chiama Giraffey. (Prima di criticare la fantasia con cui i miei bambini hanno scelto i nomi dei loro peluche, sappiate che io ero ancora meno creativo: i miei amichetti si chiamavano Scimmia e Giraffa.) Quando Hank aveva imparato a gattonare, ogni volta che poteva entrava nella stanza di Rex, si metteva Giraffey sotto il mento e se ne andava il più rapidamente possibile. Rex aveva diritto a Giraffey, così come Hank aveva diritto a Tigey. Ma Hank poteva prendere – e di fatto prendeva – Giraffey.

    Che cosa ci può insegnare questo sui diritti? Il diritto di Hank a Tigey tutela il suo possesso sul peluche. Ma la tutela garantita da questo diritto non è fisica. Non esiste un campo di forza intorno a Tigey che impedisca ad altri di prenderlo. La tutela fornita da un diritto è, in lessico filosofico, normativa, ossia regolata da disposizioni o norme che disciplinano la buona condotta da mantenere. Una persona che vuole comportarsi bene non prenderebbe mai Tigey senza il permesso di Hank (almeno non senza un’ottima ragione, come vedremo tra poco). Ma non tutti vogliono comportarsi bene. La tutela garantita da un diritto dipende dalla volontà degli altri di riconoscere e rispettare quello stesso diritto.

    Prima di passare oltre, concedetemi una brevissima nota sul linguaggio e su quanti non riescono a non essere pedanti riguardo a esso. Avevo chiesto a Hank se qualcuno potesse prendere Tigey senza il suo permesso e lui mi aveva risposto di no. Poi ci aveva ripensato e aveva detto di sì. Aveva ragione la prima volta. E anche la seconda.

    Un attimo, cosa? Com’è possibile? Il significato di un verbo come potere è estremamente flessibile. Ecco una storiella per farvi capire cosa intendo.

    Quando studiavo a Oxford un amico mi portò in un pub. Chiese due pinte.

    «Mi dispiace, amico, non posso. Siamo chiusi» gli rispose il barista.

    Il mio amico guardò l’orologio. Erano le 11.01; il locale chiudeva alle 11.00.

    «Dai, solo due pinte.»

    «Mi dispiace, non posso. Sono le regole.»

    «Be’, però potreeesti» azzardò il mio amico.

    Fermiamoci un momento. Forse il mio amico voleva dire che il barista non conosceva il significato del verbo potere? No. In un certo senso lui non poteva servirci le birre, ma in un altro senso avrebbe potuto. E quel però potreeesti del mio amico era un tentativo di spostare la sua attenzione sul secondo senso. Il barista ci stava dicendo che non gli era permesso venderci due pinte; il mio amico gli stava facendo notare che gli era possibile. Non c’era nessun altro in giro, quindi nessuno lo avrebbe beccato.a L’espediente funzionò: il barista ci diede due pinte, anche se non avrebbe potuto (nel senso che non gli era permesso), perché poteva (senza subire alcuna conseguenza).

    Hank aveva colto questa stessa duplicità di senso durante la nostra conversazione. Aveva capito che gli stavo chiedendo se qualcuno potesse (ossia se gli fosse permesso) prendere Tigey, e aveva risposto (correttamente) di no. Ma poi si era preoccupato del fatto che qualcuno potesse (eventualmente) prenderglielo, e per poco non si era rimesso a piangere.

    Perché mi sono preso la briga di fare questa precisazione? Be’, perché questo è ciò che facciamo noi filosofi: prestiamo estrema attenzione alle parole. Ma anche perché magari vi sarà capitato di imbattervi in qualche simpaticone convinto di essere la persona più intelligente del mondo quando, di fronte alla vostra educata richiesta: «Posso (Can I) avere una tazza di tè?» ha risposto con: «Non saprei… Puoi averla?».

    Secondo lui avreste dovuto dire: «Potrei (May I) avere una tazza di tè?».

    Bene, sappiate che quel tipo è uno stronzo. Eliminatelo dalla vostra vita. E quando lo fate, ditegli che può, potrebbe e dovrebbe prendere lezioni di grammatica da un bambino, visto che anche un bambino parla meglio di lui.²⁵

    Ma torniamo ai diritti. Che cosa sono di preciso? Difficile dirlo. Un giorno io e Hank ne abbiamo parlato. Aveva otto anni e aveva passato il pomeriggio a pulire la sua stanza. Mi chiamò per mostrarmi come procedeva il lavoro.

    «Wow, mi sembra bene» gli dissi.

    «Grazie! Ho messo in ordine quasi tutto.»

    «E dove hai messo i tuoi diritti?» gli chiesi.

    «Cosa vuoi dire?»

    «I tuoi diritti, come il tuo diritto a Tigey. Dove stanno?»

    «Quelli non li ho messi via» rispose Hank, «sono dentro di me.»

    «Davvero? Dove? Nella pancia?»

    «No, non stanno in un posto preciso. Sono dentro di me.»

    «Perché non li tiri fuori? Così non ti pesano.»

    «Non sono quel tipo di cose che uno si può togliere» mi spiegò Hank. «Non puoi nemmeno tenerli in mano.»

    «Potresti farli uscire con un bel ruttino?» gli chiesi.

    «No, non puoi ruttare fuori i diritti.»

    A quel punto se la svignò. Così non abbiamo mai chiarito che cosa siano i diritti, se non che non si possono ruttare fuori.

    Ma posso finire io il ragionamento. Hank aveva ragione a metà. I diritti non sono una cosa che si può tenere. Ma non sono nemmeno dentro di noi. I diritti sono relazioni.

    Ora vi spiego che cosa intendo. Supponiamo che abbiate diritto a ricevere mille dollari da me. Avere questi soldi è un vostro diritto. Questo diritto è valido nei miei riguardi e, se sono l’unica persona a dovervi del denaro, allora vale solo e soltanto nei miei confronti. Ma a volte un diritto è valido nei riguardi di più persone (forse siamo io e Julie insieme a dovervi quella somma) e a volte esistono diritti che valgono per tutti. Per esempio, avete il diritto a non essere presi a pugni in faccia. A chiunque voglia assestarvi un pugno in faccia siete autorizzati a ricordare che è tenuto a non farlo.

    Come si evince dall’ultima frase, quando si ha un diritto, qualcun altro ha un dovere. Ecco perché ho detto che i diritti sono relazioni. In ogni diritto sono coinvolte almeno due persone: il titolare del diritto e il portatore del dovere. Diritti e responsabilità vanno di pari passo. Sono la stessa relazione vista da prospettive diverse.

    Qual è la natura di questa relazione? Qui può venirci in soccorso uno dei miei filosofi preferiti di sempre: Judith Jarvis Thomson. Thomson era un’esperta di etica. Aveva un vero talento per la creazione dei cosiddetti esperimenti mentali, quelle storielle che i filosofi usano per mettere alla prova le loro idee. Ne vedremo uno tra poco. Ma Thomson è nota anche per la sua teoria dei diritti.²⁶

    Chi possiede un diritto, diceva Thomson, si trova in una relazione complessa con il portatore del corrispettivo dovere. Questa relazione ha molte proprietà. Per citarne solo alcune: se vi devo mille dollari per martedì prossimo, è mio dovere avvertirvi se penso di non riuscire a pagare; se, quando arriva martedì, non vi pago, devo scusarmi e cercare in qualche modo di rimediare. Ma soprattutto: ceteris paribus, martedì prossimo dovrei darvi mille dollari.

    Che cosa significa ceteris paribus? Si tratta di un’espressione impiegata in filosofia che vuol dire a parità di tutte le altre circostanze e che serve a ricordare che a volte gli imprevisti capitano. Vi devo mille dollari entro martedì, ma quando arriva martedì scopro che ho bisogno di quei soldi per pagare l’affitto o la mia famiglia finirà in mezzo alla strada. Dovrei darvi i soldi? Forse. Se non lo facessi potrei danneggiarvi. Ma se non rischiate nulla di particolarmente grave, allora forse dovrei pagare l’affitto, scusarmi per non avervi dato i soldi e cercare di rimediare il prima possibile.

    Una delle domande più importanti in filosofia morale è: quante cose devono accadere per annullare un diritto? Una risposta possibile è: non molte. Forse dovremmo ignorare i diritti altrui se rispettarli peggiorerebbe le cose. Secondo questa prospettiva, dovreste darmi un pugno in faccia se il bene che ne deriva è superiore al male.

    Ad alcuni sembra una cosa sensata. Ma attenzione: così si minimizza l’importanza dei diritti. Invece di preoccuparci di chi detiene un diritto, potremmo limitarci a chiederci: l’azione che abbiamo in mente avrà conseguenze buone o cattive? Se sono buone, allora procediamo. Se non lo sono, possiamo astenerci. La nostra decisione non prende in alcun modo in considerazione il diritto stesso.

    Questa dottrina ha un nome, si chiama consequenzialismo, perché sostiene che la qualità morale di un’azione dipende unicamente dalle sue conseguenze.²⁷ La versione più nota del consequenzialismo è l’utilitarismo, secondo cui dovremmo mirare a produrre il massimo grado di felicità (o utilità, come talvolta potreste trovare). Esistono molte e diverse interpretazioni di cosa sia questa utilità. Secondo una visione condivisa, essa indica l’equilibrio tra piacere e dolore nell’universo. Chiedete a un utilitarista (di una certa scuola) se dovreste darmi un pugno in faccia: quello vi inviterebbe a domandarvi se il piacere che le persone proverebbero a seguito del pugno sarebbe superiore al dolore da esso causato. I diritti non avrebbero parte alcuna nel processo decisionale.

    A Ronald Dworkin questo modo di pensare la morale non andava affatto a genio. Anzi, scrisse anche un libro che intitolò Taking Rights Seriously, in cui sosteneva che dovremmo prendere i diritti sul serio.²⁸ (Dworkin era un filosofo del diritto, senza dubbio il più influente degli ultimi decenni. Sotto certi aspetti, il mio lavoro è una prosecuzione del suo.) Secondo Dworkin, in un dibattito morale, i diritti prevalgono sulle preoccupazioni per l’utilità.²⁹

    Per capire che cosa avesse in mente Dworkin, vi farò il cosiddetto esempio del trapianto.³⁰ Lavorate in un ospedale e vi trovate in una situazione disperata. Avete cinque pazienti e tutti hanno assolutamente bisogno di un trapianto. Ognuno ha bisogno di un organo diverso e tutti e cinque moriranno se non riceveranno immediatamente l’organo di cui hanno bisogno. Proprio in quel momento, un uomo arriva al pronto soccorso. Ha un braccio rotto, non è in pericolo di vita, ma vi viene in mente che, se lo uccideste, potreste prelevare i suoi organi e salvare gli altri cinque pazienti. Gli chiedete se la cosa gli dispiacerebbe e lui risponde che sì, la cosa gli dispiacerebbe, e parecchio. Dovreste farlo comunque? Probabilmente la felicità generale aumenterebbe se si perdesse una sola vita invece di cinque.b E quindi? Quell’uomo ha diritto a vivere. E il suo diritto prevale sul benessere degli altri pazienti.

    O forse no? È il momento di parlare di quello che probabilmente è il dilemma più famoso della filosofia contemporanea, noto come problema del carrello ferroviario.

    Per discutere di questo dilemma abbiamo bisogno di altre storie e nello specifico delle storie di Thomson. La prima è detta dell’osservatore allo scambio.³¹ Un vagone impossibilitato a frenare sta correndo lungo un binario. Il vagone è lanciato verso cinque operai che stanno effettuando delle riparazioni più avanti lungo lo stesso binario. Se non si ferma, li ucciderà tutti. C’è però una buona notizia: vi trovate vicino a uno scambio che potrebbe deviare il vagone su un altro binario! Ma, ahimè, c’è anche una cattiva notizia: anche su quel binario c’è un operaio; è solo uno, ma morirà sicuramente se deviate il vagone.

    Disegno del treno che si avvicina allo scambio dove potrebbe cambiare binario, dove e' presente un solo operaio e non cinque

    Che cosa fareste?

    La maggior parte delle persone risponde che azionerebbe lo scambio, perché il vagone uccida una sola persona invece di cinque.

    Ma un attimo! Non avevamo detto che l’uomo del trapianto aveva diritto a vivere anche se uccidendolo avremmo potuto salvare altre cinque persone? Perché il povero operaio del problema del vagone non ha lo stesso diritto?

    Di recente ho tenuto una lezione sul problema del carrello ferroviario. L’ho tenuta da casa, così che anche i miei bambini potessero partecipare. Hanno ricostruito lo scenario dell’osservatore con un trenino giocattolo. Mentre presentavo le possibili varianti del problema, loro modificavano lo scenario. Anche la loro variante preferita è stata proposta da Thomson ed è nota come uomo grasso.³² (Come nome non è un granché, ma la stazza dell’uomo è un fattore essenziale per lo scenario.) Il vagone è sempre fuori controllo e si dirige lungo i binari verso i cinque operai. Solo che questa volta non siete vicini alla leva dello scambio. Vi trovate invece su un cavalcavia e osservate la scena sotto di voi. Notate che, proprio accanto a voi, è appoggiato al parapetto un uomo molto grasso. Sarebbe sufficiente assestargli una leggera spinta e quello cadrebbe, atterrando proprio sui binari, fermando il vagone con il suo peso e salvando gli operai. Ma lui morirebbe, o per l’impatto della caduta o per quello contro il vagone.

    Che cosa fareste? Buttereste giù l’uomo, condannandolo a morte certa per salvare gli operai? O lascereste che il vagone travolga i cinque?

    Quasi tutti rispondono che non spingerebbero l’uomo grasso, ma lascerebbero morire gli operai.

    Perché? Il calcolo morale – lasciare che muoiano cinque persone o ucciderne una – è identico in tutti gli esempi discussi finora. Nel caso dell’osservatore allo scambio, la maggior parte è convinta che sia giusto uccidere; nel caso dell’uomo grasso e del trapianto, la maggior parte crede che non lo sia.

    Perché? Qual è la differenza? È esattamente questo il problema del carrello ferroviario.

    Il problema del carrello ferroviario ci chiede di ripensare a quanto abbiamo già detto in merito alla storia del trapianto, ovvero che era sbagliato uccidere il paziente con il braccio rotto perché aveva diritto a vivere. Ma anche l’operaio da solo sul binario detiene il medesimo diritto, eppure la maggior parte delle persone non ha alcun problema a pensare di ucciderlo nell’esempio dell’osservatore allo scambio. A quanto pare, a volte il diritto a vivere di qualcuno può essere derogato quando sono in gioco le vite di molti altri. Dobbiamo quindi trovare una nuova spiegazione del perché, nella storia del trapianto e nel caso dell’uomo grasso, diventi invece ammissibile uccidere qualcuno.

    Ciò che speriamo di trovare è un diritto a cui si può derogare nella storia del trapianto e dell’uomo grasso, ma non nel caso dell’osservatore allo scambio.

    Esiste un simile diritto? Forse. Per farsi guidare, alcuni si rivolgono a Immanuel Kant.

    Kant visse nella Germania del XVIII secolo. È uno dei filosofi più influenti di sempre insieme a Platone e Aristotele. Kant conduceva una vita estremamente regolare. Si dice che fosse così preciso e puntuale che i suoi vicini regolavano i loro orologi quando usciva di casa per andare a passeggiare.

    Kant sosteneva che non dovremmo trattare gli altri solo come mezzi per ottenere i nostri scopi ma come persone.³³ Per farlo dovremmo riconoscere e rispettare la loro umanità, ossia quella caratteristica che le separa dagli altri oggetti (che giustamente usiamo come mezzi per ottenere degli scopi). Ma cosa distingue le persone dagli oggetti? Be’, le persone possono prefiggersi degli scopi, sanno ragionare su quali dovrebbero essere questi scopi, capiscono come perseguirli ecc. Per trattare gli altri come persone dobbiamo rispettare queste capacità.

    È importante notare che anche Kant pensava che talvolta fosse giusto usare le persone come mezzi per raggiungere uno scopo. Se una studentessa mi chiede di scriverle una lettera di raccomandazione, mi sta usando come mezzo per il suo scopo, spera che la mia lettera la aiuti a ottenere una borsa di studio. Ma non mi sta solo usando, come invece potrebbe usare il suo computer per scrivere la sua domanda di borsa di studio. Chiedendomi di scriverle una lettera di raccomandazione, mi coinvolge come persona. Mi lascia scegliere se fare mio il suo scopo. Il computer non ha voce in capitolo. Io sì.

    Kant può aiutarci a risolvere il problema del carrello ferroviario? Secondo alcuni sì. Il diritto prevalente, sostiene chi la pensa in questo modo, è essere trattati come persone e non come semplici mezzi per ottenere uno scopo.

    Torniamo ora ai nostri esempi. Nel caso del trapianto, questo diritto sarebbe chiaramente violato se si uccidesse l’uomo con il braccio rotto. Gli abbiamo chiesto se fosse disposto a sacrificarsi per gli altri e lui ha detto di no. Se lo uccidessimo lo stesso, lo tratteremmo come una scorta di organi, non come una persona che ha il diritto di prendere le proprie decisioni.

    Lo stesso vale nell’esempio dell’uomo grasso. Se spingessimo l’uomo oltre il parapetto, lo tratteremmo come un oggetto, non come una persona. A importarci sarebbe soltanto che ha il peso necessario per fermare il vagone.

    E nella variante dell’osservatore? Anche in questo caso, uccidere l’operaio sull’altro binario sembra una cosa negativa, perché non potremmo chiedergli il permesso: non avremmo il tempo per farlo. Ma nemmeno lo staremmo usando come mezzo per raggiungere uno scopo. Non fa parte del nostro piano: se non ci fosse stato, avremmo comunque deviato il vagone. La sua morte sarebbe soltanto la tragica conseguenza del nostro piano di salvare i cinque deviando il vagone su un altro binario.³⁴ Se riuscisse in qualche modo a salvarsi, saremmo più che felici.

    Ciò rende questo scenario molto diverso da quello dell’uomo grasso e del trapianto. In entrambi questi casi, la fuga dell’uomo con il braccio rotto o dell’uomo grasso avrebbe vanificato i nostri piani. E quindi questo vuol dire che abbiamo trovato la soluzione del problema del carrello ferroviario?

    Forse no… Anche Thomson ovviamente conosceva Kant e aveva preso in considerazione la soluzione che abbiamo appena elaborato,³⁵ per poi rifiutarla.

    Perché? Be’, Thomson propose un altro scenario, quello dell’anello.³⁶

    Tutto è come nell’esempio dell’osservatore, solo che in questo caso c’è un colpo di scena, o meglio, un anello. Il vagone è diretto verso i cinque operai. Se azioniamo la leva dello scambio, deviamo il carrello verso un altro binario, dove c’è un solo operaio. Ma dopo una breve deviazione, questo binario si ricollega al primo. Se non ci fosse quell’operaio, il vagone percorrerebbe l’anello e finirebbe per colpire gli altri cinque. L’operaio da solo è abbastanza grosso da riuscire a fermare il vagone, ma verrebbe ucciso nell’impatto.

    Disegno dove il treno si avvicina allo scambio, a destra il binario con un solo operaio si ricollega però poi a quello con cinque operai, in un anello

    È lecito deviare il vagone? Notate che, in questo scenario, staremmo trattando l’operaio come un mezzo per raggiungere uno scopo. Se lui non fosse lì (se, per esempio, riuscisse in qualche modo a spostarsi), il nostro piano per salvare gli altri cinque sarebbe vanificato. Anche qui abbiamo bisogno del suo peso per fermare il vagone, altrimenti gli altri cinque moriranno. In questo senso, l’esempio dell’anello ricorda quello dell’uomo grasso.

    Eppure Thomson ha osservato che nello scenario dell’anello è lecito deviare il vagone. A suo parere, il fatto che il binario prosegua anche dopo l’operaio non è sufficiente a giustificare una differenza in termini morali. I casi dell’anello e dell’osservatore sono identici. Il tratto di binario in più è irrilevante, il vagone non lo percorrerebbe comunque!

    Se Thomson avesse ragione, la soluzione di Kant – che si fonda sul diritto di essere trattati come persone e non come semplici mezzi per ottenere uno scopo – non risolve il problema del carrello ferroviario.

    Secondo alcuni filosofi, Thomson ha ragione.³⁷ Rex è fra questi. Di recente abbiamo discusso dello scenario dell’anello.

    «Azioneresti la leva dello scambio?» gli ho chiesto.

    «Sì, è uguale al primo caso» mi ha risposto (intendeva quello dell’osservatore). «Il binario prosegue. Ma la cosa non cambia.»

    «Be’, qualcosa cambia» obiettai, spiegandogli che, nello scenario dell’anello, usiamo il corpo dell’operaio per fermare il vagone. «E questo lo rende simile al caso dell’uomo grasso.»

    «Sì, un pochino gli assomiglia» riconobbe Rex. «Ma è diverso.»

    «In che senso?»

    Esitò. «Lo stai usando, ma non lo stai usando.»

    «Cosa vuoi dire?»

    «È già sul binario. L’uomo grasso, invece, sei tu che devi metterlo lì. Lo devi spingere. Mi sembra diverso.»

    Rex ha ragione. È diverso. Ma la domanda è: questa differenza conta? Alcuni filosofi credono di sì. Nel caso del trapianto e dell’uomo grasso, si entra in contatto fisico con le persone che si uccidono. E l’idea è quantomeno rivoltante.

    Ma è importante in prospettiva morale? Per tentare di capirlo, prendiamo un altro scenario, che chiameremo uomo grasso nella botola.³⁸ Comincia come l’esempio dell’uomo grasso: vagone lanciato a folle velocità senza possibilità di frenare, cinque operai sul binario e un uomo grasso su un cavalcavia. Ma per nostra fortuna sul cavalcavia, esattamente sopra i binari, si apre una botola. Se azioniamo una leva, l’uomo grasso cadrà sul binario sottostante, fermando il vagone e salvando i cinque operai. Solo che morirà. Ma noi non lo avremo toccato nemmeno con un dito.

    Questo rende lo scenario migliore? Non credo. Azionare una leva per farlo cadere sul binario invece che spingerlo forse sembra meno rivoltante, ma, in ogni caso, lo manderemmo incontro a morte certa. Perché la presenza di un meccanismo dovrebbe cambiare le cose?

    Sul problema del carrello ferroviario sono stati versati fiumi di inchiostro.c È stata creata una serie infinita di scenari, alcuni incredibilmente contorti: valanghe, bombe, altri vagoni, piattaforme girevoli per ruotare il binario… Questa branca della filosofia viene talvolta chiamata carrellologia,³⁹ una definizione almeno in parte dispregiativa per farci capire che la cosa ci è sfuggita di mano: siamo partiti da una serie di questioni morali – sulla portata e sui limiti dei nostri diritti – e chissà come siamo finiti in interminabili discussioni su vagoni ferroviari ambientati in scenari assurdi.

    A un profano tutto questo potrebbe sembrare una follia. E infatti la mia critica preferita alla carrellologia la dobbiamo a un ingegnere ferroviario di nome Derek Wilson, che ha scritto la seguente lettera al Globe and Mail:

    I dilemmi etici che coinvolgono un vagone in corsa sono lo specchio della disinformazione a causa della quale a così tante persone piacciono moltissimo i corsi di filosofia. È improbabile che treni e vagoni vadano fuori controllo perché sono dotati di un dispositivo dell’uomo morto che aziona un freno nel caso in cui il conducente sia impossibilitato a farlo di

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