Gesù Cristo non era Juventino
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L’amico Massimo Venale, vescovo e suo intimo confidente, è invece più interessato alle questioni materiali. Le offerte per la Chiesa diminuiscono continuamente e anche le passate roccaforti del cristianesimo stanno subendo un declino. Serve un’idea capace di risollevare le sorti.
Il cardinale Gragnano trova quella che si definirebbe un’illuminazione nel testo di un certo Di Fazio dal titolo curioso: Aboliamo la Juventus – Proposta per la rinascita dell’Italia. Il male, per l’autore di quel libro che fa sempre più presa sulla mente del cardinale,
è incarnato dalla Juventus e far sparire i colori bianco e nero dal mondo deve diventare una missione per ogni buon cristiano.
Divertente e provocatorio, Gesù Cristo non era juventino è un’opera unica nel suo genere, testimonianza sincera di una fede calcistica che incarna una spiritualità profonda che permea ogni aspetto della vita quotidiana.
Pompeo Di Fazio è un dipendente della Provincia di Frosinone. Iscritto all’ordine dei giornalisti del Lazio, è un grande appassionato di calcio. Dopo il parallelismo tra pallone e politica nel libro di esordio Aboliamo la Juventus – proposta per la rinascita dell’Italia, la sua nuova opera è incentrata sulla religione ricondizionata. Un racconto fantastico, fantasioso, illusorio e beffardo all’insegna del principio morale dell’antijuventinità.
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Anteprima del libro
Gesù Cristo non era Juventino - Pompeo Di Fazio
Pompeo Di Fazio
Gesù Cristo non era juventino
Principio di un Cattolicesimo ricondizionato
© 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-6653-5
I edizione novembre 2022
Finito di stampare nel mese di novembre 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Gesù Cristo non era juventino
Principio di un Cattolicesimo ricondizionato
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Prologo
Chissà quanti di voi si ritroveranno in quello che sto per descrivere, e mi riferisco in particolare a quella generazione che ha vissuto la propria infanzia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Io credo che saranno in tanti a pensarla come me.
Se siete nati e cresciuti in un piccolo paese, avete anche avuto la fortuna di avere nonne ottuagenarie a fianco e oggi avete raggiunto più o meno i cinquant’anni di età, il vostro percorso di formazione si è sicuramente imbattuto nella potenza degli insegnamenti della religione cattolica, conosciuti soprattutto attraverso la frequentazione dell’oratorio e dell’ora di catechismo.
Ciascuno di noi ha avuto un sacerdote, una catechista o una nonna Maria che ci hanno insegnato cosa fosse il Bene e dove si trovasse il Male. E lo hanno fatto in maniera semplice e immediata, senza troppi giri di parole, con una spiegazione facile facile, comprensibile anche a noi che allora eravamo bambini, sia per i vocaboli e gli esempi usati dall’illustratore o dall’illustratrice a seconda del sesso di chi esponeva, sia per la predisposizione ad imparare da parte di noi discepoli.
Sono state dunque queste le palestre, insieme naturalmente alla famiglia, alla scuola, agli amici e perché no, al bar, alla piazza e per me anche al campetto di calcio, che ci hanno educato e che ci hanno fornito i primi rudimenti morali per essere al mondo.
E siccome si è trattata comunque della fase più importante dell’esistenza, perché questi insegnamenti sono andati a incidere su personalità caratterizzate da una coscienza ancora tutta da far germogliare, alla fine, volente o nolente, anche negandoli poi nel corso della crescita, questi principi comunque ci hanno marchiato e tutt’ora ne siamo segnati. E anche nel presente influiscono, seppur in maniera marginale, sul nostro agire. Sul mio agire, sicuramente.
Se non producono immediate azioni, quanto meno ci fanno riflettere prima di avviare il pulsante e adottare un determinato comportamento, anche in maniera non voluta, distrattamente, come semplice richiamo dell’interiorità.
Scriveva un celebre filosofo, Benedetto Croce, non possiamo non dirci cristiani
. Non possiamo farlo perché siamo stati forgiati da quei valori. E anche i nostri modi di essere che ne sono l’esatto contrario, derivano da quel primo approccio.
Ricordo oggi con tanta simpatia che allora però si configurava come assoluto timore, gli ammonimenti che ricevevo da mia nonna e che mi davano un’immagine concreta di cosa fosse il peccato e soprattutto mi procuravano quel moto di paura nel caso avessi infranto qualcuno dei dieci comandamenti, la paura di finire all’Inferno.
Sì, io dell’inferno da bambino ero molto preoccupato. Volevo andare in Paradiso. E forse proprio per questo, tranne qualche capriccio dovuto al mio particolare approccio con il cibo, ho trascorso un’infanzia molto tranquilla. Non ho fatto disperare i miei genitori per come mi comportavo. Avevo l’ansia di finire bruciato nelle fiamme. Anzi, non definirei proprio paura quella sensazione che provavo, parlerei infatti di vero e proprio terrore, il terror fati che mi faceva analizzare ogni singolo gesto e ogni pensiero che compissi o producessi nella mia mente. Una fatica immane che però a qualcosa forse è servita: ha sviluppato un forte senso dell’analisi, dell’autoanalisi, che spesso paralizza la vita, perché pensare significa prendersi una pausa dall’esistenza, ma allo stesso tempo può essere la strada per tornare alla vita con maggiore consapevolezza.
Allo stesso tempo, però, questo approccio mi ha offerto, anzi servito su un piatto d’argento e con chiarezza, il contenuto delle categorie morali e mi ha indicato per quale principio impegnarmi nella realtà. Non che dovessi consacrare la mia vita alla religione, sia chiaro. Ma la religione, o meglio gli insegnamenti che la religione mi affidava attraverso il parroco, le catechiste e la mia famiglia, mi mettevano davanti il percorso da seguire tutti i giorni e la via della scelta di fronte ai vari bivi che la vita ti presenta quotidianamente. Nel senso che mi dicevano dove si trovava il bene e dove il male.
Sembrerà stano ma sapere cosa è il bene e cosa è il male, dunque cosa fare e cosa evitare, ha degli effetti sorprendenti anche nella realtà di tutti i giorni. La teoria finalmente diventa prassi.
Se ci penso, era questa anche una modalità per facilitarmi l’esistenza. Ero in possesso di un codice ben preciso che al momento opportuno mi soccorreva e mi diceva cosa fare. Non so se erano scelte giuste o sbagliate, ma erano scelte che arrivavano di conseguenza. Insomma, con questo codice sapevo come mi dovevo muovere nel mondo. E cosa non dovevo fare, perché se avessi infranto le regole, quelle fiamme e quei patimenti che mia nonna e il sacerdote indicavano, mi sarebbero toccati in sorte per l’eternità.
Non avevo ancora conoscenza di Dante Alighieri, ma di quello che poi avrei dovuto studiare nel corso della mia formazione, già ne avevo contezza e paura.
Ecco, i dieci comandamenti sono state le prime regole auree che ricordo, forse più del non uscire se piove, non prendere freddo, studia e non fare tardi, attento alle cattive amicizie
, le frasi che di solito vengono ripetute dai genitori di