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I Cul
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E-book209 pagine2 ore

I Cul

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Info su questo ebook

Una cittadina sporca e piovosa, un perfido e geniale inventore e un gruppo di improbabili
eroi pronto a uscire dalla comfort zone per salvare la città. A guidare l’originale accozzaglia di amici, Lui, un ubriacone frustrato che saprà riscattarsi con il suo ingegno e l’affetto dei suoi compagni.
I Cul racconta in modo ironico e irriverente personaggi lontani dall’ideale di perfezione e bontà a cui siamo abituati, che cercano di sopravvivere, ognuno con i propri sotterfugi e le proprie meschinità, in un mondo troppo aggressivo e spietato che può schiacciare senza pietà personaggi deboli ma dal grande cuore.


Stefania Morreale è nata a Palermo nell’ottobre del 1989. Dopo una formazione classica, ha ottenuto la laurea triennale in Comunicazione Interculturale presso l’Università degli studi di Torino e, nella stessa sede, la laurea magistrale in Antropologia culturale ed Etnologia. È giornalista pubblicista e, da anni, si occupa di comunicazione. Vive in provincia di Palermo, insieme al marito, suo entusiasta sostenitore.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2020
ISBN9788867934591
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    Anteprima del libro

    I Cul - Stefania Morreale

    tutto.

    Capitolo I

    Pioveva ormai da tre giorni e per le sporche viuzze della città grosse pozzanghere, come sudici specchi, riflettevano l’immagine della luna, bellissima nella sua strafottenza. L’aria era pregna di un olezzo rivoltante, stomachevole per chiunque non fosse abituato a vivere lì, in quel luogo dimenticato da Dio, ultimo rifugio di ubriaconi e criminali.

    Nessun suono nella notte, a parte lo scrosciare incessante della pioggia e l’avanzare lento e claudicante di Lui, il più ubriaco e disilluso tra gli inventori. Si reggeva in piedi a stento, aggrappato al suo fedele bastone e protetto dalla scellerata pioggia solo da un logoro cappello a falda larga. Stretta tra i denti la pipa e al collo una sciarpa, un tempo sciccheria non da poco, ma ora ridotta a ridicolo straccio in continua torsione per i refoli di vento.

    – Dovrei smettere di bere così – ripeteva Lui sottovoce, cantilenando quasi come un mantra in grado di rassicurarlo. E in effetti avrebbe dovuto smettere davvero. I pochi soldi che guadagnava riparando di tanto in tanto elettrodomestici e vecchi orologi, li spendeva quasi tutti e quasi subito al bar Vittoria, l’unico bar della città, che di vittorioso aveva solo il nome.

    Era visibilmente denutrito e il suo fegato implorava pietà a ogni sorso del pessimo whisky che amava tracannare. Ma l’alcol era l’unica debolezza che si concedeva in quella vita grama e deprimente. L’alcol e il tabacco. Forse l’alcol, il tabacco e le partite a scacchi con Luigi, proprietario del Vittoria. In fondo se non l’avesse ucciso l’alcol, lo avrebbe fatto il fumo oppure la noia. Poco importava comunque perché, sapeva benissimo, di qualsiasi cosa sarebbe morto, fregava un cazzo proprio a nessuno. E con questa consapevolezza continuava a ripetere il suo mantra ostinatamente, tremando e battendo i denti per il freddo.

    Mancavano pochi metri all’uscio di casa, così decise di affrettare il passo, ma le gambe, dispettosamente in disaccordo, non ressero all’accelerazione e Lui si ritrovò con il culo per terra, su una grossa pozzanghera che, come sudicio specchio, rifletteva la luna, stronzissima nella sua strafottenza.

    Cacciò un urlo disumano, pieno di sofferenza e frustrazione, così angosciante e per questo così commovente che solo un artista avrebbe potuto capirne la grandezza. E infatti Tony, l’autista di autobus che abitava a pochi metri da Lui, non la capì questa grandezza e infastidito si affacciò al balcone gridando: "We coglione, qui c’è gente che lavora e la notte ha bisogno di riposare! Va’ a dà via el cu!".

    "Ciaparàtt!".

    Voltò le spalle e rientrò, maestoso ed elegante nella sua fiera efficienza milanese.

    Lui tentava di riordinare i pensieri, annaspava cercando nella mente confusa dall’alcol parole in grado di zittire e perché no, ferire l’abietto lombardo. Ma niente, ogni tentativo di formulare un pensiero che avesse un qualche senso falliva miseramente, infrangendosi contro l’imponente muro dell’obnubilamento.

    Frustrazione per la frustrazione. Ecco cosa provava, completamente bagnato, con le chiappe per terra e qualche lacrima che gli rigava il viso. Pensò al suo passato costellato di successi. O per lo meno a Lui sembrò di ricordare che fosse così.

    Iniziò a fantasticare su una vita che avrebbe potuto avere, anzi, che sicuramente avrebbe avuto, se non ne fosse stato privato da un personaggio più abietto di Tony il lombardo, più perfido e malvagio di qualsiasi altro autista di autobus incazzato nel cuore della notte. La sua nemesi: Shafigghipù.

    Lui e Shafigghipù erano entrambi inventori. Bravi di certo, questo era innegabile, ma di quella bravura che ti relega sempre allo stesso status: il più talentuoso in una classe di pecoroni. Per fare il salto di qualità, il botto, come lo chiamavano i due, era necessaria l’intuizione geniale, la trovata brillante, insomma quel certo non so che di acuto e ingegnoso che per molti anni delle loro carriere mancò. Lavoravano come ossessi, motivati costantemente dalla voglia di emergere da un mondo che poco a poco sembrava volesse intrappolarli, soffocarli quasi, nella loro tranquilla e piatta quotidianità. Ma i due combattevano instancabilmente come leoni, ruggendo in faccia a chiunque tentasse, con parole che suonavano alle loro orecchie subdole e artefatte, di svegliarli dal quel delirante sogno che era diventata la loro vita.

    E il colpo di genio arrivò, una fredda giornata di inverno di tanto tempo fa. Lui era andato a dormire tardi la sera prima, intento com’era all’epoca nello studio dei suoi progetti. Ebbe difficoltà ad addormentarsi, questo lo ricordava bene anche a distanza di tempo, e dopo aver trascorso un’abbondante mezz’ora sul letto a rigirarsi, decise di spostarsi sull’ampio divano blu posizionato proprio al centro del piccolo soggiorno.

    L’ultima cosa che ricordava di quella notte era di essersi steso sul divano, coperto con i plaid che di solito lasciava in giro per casa, e aver sentito le palpebre pesanti. Il risveglio arrivò brusco, alle prime luci dell’alba. Immobile sul suo divano sbarrò gli occhi, spaventosamente lucidi e vigili nonostante le poche ore di sonno. Passarono un paio di secondi, poi un sorriso festante si stampò sulla sua faccia smagrita: aveva un’idea. Ma che dico un’idea, era molto più di questo.

    Ha bisogno di aiuto? chiese una voce femminile, interrompendo così il flusso dei pensieri di Lui.

    Ha bisogno di aiuto o no? chiese ancora una volta, con tono decisamente più scocciato.

    Lui si voltò verso quella donna e si accorse che era una ragazzetta non più grande di diciassette anni, con uno strano taglio di capelli, diversi piercing alle orecchie e un curioso tatuaggio sull’avambraccio.

    È un uomo incappucciato quello che hai sul braccio? chiese Lui d’improvviso.

    Sì, è un uomo incappucciato e allora? Hai forse qualcosa da ridire? Cosa c’è? Sono troppo strana per te? Voi bigotti, sempre pronti a criticare tutto e tutti, chiusi nei vostri squallidi pregiudizi, prigionieri dei luoghi comuni. Siete solo un branco di scimmie ammaestrate, vuoti involucri di carne che sanno solo produrre e consumare, produrre e consumare, produrre e consumare.

    La ragazza, visibilmente irritata, poggiò le mani ai fianchi, proseguendo: Mi fate pena, davvero! Ma svegliatevi, cazzo. Svegliatevi! Tu che fai tanto lo schizzinoso perbenista, per esempio, lo sai perché in questa maledetta città piove sempre? Eh, lo sai perché?.

    Lui con gli occhi sgranati scrollò la testa lentamente.

    La piccola streghetta logorroica trattenne a stento una risata, poi sbottò con un tono a metà tra il disgusto e la pietà.

    Certo che non lo sai, povero piccolo schiavo del sistema. È la lobby degli ombrellai, sveglia! Lo sanno tutti! La lobby degli ombrellai paga una cifra sproporzionata alla lobby dei piloti di aerei, che a sua volta è profumatamente pagata anche dalla lobby dei fabbricatori di impermeabili che, ovviamente, è in guerra con la lobby dei venditori di ombrelloni e articoli per la spiaggia, ma non, come si potrebbe pensare, con la lobby delle case farmaceutiche perché, come sanno tutti, si guadagna di più a vendere antinfluenzali e sciroppi per la tosse che creme per scottature ed eritemi solari.

    Era uno psichedelico vortice di parole inarrestabile, tenuto insieme da rabbia e solitudine, che avrebbe stordito chiunque, figurarsi Lui, ancora alticcio, bagnato e stanco. L’uomo avrebbe voluto spiegarle che non vedeva nulla di male in quel tatuaggio, che anzi lo reputava curiosamente carino. Avrebbe voluto dirle che il sistema non sapeva neanche della sua esistenza, magari l’avesse trattato da piccolo schiavo. Che gesto gentile sarebbe stato! Invece veniva semplicemente ignorato, escluso, cancellato. Avrebbe voluto avvertirla che non è bene nascondere la tristezza dietro la rabbia, non a quell’età quanto meno, che poi si sarebbe finiti come lui e non era una bella prospettiva. E avrebbe voluto abbracciarla e prometterle che tutto sarebbe andato per il verso giusto, magari non subito, certo, ma prima o poi. Invece, ancora una volta in quella strana serata, rimase immobile, come inebetito, a sorbirsi una dissertazione che non aveva voglia di sentire e che si imponeva prepotentemente davanti a Lui.

    E questa è solo la punta dell’iceberg, mio caro addormentato! concluse lei. Pronunciò le ultime parole lentamente, scandendo bene ogni sillaba. Poi si accese una sigaretta e se ne andò, lasciando Lui ancora per terra.

    Ancora scosso dall’incontro, provò a mettersi in piedi. Ci vollero ben quattro tentativi prima di riuscire in quella che risultò essere un’ardua impresa.

    Dovrei smettere di bere così, dovrei smettere di bere così continuava a ripetere, avanzando verso l’uscio di casa. Era quasi arrivato, così tastò la tasca dei pantaloni in cerca delle chiavi. Erano ancora lì.

    – Meno male! – pensò con un sospiro di sollievo. Le tirò fuori, aprì il grosso portone di legno ed entrò nella stamberga. Chiuse la porta e inspirò profondamente dal naso, poi espirò dalla bocca. Rimase immobile un paio di secondi e accese la luce.

    La casa non era un granché, anzi, a essere sinceri era proprio brutta. Piccola, sporca, con muri ingialliti e scrostati, macchie di muffa sul soffitto e un pavimento scricchiolante. Puzzava di indigenza e tristezza. Per rendersi conto delle degradanti condizioni dell’abitazione, sarebbe bastato riflettere sulla proposta di quel regista esordiente, che si trovava lì di passaggio l’anno prima, di girare in quella casa qualche scena del suo film horror. Ma per Lui quella era la dimora perfetta, l’alloggio sublime, il rifugio sicuro, il suo monolocale, anzi no, il suo loft, che così faceva meno brutto, dei sogni.

    Grato a qualche divinità benevola per essere rincasato sano e salvo proprio quella notte così strana, si diresse verso il divano-letto e vi si buttò come uno straccio vecchio, facendo saltare qualche molla.

    Non ci volle molto perché il sonno ristoratore arrivasse, proiettandolo ancora una volta nel passato, nella sua lontana vita da inventore.

    Quel mondo splendente e accattivante gli offriva possibilità che questo mondo crudele non gli avrebbe mai offerto. Lì Lui era il protagonista, la star, elogiato e invidiato da familiari, amici, colleghi. Non zoppicava più, indossava vestiti costosi, fumava il miglior tabacco per pipa in circolazione e possedeva una sicurezza nell’eloquio e nello sguardo che lo rendeva un vero sex symbol, l’uomo che non deve chiedere mai.

    Le donne, tutte rigorosamente con fisici statuari e strizzati in vestitini di almeno tre taglie più piccole, lo mangiavano con gli occhi e Lui, per non scontentare nessuna, si concedeva generosamente come un sovrano misericordioso, cosa per altro che si addiceva a un uomo di quella levatura intellettuale.

    Amava il modo in cui la gente lo rispettava e financo lo temeva, conscia della sua superiorità e del suo carisma; gli piaceva godere di tutta quella considerazione e stima che, ne era sicuro, di diritto gli spettavano; ma sopra ogni altra cosa adorava l’essere venerato e idolatrato, l’essere ritenuto indispensabile e unico. Era un dio con poteri soprannaturali disposto, nella sua infinita bontà, a tendere una mano verso quegli esserini così fragili e ingenui, che poi costituivano l’umanità, chiedendo in cambio solo amore incondizionato e obbedienza.

    Era l’apoteosi di un delirio e Lui continuava a sognare, riversando nel mondo onirico tutte le frustrazioni della vita reale e trasformandole in vere e proprie manie di grandezza. Ci volle poco così che venisse eletto all’unanimità re del mondo e governasse seduto su uno scranno d’oro e d’argento, posto in una immensa sala piena di specchi luccicanti all’interno del suo enorme castello, costruito con entusiasmo dai suoi sudditi e con terrore dai suoi nemici.

    Era un sovrano saggio e benvoluto dal popolo, che poi costituiva l’umanità, e aveva la netta sensazione che nessuno questa volta avrebbe potuto portargli via i suoi successi. Ma come tutti sanno, i sogni sanno essere dei veri bastardi e quando credi di avere il controllo su uno di loro, ecco che sconvolgono tutto il tuo mondo e trasformano il più dolce dei sogni nel peggiore degli incubi.

    Il castello di carte cominciò a crollare quando gli specchi della sala del trono iniziarono a diventare improvvisamente opachi, il castello sprofondò in uno strano silenzio e lo scranno si trasformò in un orinale. Il senso di invulnerabilità era di colpo passato, lasciando posto a una ben più nota sensazione di angoscia.

    Lui sedeva sull’orinale, con le braghe calate e le mani sudaticce, immerso nella stanza ormai fredda e buia.

    Cosa sta succedendo? Cosa sta succedendo? gridò forte il sovrano, sforzandosi di mantenere quell’aria di autorevole sicurezza che sentiva così sua fino a qualche minuto prima. Nessuno rispose e le sue parole riecheggiarono nel vuoto.

    Poi d’un tratto un occhio di bue illuminò il centro della sala e It’s raining men di Geri Halliwell cominciò a suonare al massimo del volume. Lui rimase immobile, confuso e stupito, fino a quando non vide scendere giù dal tetto, proprio nella zona illuminata, un uomo di spalle.

    Quel tipo misterioso cantava e ballava discretamente e in quel momento Lui pensò si trattasse di una sorpresa che i suoi sudditi più affezionati gli avevano preparato per divertirlo e distrarlo almeno per pochi minuti dal peso del regnare.

    – Avrebbero potuto fare una selezione migliore! Se fossi membro della giuria di un qualche talent show, non gli darei più di sei – pensò con aria di sufficienza, mentre batteva il piede a tempo di musica.

    La canzone proseguiva e così anche lo spettacolo dello strano uomo di spalle, che continuava a dimenarsi e a gorgheggiare che manco Shakira. Fu solo pochi attimi prima che terminasse la musica che si voltò repentinamente, con un salto roteante, e si piazzò a pochi centimetri dalla faccia di Lui. Un urlo di orrore e sgomento riempì la sala.

    Non è possibile! Perché sei qui, nel mio castello, a prenderti gioco di me? Sparisci dalla mia vista, Shafigghipù! gridò con la bava alla bocca e gli occhi sgranati Lui, mentre Shafigghipù ostentava il suo sorriso più crudele, il suo sguardo più malevolo.

    Assomigliava maledettamente alla perfida zia Consuelo di quella telenovela che passavano di tanto in tanto alla TV del Vittoria.

    Caro il mio Lui, amico di una vita cominciò a parlare l’ignobile

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