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Hybonyx
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E-book550 pagine8 ore

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Info su questo ebook

In un’alba gelida di primavera, a causa di un malore, uno strano botanico si accascia fra le nevi canadesi. Sul momento egli non dà peso al disturbo e, ripreso il controllo di sé, prosegue la sua vita di sempre.
Non ha ancora idea di quale rilevanza avrà però quel piccolo incidente nel suo destino che, da quel momento, si legherà indissolubilmente a quello della giovanissima Lisa, la quale, benché già provata duramente dalla vita, scoprirà che la madre nasconde un segreto terribile.
Tra disperazione e inconsapevole eroismo, Lisa afffronterà il futuro col prezioso aiuto di un Essere che sulle prime le parrà di natura sin troppo mistica. Invece ambedue, contravvenendo ad arcane Leggi, s’incammineranno lungo un percorso tormentato e idilliaco che li costringerà a scelte difficili fra i mali di questo mondo e le insondabili prospettive di un altro, lo spirito di entrambi rivolto ad un desiderabile alter ego che ispira l’antico concetto di "anime gemelle".

In bilico fra il sentimento e la fantascienza, il romanzo osserva con gli occhi di una giovane donna la crudezza dell’esistenza umana e l’ineffabile consapevolezza di un miglior modo di vivere e di amare, sulla Terra... o altrove.

Ylenia Costa, nata a Roma ma cresciuta nella splendida terra di Sardegna, ama raccontare sin dalle scuole elementari. Negli anni ha coltivato il suo amore per la scrittura creando romanzi di viaggi e d’avventure, di sentimenti, di ricerca del sé e dell’altro, sfiorando pure "l’oltre".
Hybonyx, primo romanzo pubblicato dall'autrice, nato quasi per caso e a volte “ispirato”, è una fiaba dolce-amara che, fra slanci d’amore e sacrifici, prelude a una storia di più ampio respiro.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2013
ISBN9788863582178
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    Anteprima del libro

    Hybonyx - Ylenia Costa

    Copertina

    Hybonyx

    *

    Ylenia Costa

    HYBONYX

    Proprietà letteraria riservata.

    © 2013 Ylenia Costa

    © 2013 Phasar Edizioni, Firenze.

    www.phasar.net

    ***

    I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.

    Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa

    con un mezzo qualsiasi senza autorizzazione scritta dell’autore.

    ***

    Copertina: © Ylenia Costa

    ylenia.costa.book@gmail.com

    *

    Realizzato in Italia

    ISBN 978-88-6358-217-8

    *

    Ylenia Costa

    Hybonyx

    Phasar Edizioni

    Indice

    Epigrafe

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Epilogo

    Tavola delle immagini

    Ringraziamenti

    Note dell'Autrice

    Dedicato alla mia cara Mamma.

    So che questa storia l’avresti

    apprezzata. Tanto.

    I

    Antico graffito di Genio assiro alato di tipo nordico

    La mente che si apre ad una nuova idea non torna mai alla dimensione precedente.

    Albert Einstein

    Whistler, Columbia Britannica - 13 aprile

    Nell’algida luce di un’alba canadese che, come spesso accadeva in quell’anno glaciale, spazzava radente un mare di nubi grigie, immanenti un panorama tanto candido quant’era vasto, delle agili dita sottili protette da guanti scansarono con brevi gesti la neve che si accumulava sulla corteccia di un albero; poi una piccola lama, sottile ed inquietante, baluginò al sole incidendo quel legno rugoso e asportandone un frammento, che fu subito inserito in una scatoletta d’aspetto leggero e trasparente, di un lindore chirurgico. Dall’incisione, che era stata opportunamente allargata, sgorgò della linfa alla quale le abili mani accostarono una piccola provetta, altrettanto delicata e luminosa. La provetta si riempì e fu chiusa ermeticamente, quindi riposta in uno degli scomparti, destinati a quel tipo di contenitori, all’interno di un’anonima borsa bianca dall’aspetto rigido e compatto, rettangolare e dotata di una lunga cinghia priva di fibbie.

    Infine sulla ferita appena procurata all’albero venne applicato un misterioso unguento, qualcosa che sembrò far cicatrizzare quasi all’istante il taglio. Il bizzarro medico delle piante si allontanò di un passo e osservò con attenzione il lavoro svolto. Approvò con un lieve cenno del capo e si voltò per lasciare il miracoloso medicamento nella borsa; mentre si chinava su quest’ultima per chiuderne i lembi, fu colto da uno sbandamento repentino, violento.

    Slanciò le braccia in avanti, per sorreggersi ai rami bassi dell’albero di fronte, e scosse la testa; gli mancava l’aria e pensò che qualcosa non funzionasse nel casco di protezione. Si piegò allora per sedersi sui talloni; le dita corsero veloci agli interruttori di regolazione dell’atmosfera e del filtraggio ma tuttavia comprese immediatamente che il problema non era dovuto al casco e che, di fatto, non era quella la ragione del malessere: una causa di natura del tutto differente doveva aver provocato in lui il forte squilibrio. Una causa di natura senziente.

    Respirò a fondo, osservando la casetta in distanza, seminascosta dagli abeti; non vi erano segni di attività, né usciva fumo dal camino di pietre rosse. Gli abitanti del podere non erano ancora svegli, non si sarebbe dovuto preoccupare di loro.

    Sedette sul terreno, coperto da molti strati di ghiaccio e di neve fresca, e si portò le mani allo schermo nero di protezione. Fuori era molto freddo ma, tutto sommato, poteva arrischiarsi: non percepiva anima viva, non si muoveva una foglia; nemmeno gli animali del bosco avevano aperto gli occhi.

    Fece scattare un meccanismo pressoché invisibile sotto la mandibola e udì il rumore del gas denso e gelido che, di colpo, penetrò all’interno. Inspirò ancora un paio di volte, profondamente, per abituare i polmoni al gelo e nell’aria percepì l’acuto aroma di conifere e di resina, il grasso profumo della terra umida e quello amaro, secco della neve.

    Allora sfilò il casco e lo appoggiò sulle ginocchia, rivelando ai raggi dorati del primo sole una massa morbida di capelli biondi, lunghi abbastanza da sfiorargli le spalle, eterei e sottili come fili di seta. Li scosse, nella speranza che gli si snebbiasse la testa, e chiuse gli occhi.

    Quella sensazione estranea e violenta era ancora viva, la percepiva fra gli altri pensieri, s’insinuava pressante nel suo animo che, tuttavia, non poteva identificarla. Non ne riconobbe il timbro, non vide il volto né udì la voce della persona a cui quella mente corrispondeva. Con ogni probabilità, non apparteneva neppure alla sua gente; non mandava messaggi, infatti, ma soltanto un’eco vastissima e pressante di dolore, un urlo senza suono.

    Quel che rendeva strana ed atipica l’esperienza era l’assoluta assenza di un segnale di personalità, come se quell’onda mentale appartenesse ad un essere senz’anima… Il che, dovette convenirne, non era affatto improbabile. Ma restava comunque la possibilità che il grido d’infinita sofferenza provenisse da un territorio assai remoto.

    L’enorme distanza, anche questo era probabile, avrebbe potuto annullare l’impronta di personalità: fra le due, la ritenne l’ipotesi più realistica. Restava da capire perché proprio lui la percepisse. Oltre tutto era durevole, come i fumi dell’alcool dopo un’ubriacatura; cominciava a procurargli una lieve emicrania. Respirò ancora per liberare il corpo dalla cupa impressione ricevuta e si alzò, lesto, con una grazia inaspettata per un individuo tanto alto e robusto. La tuta candida che indossava lo mimetizzava nell’ambiente circostante, smagliante di neve, e lo rendeva quasi invisibile.

    Infilò nuovamente il casco e decise di dimenticare. D’altronde, senza l’apporto di un’impronta, sarebbe stato impossibile stabilire a chi appartenesse quella sorta di richiamo. Afferrò la valigetta, mettendola a tracolla, e ripercorse il sentiero calpestando le stesse impronte formate all’andata. Il paesaggio era meraviglioso, quasi irreale, solenne e fulgido come uno specchio del Creatore, ma non lo privò del suo persistente disagio.

    Rientrò talmente di buon’ora da non incontrare nessuno dei suoi, né dei loro. Dopo essersi spogliato della tuta e aver indossato gli indumenti locali ed il pastrano, uscì di nuovo. In quella mezz’ora, il tempo era già mutato: il sole, appena sorto, era stato incorporato in una coltre di nubi basse e dense, mentre un vento freddo e sempre più teso faceva fremere le fronde degli abeti, soprattutto sulla cima. Al più tardi nel pomeriggio, pensò, sarebbe nevicato di nuovo; probabilmente, assai prima.

    I cambiamenti climatici erano diventati estremamente dinamici, negli ultimi trent’anni, e sembrava quasi che il pianeta si barcamenasse tra la desertificazione totale ed una bella glaciazione; andamenti stagionali irregolari, talvolta violenti, e curve di pressione e di temperatura sempre più capricciose stavano iniziando ad insidiare i cicli vitali che da millenni regolavano la vita della Terra, così come una indubbia instabilità della polarità magnetica, sintomo di grandi mutamenti futuri. Le conseguenze, in caso di collasso del sistema, sarebbero state catastrofiche per tutti ed anche, entro certi limiti, imprevedibili. Dunque, insanabili. Il suo lavoro era ormai agli sgoccioli.

    Scese in città a piedi, come faceva sempre nelle rare giornate in cui si concedeva quella passeggiata. E quel mattino, in particolare, sentì di averne bisogno. Il fastidio, benché più blando, era tenace e gli aveva procurato anche una strana nausea, alla quale non era avvezzo.

    Decise di entrare da Betty, nonostante tutto. Una tazza di caffè nero lo avrebbe ispirato e confortato più di qualsiasi riflessione, se mai la cara ragazza avesse deciso di lasciarlo in pace. Altrimenti, il suo chiacchiericcio vuoto gli avrebbe comunque impedito di preoccuparsi di quanto era appena avvenuto.

    Quando aprì la porta a vetri del negozio, cercò di non far suonare i campanelli che vi erano stati attaccati. Ci provava ogni volta, ed ogni volta Betty se ne accorgeva e lo riconosceva al volo. Anche questa volta, ovviamente.

    «Dottor Mohan, sei tu?» sentì strillare dai locali di cucina.

    «Giusto» mormorò lui, sedendosi con calma su uno degli alti sgabelli allineati davanti al bancone. Il locale non era mai stato di gusto sopraffino ma era caldo, accogliente e un po’ ruvido, come coloro che l’avevano tirato su e come la gente che lo frequentava.

    Una giovinetta sui vent’anni, con le guance rosse come mele e lunghi capelli fulvi, si precipitò al banco con le mani ancora umide, infilate nel grembiule di jeans.

    «Come ti butta, Mohan? Era un bel pezzo che non ti facevi vivo!».

    «Sto bene, grazie. Sentito che gelo? Ho bisogno di un caffè nero caldo, se non ti spiace» rispose lui, spostando con cura da sotto la gamba destra un lembo del lungo e voluminoso pastrano nero che lo avvolgeva tutto.

    «Be’, credimi: per quanto tu possa sembrare gelido nel farti tanto desiderare, rivederti non è mai un dispiacere» commentò la ragazza, mostrandogli un sorriso a trentadue denti dall’aria vagamente equina. Le brillarono gli occhi, che non riuscivano a staccarsi dal volto del cliente.

    Decisamente le era mancato; come al solito, del resto. Peccato che a lui Betty mancasse assai di rado e più che altro per l’abilità innata nel preparare un ottimo caffè. Delle ridicole illusioni di quella giovinetta di provincia non sapeva che farsene: erano banali, sdolcinate, intrinsecamente collegate all’erotismo e ad una insensata fisicità.

    Ogni volta che la guardava, capiva perché preferiva starsene lontano da quella gente e godersi il mondo nella sua essenza più remota e solitaria. Betty non aveva quasi idee proprie, seguiva la corrente; poco fine, talvolta sboccata, aveva una spiccata tendenza a sfiorare la vita senza coglierne l’essenza. Mai aveva osservato un tramonto con vera passione e di sicuro non era in grado di spiegare ciò che provava in fondo al cuore, nemmeno nei suoi confronti. Lei non era interessata ad una relazione seria ed importante ma, piuttosto, al gusto per l’avventura, all’eccitazione del nuovo e del bello. Era incapace, quella benedetta femmina, di fermare la mente su un’idea definitiva o su un oggetto duraturo.

    Non che le donne fossero tutte così, il dottor Mohan lo sapeva bene, ma di certo era piuttosto raro trovarne di quelle che, all’alta considerazione che avevano di sé, fossero capaci in concreto di corrispondervi nel contegno e nell’espressione dei sentimenti: poche erano veramente dotate di una spiccata sensibilità o di quella gentilezza innata che, altrimenti, le renderebbe tutte adorabili.

    Egli era del tutto avvezzo al loro modo di fare così scoperto: gli sguardi languidi o furtivi; le scadenti battute a doppio senso; il finto romanticismo che mascherava spesso una vena di mordace sarcasmo; il più delle volte, nell’approccio con gli uomini, si rovinavano da sole e ottenevano sempre meno di quel che, sotto sotto, sognavano tutte.

    Guardò Betty da sopra l’orlo della tazza di caffè che, non appena versato, stava già bevendo; lei lo fissava con aria sognante, come se fosse stata scaraventata all’improvviso davanti ad una fantastica statua di Adone. Ma tuttavia, mentre ne osservava senza parere lo sguardo svenevole e il sorriso fermo, quasi posticcio, sentiva con ogni fibra quanta vibrante passione emanasse la ragazza, tutto il suo desiderio puro e grezzo. Contrariamente al solito, poi, lei non chiacchierava affatto.

    Forse l’aveva fatta attendere troppo, l’aveva disabituata a sé: un brutto errore – per quanto fosse per lui un modus operandi gratificante – il fatto di non frequentarla abbastanza spesso. Ogni volta che lo rivedeva dopo tanti giorni, Betty tendeva ad innamorarsi di nuovo; una cotta decisa e crudele, tutta basata sull’attrazione fisica. Un indicibile strazio per entrambi, in ogni caso.

    «Che cosa mi racconti di tuo padre? Sta meglio, spero» chiese, posando la tazza di coccio blu sul piatto.

    «Una favola! Guarisce in fretta, come se non gli fosse capitato niente di brutto».

    Altro sguardo al fulmicotone da parte della ragazza. Mohan chinò lo sguardo sul caffè, nascondendo un sorriso di condiscendenza.

    «Sono contento» commentò, terminando in fretta la bevanda calda.

    «Ma scherzi? Tu dovresti essere fiero ed orgoglioso: sei un medico favoloso, dottor Mohan!» esclamò Betty, tutta presa dalla sua adorazione.

    «Non credo. Il tuo genitore ha una fibra eccezionale e si nutre abbastanza bene. Se soltanto la smettesse di fumare…».

    «Ah, lo so! Non hai idea di quante volte glielo diciamo, la mamma e noi altri! Ma ché, ci ascolta mai? Figurati».

    La ragazza incrociò le braccia con fare da saputella ma poi, notando la tazza già vuota, le sciolse subito lungo i fianchi.

    «Ne vuoi ancora, vero?» lo sollecitò. «Il secondo è gratis!».

    Il bel dottore mise una mano in tasca, in cerca di monete. Evidentemente, non ne voleva più. Betty mise su un rapido broncio.

    «Hai da fare, oggi pomeriggio?» si affrettò a chiedere.

    Le pupille dilatate, le guance ancor più rosse del consueto, il turgore del seno e tutto l’atteggiamento della persona urlavano, in faccia al consapevole avventore, quanto desiderasse trattenerlo vicino a sé.

    «Temo di sì. Perché?» chiese lui con gentilezza.

    «Gli altri della comitiva ed io andiamo a pattinare. Ci portiamo panini e caffè caldo e… be’, i ragazzi porteranno anche da bere, è ovvio. Ma la cosa importante è che avremo buona musica e un sacco di plaid per distenderci dopo la corsa!».

    «Immagino» mormorò il giovane, volgendo altrove lo sguardo; e poi, rendendosi conto di suonare troppo ironico:

    «Capisco. Pare bello… Ma purtroppo devo lavorare in ospedale. Non avrei neanche il tempo di raggiungervi più tardi» soggiunse infine, prevenendo l’obiezione della ragazza.

    «Tu lavori troppo!» ridacchiò Betty, sporgendosi in modo provocante sul piano del bancone. «Quand’è che ti ritagli uno scampolo di tempo libero, eh?».

    «Sono un medico. Sai come funziona…» borbottò Mohan, tirando fuori di tasca una moneta e posandola con cura accanto alla tazza vuota.

    «Be’, senti! Se non ti prendi una pausa, finirai con il giacere in un letto del tuo ospedale, sai?» rispose la giovane, scoppiando a ridere per la propria battuta.

    Era molto probabile che, pronunciandola, Betty ne avesse ravvisato il potenziale doppio senso, il che l’avrebbe eccitata ancora di più. Era tempo di salutarla.

    «Betty, è stato un piacere, come sempre» disse, alzandosi e indicando la moneta. «Tieni il resto».

    «Come al solito?» scattò la ragazza, smarrendo il sorriso.

    «Sì, come al solito» le rispose con aria imperturbabile.

    «E, come al solito, tu mi sfuggi. Pensi che non me ne accorga?» attaccò lei.

    Fantastico. Una mattinata idilliaca, per uno già provato da un bizzarro malore privo di fondamento.

    «Betty, per favore» la supplicò a mezza voce, roteando le iridi di un azzurro intenso, assolutamente incantevole.

    «Vuoi dire "Per favore, non è vero oppure Per favore, non insistere?" Non ti accorgi che provi a scappare appena mi avvicino?» ribatté la ragazza.

    «Voglio dire che ne abbiamo già parlato, tutto qui».

    «Ah, pensi che io abbia la memoria corta e un cuore inutile, insomma».

    «No. Penso che non devi metterti in testa storie che non esistono. Non sono disponibile oggi come non lo ero ieri. Niente di personale».

    «Ma che diavolo, Mohan! Mai sentito parlare di amicizia, tu?»

    Eccola l’astuta, piccola ipocrita: non appena le si chiudeva in faccia quella porta, cercava di aprirne una che neppure esisteva.

    «Sicuramente sì. Ma, cosa vuoi, sono talmente impegnato che i miei amici neppure mi telefonano più» rispose lui con un’aria di finta rassegnazione. «Finirei con l’offendere anche te».

    Detestava quei discorsi, quel genere di scuse, tutti quegli atteggiamenti così… umani. Ne era spossato. E si era appena pentito di quella tazza di caffè.

    Betty si strinse nelle spalle, piuttosto incollerita. Le braccia tornarono conserte sul seno.

    «Dovresti lasciare a me il giudizio finale, no?».

    Il bel dottore non rispose, evitò anche di guardarla in faccia, benché conservasse un’espressione serafica.

    «Be’, Mohan, allora fatti vivo quando puoi» gli disse, acida. Non sorrideva più, lo fissava accigliata. Eppure sapeva, povera fanciulla, che se ne sarebbe pentita amaramente.

    «Okay. Mi spiace molto. Stammi bene, cara. E salutami i tuoi» le rispose, voltandole le spalle. Con tutta la sua mole, con quell’altezza imponente – ché con la testa sfiorava l’architrave della grande soglia – il giovanotto attraversò la caffetteria ed uscì nell’aria fredda e ventosa.

    Attraversò la strada fangosa in quattro falcate ampie e si mise a camminare sul marciapiede opposto, fra i fiocchi di neve che avevano ripreso a cadere, piccoli e turbinanti, sul paesaggio già frigido. Sapeva che, se si fosse gettato un’occhiata sopra la spalla, avrebbe scorto la ragazza sulla soglia dischiusa, intenta a fissarlo disperatamente mentre lui si allontanava. Per una volta, evitò di procurarsi l’ennesima fitta al cuore e non si voltò. Pregando di non incontrare altre giovani e focose rappresentanti di quel sesso, camminò di buon passo sino all’ospedale pubblico, dove entrò velocemente nell’atrio.

    L’emicrania non accennava a passare ed era strano: non si era mai sentito tanto scombussolato. Avrebbe dovuto parlarne con Edyrn ma sapeva che, in tal caso, sarebbe stato tartassato dalle sue domande crude, dirette, del tutto inutili: non nascondeva malanni, non aveva motivo di ritenersi in difetto, né aveva offeso o illuso qualcheduno salvo, suo malgrado, la piccola e sciocca Betty Garrett.

    Poiché in effetti non aveva spiegazioni da dare, decise di evitare di pensarci, nella speranza che il malessere passasse. Poi, se le cose non fossero migliorate nelle ore successive, si sarebbe rivolto al suo amico più fidato; il quale, già lo sapeva, gli avrebbe consigliato di starsene lontano per qualche tempo da tutto e da tutti. La panacea, il rimedio a tutti i mali causati dalle brame umane: raccoglimento, solitudine, meditazione. E magari Althinea Kanak.

    Scese nello scantinato, dove lo attendeva il responsabile degli approvvigionamenti, impelagato fra casse e colli di medicinali.

    «Dottor Mohan, com’è mattiniero» lo accolse il signor Pottery, un uomo basso e tarchiato, con tipici baffetti corti e rossicci da anglosassone, le palpebre cadenti, la pelle rubizza su una faccia paffuta.

    «Ho preso un caffè e sono venuto subito» rispose il giovane, senza accennare a spogliarsi del soprabito.

    «Be’, evidentemente non è fra quelli che godono della compagnia della signorina Garrett, direi» osservò l’ometto, porgendogli una distinta già compilata, e ridacchiò con somma indiscrezione. Ovviamente tutti sapevano tutto, da quelle parti.

    «Così sembra. Questa è pronta?» tagliò corto Mohan.

    «Per ora, è completa. Ma il dottor Sanders sta aspettando un carico di morfina per oncologia. Dice che, non appena avremo l’okay sulla disponibilità, bisognerà correre a prenderla e di volata. Come se non avessimo già abbastanza lavoro, qui. Meno male che lei, dottore, è sempre così disponibile: il direttore dice che nessuno ha mai sbrigato questo genere d’incombenze più velocemente…».

    «Non c’è proprio alcun problema: quando il carico arriverà, volerò» commentò l’altro, sorridendo mentre afferrava i fogli. «Nel frattempo, signor Pottery, le auguro una buona giornata».

    «Anche a lei, dottor Mohan… Anche a lei».

    Mentre usciva, lo udì bofonchiare qualcosa del tipo "Sempre così formale, e sì che lavora qui da più di un anno".

    Oltrepassando la soglia dell’edificio, il bel medico incrociò un gruppo di infermiere che arrivavano frettolose, tenendo l’ombrello aperto con una mano e un bicchierone di caffè caldo nell’altra. Per poco non si scontrarono però lui, agile e molto veloce a dispetto della stazza, evitò l’impatto come per miracolo, scatenando un’ondata di convenevoli e risatine.

    Le salutò con un cenno della mano, inseguito dalle loro occhiate ammirate, nonché da certi commenti pungenti e vagamente osceni; riattraversò la strada, prendendo poi per una serie di strade secondarie che risalivano il quartiere evitando il centro. Presto fu di nuovo al limitare dei boschi e là si fermò, guardandosi intorno con molta attenzione, come se si fosse perso.

    Il cerchio alla testa non pareva diminuire d’intensità e l’eco di quel grido sovrumano l’opprimeva ancora, come una voce nuova e potente, ignota ma, evidentemente, di grande importanza per lui. Stranito, leggermente confuso, si concentrò sul circondario formato da uno schermo di alberi secolari e da mucchi di neve, colline ghiacciate e rocce tappezzate di muschi che lottavano per vincere il gelo che li racchiudeva, in un vasto e generale splendore di cristalli; tuttavia, non c’era anima viva.

    Si scrollò di dosso la neve; chiuse tutte le tasche, in una delle quali aveva assicurato la distinta d’ordine per i medicinali; infine armeggiò coi bottoni del pastrano e alzò l’ineffabile volto verso il cielo grigio, che si rispecchiò nell’azzurro profondo delle sue iridi.

    Neve ed aria fredda avrebbero giovato alla sua emicrania o, almeno, così sperava. Con uno strano gesto brusco, sembrò far scivolare il soprabito dalle spalle ma scomparve subito alla vista, infilandosi con determinazione dietro un folto d’alberi, tra i quali si levò subito dopo una nuvoletta di polvere bianca che vorticò, rapida come un battito d’ali, per poi disperdersi nell’aria immota. E una lepre argentata, dopo aver fiutato l’aria e fissato lo strano fenomeno, si rituffò pavida nella sua piccola tana, celata fra le radici ghiacciate di un abete.

    II

    Soffrire e piangere significa vivere.

    Dostoevskij

    Roma, Italia - 11 aprile

    Lisa uscì dal bagno con una rivista da adolescente in mano. In effetti, non era mai stata una vera fan di attori e cantanti suoi coetanei, non una scatenata urlatrice ai concerti o una svenevole adoratrice di poster appiccicati ai muri. Era piuttosto una sognatrice, lei, e amava leggere vecchi romanzi o, in alternativa, guardare film d’avventura e d’amore; non le piacevano le cosine leggere come i telefilm e le sit-com a cui lavoravano quei patinati ragazzini dall’aria impertinente. Ciò nonostante, poiché in quel periodo andavano di moda libri e film gotici (al giorno d’oggi si definiscono dark) su licantropi, vampiri e streghe, la ragazza si teneva al corrente di tutto, anche per poter avere qualcosa di originale da dire durante le interminabili conversazioni sul tema che, fin troppo spesso, venivano intavolate tra le sue amiche. Per il resto, non ritagliava foto degli attori e non sbavava sul belloccio di turno. Aveva già deciso di staccare il paginone centrale con il poster del Mitico Matt, un ragazzone alto e bruno che, ancora sedicenne, impazzava ad Hollywood, per regalarlo all’amica Celeste, che invece impazziva per lui e già si vedeva, di bianco vestita, convolarvi a nozze.

    Passando per il corridoio, si accorse che sua madre, in piedi accanto al telefono, parlava troppo piano e sembrava agitata.

    S’infilò in camera sua, lesta e silenziosa, e accostò la porta. Non le piaceva origliare ma, per il modo balordo in cui si stavano mettendo le cose, capì che sarebbe stato prudente infrangere le regole e sfruttare la scorrettezza a proprio vantaggio. All’altro capo del filo doveva esserci la zia Mara, sorella della mamma, alla quale non si poteva negare o nascondere nulla: un altro motivo per sentirsi irritata, pensò Lisa.

    «È un uccellino, capisci? Non mi mangia più niente: pilucca, più che altro!» disse Dora Ranieri, accorata.

    Sua figlia, con la fronte appoggiata allo stipite della porta socchiusa, avvampò. Non erano affari loro, alla fine! Ma perché doveva essere tanto importante la quantità di cibo che ingollava?

    «Quanto?… Ma che ne so! Non si riesce più a smuoverla in nulla, figurati se riesco a farcela salire! Ma è davvero troppo magra, ti assicuro».

    Seguì una lunga pausa, il cui silenzio sembrò pesare sul corridoio di là dalla porta come un pericolante macigno sull’orlo di un crinale instabile.

    «Ma stai scherzando!» bofonchiò sua madre, abbassando di colpo il volume. «Anoressia… E perché dovrebbe, scusa?».

    Altra pausa. La zia Mara si era lanciata in una delle sue tirate sui rischi dell’educazione moderna e sui problemi degli adolescenti. Interromperla sarebbe stata una vera impresa, adesso.

    «No, senti… Ma se ti dico di no! Scusami, Marella, però credo che ora stai esagerando» commentò sua madre, cominciando a seccarsi parecchio: la ragazza udì perfettamente lo sbuffo d’impazienza che si lasciò sfuggire.

    «Be’, stammi a sentire, lei ed io non abbiamo mai avuto quel genere di problemi: andiamo d’amore e d’accordo, certe volte persino troppo. Perciò non puoi tentare di associare la sua magrezza con!…».

    Breve pausa. Lisa poteva quasi sentire la voce della zia gracchiare puntigliosa nella cornetta premuta contro l’orecchio di Dora.

    «No, non ci sono problemi di quel tipo, fra noi. Ammetto piuttosto che a volte siamo troppo complici ma, con quello che abbiamo passato, mi pare il minimo!… Certo, è ovvio che questo ha complicato il mio ruolo: non è facile ottenere disciplina da un ragazzo quando si aspetta ben altri atteggiamenti, no? Ma Lisa non è il tipo che approfitta del…».

    Altra pausa, durante la quale il cordone ritorto della cornetta andò ripetutamente a sbattere contro il tavolino sul quale era posato l’apparecchio. La zia Mara stava facendo uscire la mamma di sentimento, tanto che alla fine quest’ultima decise di tagliar corto.

    «Senti, ho capito che l’argomento è lungo e spinoso però ti dico che sei fuori strada. Inoltre, non ho il tempo né il modo per discuterne: devo ancora prepararmi per uscire, Marella».

    La zia dovette evidentemente fare ogni sforzo per portare avanti la discussione che sua sorella intendeva troncare, tuttavia non vi riuscì. Quando Dora Ranieri decideva che una cosa doveva finire, finiva e basta. Alla faccia della sua presunta incapacità a gestire la disciplina!, pensò Lisa.

    «Bene, allora. Ne riparleremo a quattr’occhi, se non ti spiace. Sì… Sì, appunto. Certo, anche per quell’altra cosa… Ci risentiamo. Sì, ti ho detto che va bene! Per favore, adesso fammi andare, ché faccio tardi, okay?… Sì, certo. Allora ciao. Ciao!».

    Quando riagganciò, non fece nulla per trattenere un esasperato sospiro di sollievo.

    «Bell’aiuto, mi dà» borbottò fra sé, irritata.

    Lisa si staccò dalla porta e corse verso il letto, sul quale si lanciò a volo raso. Teneva ancora in pugno la copia ormai sgualcita di Heart’s Dream: aveva rischiato di far distaccare in malo modo la grande foto patinata dell’attore nel paginone centrale che adesso, mentre la sistemava con cura, la fissava con un’aria intensa, a metà fra il fascino e la sfrontatezza. Molto infantile. Come si poteva essere innamorate del mitico Matt?, si chiese, posando di scatto la rivista contro il fianco sinistro; le pareva il classico bamboccio viziato, poco colto, unto e beone. O peggio.

    Udì i passi di sua madre che si avvicinavano, poi le dita caracollarono sull’anta appena dischiusa della porta per chiedere un tacito permesso. Lei non rispose ma la porta si spalancò ugualmente.

    «Tutto bene?» chiese la mamma. «C’è aria viziata, qui dentro, non la senti?… No, certo che no, dato che te la stai respirando a pieni polmoni! Alzati, su, che facciamo un po’ di pulizia».

    «E dai, mamma!» protestò la ragazza, oltremodo seccata per quella eclatante violazione della privacy.

    «Tirati su dal letto, pigrona, sei ancora in pigiama» rincarò la dose l’altra, affrettandosi a spalancare la portafinestra che aggettava sul cortile interno dello stabile, dove tre palme striminzite crescevano a stento, per riguadagnare la luce del sole perduto, nel centro di un’arida aiuola abitata da gatti randagi in regime di semilibertà.

    Lisa si levò stancamente, nascondendo la rivista fra le pieghe del piumino, come se non si fosse mai alzata prima né avesse inteso una sola parola di quanto sua madre aveva detto al telefono. Tutto come se non fosse mai accaduto.

    «Devi fare molti compiti?» le chiese ancora lei, premurosa. «Perché altrimenti potresti accompagnarmi a San Gregorio».

    «Non mi va molto, veramente».

    «Lo sai che dopo ti senti sempre meglio!» la signora perorò la sua causa, certa che la figlia si sarebbe infine convinta. A volte, lei e la zia rivelavano tratti comuni del carattere.

    Per scaricare la tensione che la proposta aveva sollevato, Dora cominciò a rassettare il letto; così scovò la rivista patinata e la osservò un istante, aprendola proprio sul paginone centrale.

    «Caspita, che pezzo di figliolo. Ma chi è?» chiese, chiudendo bruscamente il giornaletto. Sembrò imbarazzata, anche se faceva finta di no. Sembrava anche affaticata ma forse era solo un’impressione.

    «Quello!… Matt Durham, il licantropo di Moonlight Fever» mormorò Lisa, guardando altrove; magari doveva dirle di Celeste e della sua mania per il mitico attore, anche se sarebbe parsa una scusa ridicola creata ad arte per proteggersi.

    «Bisogna riconoscere che è piuttosto bellino e ben piazzato, per quanto leggermente… nudo?» osservò Dora.

    «I pantaloni ce li ha!» lo difese l’altra, sempre trafficando fra le sue cose per non mostrare la faccia alla madre.

    «Oh, sì. Tutti tagliuzzati come se fosse passato sotto un tosaerba impazzito. Però ce li ha!» ridacchiò la donna, rifacendo velocemente il letto.

    A Lisa piaceva osservare con quale cura sua madre riusciva, muovendosi appena e con pochi gesti precisi, a rincalzare perfettamente il lenzuolo sotto il materasso, a distendere il piumino senza una grinza e ben piegato in due, a rimpolpare il guanciale ben sopra la linea di piega del copriletto, per poi tirarne su i lembi e coprirlo con una perfezione che rasentava il maniacale: due colpetti nella plica che il telo formava fra cuscino e materasso e… voilà, il letto era rifatto. Lei ci avrebbe impiegato dieci minuti e alla fine si sarebbero notati più bozzi e grinze di quando si era appena alzata. Non le era dato di compiere quel genere di umili capolavori.

    Destino infame, pensò. Ma poi, mordicchiandosi l’unghia di un indice, rifletté sulle decisioni che da tempo aveva preso. Intanto avrebbe potuto rimanere disordinata per sempre, giacché non si sarebbe mai sposata: aveva imparato a sue spese quanto fossero stupidi i ragazzi; con l’età, la loro inferiorità mentale congenita si trasformava in arroganza e persino in cattiveria; in più le era stato riferito che, quando raramente dimostravano un intelletto di spicco, lo facevano pesare come se la loro ragazza fosse una deficiente. Un’esperienza che lei non avrebbe condiviso mai. Lisa era convinta che essi non sapessero amare davvero, col cuore e con lo spirito; il loro obiettivo primario sarebbe sempre stato quello di copulare come conigli. Certo, pareva evidente che si appiccicassero addosso alla loro vittima, all’inizio, per sussurrare paroline dolci… Ma era fondamentale abbattere le difese delle ragazze, no? Volevano far credere di essere dei principi azzurri, invece erano solo rospi ben travestiti: tutti o quasi.

    Lei, il quasi, non lo avrebbe incontrato mai. Non era stata fortunata: aveva conosciuto soltanto cretini integrali e persino dei mostri psicopatici. Ne aveva abbastanza. Quindi, a quale scopo diventare brava nelle faccende domestiche? Casa sua, il giorno in cui ne avesse posseduta una, sarebbe stata davvero soltanto sua. Avrebbe potuto farci quel che voleva e se le fosse garbato di dimenticare le mutande sul divano del soggiorno, chissene: occhio non vede, cuore non duole. Il suo cuore solitario, comunque, no di sicuro.

    «Smettila di rosicchiarti le unghie, Lisa, è terribile guardarti. Piuttosto, se hai tanta fame, va’ a fare colazione».

    «Non ne ho. C’è del caffè?».

    «Uh, il caffè. Quello sì, ti tiene in piedi sino all’ora di pranzo!» ironizzò Dora, sbattendo sonoramente lo scendiletto fuori dalla finestra.

    La ragazza serrò i denti e sospirò.

    «Vado a fare la doccia» annunciò, dichiarando conclusa la sessione di lotta psico-sarcastica.

    «Doccia e co-la-zio-ne!» le gridò dietro sua madre.

    «Sì, mamma. Certo. Come no…» ruminò lei, dirigendosi in bagno. Vi si chiuse dentro a chiave, si sfilò il pigiama e lo lasciò ammucchiato come cenci vecchi sul pavimento. Aprì l’acqua calda e la lasciò scorrere – la caldaia era vecchia, faceva sempre cinque minuti di capricci prima di avviarsi – mentre si lavava i denti nel lavabo. Prima di entrare nella cabina-doccia, lanciò un’occhiata al grande specchio che già si appannava.

    Non era anoressica. Non pensava affatto di essere malata. Riconobbe che era un po’ magra, guardandosi le scapole e la gabbia toracica, ma non era mica uno spauracchio da morta in vacanza! Il seno c’era, alto e sodo, e i fianchi non sembravano affatto due bastoncini cinesi da riso. Glutei alti, muscoli sodi. Non era mica tanto orrenda! Lei non aveva mai condiviso le fisime delle sue compagne, tutte prese a fissarsi sui loro presunti, inesorabili difetti. Lei stava bene come stava. Da sola, soprattutto. Non se ne sarebbe data pensiero. Perciò che colpa ne aveva, se le mancava l’appetito? E poi le forze non le difettavano. Tranne quando doveva rifare i letti o passare lo straccio per terra: Dio, come detestava quel genere di fatiche, che le mettevano addosso certi nervi.

    In ogni modo, non si sentì affatto colpevole quando entrò nella doccia, lasciando che l’acqua scrosciante lavasse via il sonno e il malumore.

    * * *

    La messa a San Gregorio era finita e si erano già fermate per la consueta puntata domenicale alla pasticceria dietro l’angolo, dove la mamma comprava sempre un vassoio di paste dolci assortite. Quella piccola abitudine, che era sempre stata coltivata in casa dacché lei ricordasse, era un modo come un altro per ribadire la continuità della vita familiare, a dispetto dei colpi del fato e di ogni possibile ostacolo alla concordia generale. Si andava a teatro una volta al mese, ogni due settimane il sabato era dedicato alle spese futili – ormai viene definito shopping, anche se non si vive a Londra o a New York – ed ogni domenica, dopo la funzione religiosa, si portavano a casa le pastarelle alla crema e i rotoli al kirtch, che lei adorava. E lei, secondo sua zia, sarebbe stata un’anoressica? Quando mai quelle povere disturbate divorano rotoli al kirtch? Ossia, per dire, magari lo fanno; ma è altrettanto sicuro che poi corrono al bagno per infilarsi due dita in gola! Una faccenda disgustosamente bulimica. A Lisa non sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del cervello di combinare disastri del genere. Alla sua modica età, ne aveva già passate di tutti i colori e l’autolesionismo non rientrava nei suoi programmi futuri.

    Dopotutto se, nonostante la magrezza, non era ancora caduta a terra come un sacco vuoto, lo si doveva pure a qualcosa, no? I rotoli al kirtch, probabilmente, la salvavano da un destino peggiore.

    La mamma era sempre più allegra e rilassata, dopo la messa e l’acquisto delle paste domenicali. Rientrarono nel loro silenzioso appartamento verso la mezza, quando Lisa, scaraventando la borsetta sul pavimento dell’ingresso, rammentò all’improvviso che l’amica Celeste stava aspettando la restituzione di un pullover color glicine che le aveva prestato un paio di settimane addietro, per convincerla a partecipare alla sua festa di compleanno quando lei, come al solito, si era lamentata di non aver nulla da mettersi. Inoltre, visto che la cara Celeste Saviani le aveva anche chiesto certe note di letteratura inglese per il lunedì successivo, decise che – dopo aver messo da parte per lei il Mitico Matt – avrebbe trascorso un agognato quarto d’ora al telefono per trasmetterle gli appunti; in tal modo si sarebbe informata sulle novità concernenti la loro combriccola. E il quarto d’ora al telefono si sarebbe allungato senz’altro a tre quarti: valeva a dire, più o meno, sino all’ora di pranzo.

    Il programma sembrava fattibile e molto attraente, ragione per cui, quando Dora posò le chiavi sulla mensola dell’ingresso in penombra, facendole risuonare in un modo caratteristico, Lisa cercò di rintanarsi subito in camera sua.

    «Tra mezz’ora sarà pronto!» le gridò dietro sua madre.

    La figlia spiegò a raffica la faccenda urgente degli appunti.

    «Ma portali domani in classe, no? Se ti metti al telefono adesso, non te ne stacchi che fra due ore!» protestò Dora, costernata.

    «No, Celeste deve studiarli per domani: devo dettarglieli perché mi ero proprio dimenticata! Spero solo che non si vendichi inviandomi una scarica da mille volt attraverso il filo della cornetta» rispose Lisa, buttando l’impermeabile sopra la borsa e svicolando lungo il corridoio.

    «Quando ti chiamo, però, vieni a mangiare. Semmai vi risentirete più tardi» si raccomandò sua madre, rassegnata, scrollando la testa.

    La ragazza si chiuse in camera facendo spallucce. L’unica prospettiva attraente del pranzo domenicale, si disse, erano i rotoli al kirtch in chiusura di pasto. Ma prima di quelli, che strazio!

    Afferrò l’apparecchio e lo piazzò sul letto, sulla superficie del quale si tuffò in orizzontale, tanto lunga quant’era. Nel momento esatto in cui alzò la cornetta, con l’indice pronto a comporre il numero dell’amica, sentì qualcuno che parlava.

    «Pronto?… Prooonto?!».

    Cioè, ma che cavolo!, pensò, fissando l’apparecchio con gli occhi fuori dalle orbite. La vocina metallica, che riudì ancora quando riaccostò il ricevitore all’orecchio, continuava ad urlare.

    «Pronto?… Dora, sei tu?».

    Fantastico. La zia Mara. Un tempismo perfetto.

    «Zia Mara?» chiese Lisa, con la voce un po’ esitante.

    «Ah, ciao, nipote! Sei di mano lesta, non c’è che dire: non ho sentito nemmeno uno squillo, prima che tu mi rispondessi».

    «Ehi, zia» salutò la nipote, scoppiando a ridere. «Veramente, quella svelta sei tu. Avevo aperto la comunicazione per telefonare ad una compagna di scuola e ti ho sentita strillare pronto, pronto. Aspetta, vado a chiamarti la mamma».

    Mollò la cornetta sul letto e si sporse sul corridoio per strillare l’annuncio della telefonata. Sua madre si affacciò dalla soglia della cucina, con una cucchiarella di legno in pugno.

    «Ah, sì? Ma non dovevi telefonare a Celeste, tu?».

    «La zia mi ha battuto sul tempo» borbottò Lisa.

    «Che strano, non ho neppure sentito il trillo» commentò Dora, avvicinandosi all’apparecchio che tenevano in corridoio, accanto alla cucina.

    Lisa rientrò in camera sua e, chiudendosi la porta alle spalle, guardò in direzione del proprio apparecchio, che era rimasto aperto; per correttezza, avrebbe dovuto riappendere subito. Di sicuro, pensò, la sorella di sua madre voleva attaccare la concione finale sulla questione anoressia.

    La tentazione di ascoltare entrambe le campane fu davvero troppo forte. Così sollevò la cornetta e ne coprì il ricevitore con una mano, prima di accostarlo all’orecchio. In seguito, non poté perdonarsi di aver osato origliare tanto indegnamente, né si pentì mai abbastanza di essere stata incapace di rivelare la propria presenza alle due parenti: la zia Mara era stata molto chiara nel domandare alla sorella se la ragazzina fosse ancora nei paraggi o se potessero parlare liberamente. E poiché Dora, a voce bassissima, aveva risposto che erano libere, Lisa seppe la verità. Nell’arrivare a conoscerla, inoltre, capì che per lei il mondo sarebbe finito lì.

    * * *

    Roma, Italia - 12 aprile

    «Non mi hai portato gli appunti! Accidenti, che cosa racconto alla prof, adesso?» esclamò la Saviani, costernata. Un gesto feroce del capo sollevò i suoi bei capelli biondi, lisci come spaghetti, facendoli ruotare intorno a sé come il gonnellino di un danzatore Sufi.

    Lisa borbottò una giustificazione ad occhi bassi, brusca. Strano, per lei. E infatti Evelina Bianco, altra amica inseparabile, si girò di scatto verso le compagne: si trovava nel banco davanti al loro e sentiva, come sempre, tutto quello che lei e Celeste si dicevano. Anche Grazia Comino, la compagna di Evelina, si volse indietro e strabuzzò gli occhi: non era punto normale che quelle due bisticciassero, di solito si amavano come sorelle siamesi.

    «Tutto okay?» chiese Vivì, aggrottando la fronte. A mala pena preoccupata per il piccolo incidente, concentrava la sua attenzione nello studio dell’espressione di Lisa: non le garbava per nulla.

    «Secondo te?» sbottò Celeste. «Facevo assegnamento su quei fogli e questa signorina mi aveva promesso di portarli. A tutti i costi!».

    «Be’, potevi chiederli anche a noi. Comunque non mi sembra così grave» intervenne Grazia, storcendo le labbra all’ingiù.

    «Certo che non è grave, se poi la prof interrogasse te e non me! Lo sapete che mi sta braccando, no?» ribatté lei, nervosa e seccata. «Poi, non ci capisco un’acca della vostra calligrafia».

    Lisa si strinse nelle spalle, mortificata. Non se ne era ricordata, tutto qui. Veramente si era dimenticata di parecchie cose, quella mattina, non escluso di lavarsi i denti, di cambiarsi la biancheria e di portare la metà dei libri necessari alle lezioni. Evitò di mettere le ragazze al corrente di quei particolari, comunque. Pensò che era appena la prima ora, ne restavano da sopportare ancora altre quattro.

    «Ripeto: tutto okay?» insistette Evelina, fissandone gli occhi umidi ed il viso, che stava assumendo un delizioso color prugna.

    «È ovvio: assolutamente no!» rispose Celeste. Le arrivò la gomitata di Grazia, che pure si era messa a fissare la loro compagna.

    «Non dicevo a te» precisò Vivì, voltandosi poi verso Lisa. «Che cos’è successo, che hai?» soggiunse.

    La giovane scosse la testa con ostinazione. Non aveva la minima intenzione di scoppiare a piangere lì, su quello stupido banco di scuola, durante la lezione di letteratura inglese. Era tutto così assurdo. Così orribile ed assurdo. Non sapeva come spiegarlo alle amiche, non avrebbe nemmeno dovuto spargere la voce in modo incauto. Poteva fidarsi di loro a tal punto? Dio, chissà i pettegolezzi, se si fossero lasciate scappare qualcosa.

    Non era autocommiserazione: quando Lisa presentiva che il fato ce l’avesse con lei, di solito non sbagliava. Sapeva di non essere una masochista paranoica ma soltanto, molto probabilmente, un’ottima percettiva delle proprie future disgrazie, una profetica Cassandra senza speranza alcuna di serenità.

    La professoressa Whiters entrò in aula e calò un brusco silenzio, che non impedì alle tre ragazze di continuare a fissare l’amica, la quale appariva evidentemente sconvolta e faticava a trattenere le lacrime.

    «Porca miseria, Lisa, hai solo dimenticato uno stupido compito! Che ti frega?» sussurrò Grazia, continuando a fissarla coi suoi arroganti occhioni color nocciola.

    «Certo, che le frega? Tanto, se poi mi bocciano…» inveì Celeste, sottovoce ma col tono più acuto e sottile del panico.

    «Se ti bocciano, vuol dire che ti sei persa gli appunti di tutto l’anno e che non hai imparato un accidente. Non pretenderai che studiamo al tuo posto!» sentenziò Evelina, mettendola a tacere in modo definitivo. Era una situazione davvero buffa: fra loro, in genere, l’allieva negligente che si buscava quel tipo di rimproveri era Grazia Comino, la più svogliata delle quattro, oltre che la meno ambiziosa.

    Le lacrime di Lisa, per quanto ingrossate, erano ancora trattenute dall’orlo delle palpebre inferiori ma le congiuntive bruciavano come spilli incandescenti. Forse avrebbe dovuto chiedere il permesso di defilarsi in bagno, però il solo gesto di alzarsi in piedi e di mostrarsi alla classe in quelle condizioni la faceva esitare. Piegò la testa da una parte e cominciò rabbiosamente a cercare un fazzoletto fra le sue cose, nel ripiano inferiore del banco. Vivì, rapida ed efficace come sempre, ne fece saltare fuori un pacchetto dalle tasche e glielo porse.

    Nel momento esatto in cui le sue dita lo

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