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All'ombra della Grande Quercia
All'ombra della Grande Quercia
All'ombra della Grande Quercia
E-book177 pagine2 ore

All'ombra della Grande Quercia

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Info su questo ebook

“Era come se dio avesse fatto un pizzicotto al mondo, sollevando un lembo della sua cruda carne in quella sterminata e nauseante pianura. Era una miracolosa singolarità della natura in quell’immenso vuoto cosmico. La piccola altura era ricoperta da un rigoglioso e variopinto bosco, per niente omogeneo nelle forme e nei colori. Su di essa svettava, imperiosa, una quercia secolare che sembrava protendersi verso il cielo come una mano che chiedeva aiuto al divino.”
Ai piedi del maestoso albero, s’intrecciano le vite di alcune persone che sono state sconvolte da un incidente stradale in uno sperduto paesello della Lomellina. Ben presto scoprono di avere in comune più di quello che credono.
Beatrice si troverà a voler scoprire la verità dietro i sorrisi che la circondano. Saverio si scontrerà con le conseguenze delle proprie scelte passate. Mentre Guido affronterà a viso aperto l’abisso e l’oscurità in cui ristagna la sua vita. Per ognuno di loro, l’incidente sarà solo l’inizio di un qualcosa che cambierà per sempre le loro vite.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2023
ISBN9798449266620
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    Anteprima del libro

    All'ombra della Grande Quercia - Christian Malvicini

    Una menzione speciale va a King,

    che permette a ciò che scrivo

    di essere compreso meglio.

    Questo libro l’ho scritto solo per me stesso e per esorcizzare le cose brutte della vita, quelle che poi, alla fine, portano anche alle cose belle.

    Ma, anche se l’ho scritto solo per me, questo libro lo dedico solo a te, che sei grande.

    A te, Principessa dello Castello.

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    All’ombra della

    Grande Quercia

    Christian Malvicini

    1

    Prologo

    Ho sempre pensato che il mondo fosse mosso dall’osmosi, che le persone, i gruppi, le società si muovessero per un’influenza reciproca di uno sull’altro. Credevo che le idee volassero nell’etere per raggruppare tra di loro le persone, come fossero polline. Guardando tra le righe, poi, ho notato come non fossero le idee ad unire le persone ma le persone stesse. Ho capito che, nell’attraversarsi le vite a vicenda, ogni persona cede qualcosa di sé agli altri, positivo o negativo che sia. In questo modo, nel bene come nel male, si creano profondi e indissolubili legami. Questo è ciò che li unisce.

    La nebbia era ovunque.

    La osservava attraverso il vetro freddo della finestra, appoggiato al muro sul quale spingeva la tenda arrotolata intorno alla mano. Sospirò silenzioso, senza distogliere lo sguardo da quel mistico muro bianco illuminato da una timida luce calda che dava sulla strada. La luce sembrava ritrarsi, quasi spegnersi, al cospetto dell’imponente manto d’umidità. Al secondo sospiro, sollevò la sigaretta e fece un lungo fiato.

    Il fumo denso che espirarono i polmoni era della stessa consistenza della nebbia che stava osservando fuori. Puzzava e gli infastidiva gli occhi, ma svaniva in pochi istanti. La nebbia, invece, sarebbe rimasta per tutta la notte. E, forse, anche per tutto il giorno a venire.

    Quel pericoloso nemico era spesso la risposta ai quesiti che si poneva. La risposta a tutto l’odio che provava dentro. La nebbia era la raffigurazione, l’emblema, il simbolo del suo odio verso l’umanità. Perché da quelle parti, tutto era ricoperto dalla nebbia. E quella opprimeva tutto, raffreddava tutto, oscurava tutto. Essa non celava solo la noiosa pianura, che sapeva di quel penetrante odore di terra e muffa, ma scavava fin nelle ossa delle persone, in profondità, come le nodose radici di un albero. La nebbia mutava l’ambiente ma ne condizionava anche le persone, le rendeva fredde, asettiche, inutili.

    E lui odiava quel mondo. Se avesse avuto il potere di distruggerlo con il semplice schiocco delle dita, lo avrebbe sicuramente utilizzato.

    L’ansia, il nervosismo e il respiro corto non lo lasciavano quasi mai. Era una costante lotta nel cercare di reprimere dalla mente quella brutta sensazione di oscurità. Un tentativo vano. E la nicotina faceva il resto.

    La saliva gli puzzava di fumo bruciato e malsano, amaro e leggermente acido. L’esalazione oscura della sigaretta gli riempiva la bocca e poi i polmoni. Il piacevole grattare in gola ne era l’unica soddisfazione, breve e per nulla intensa. E così, finita la prima passava subito alla seconda. Ogni tanto si soffermava a pensare a cosa ci fosse di utile in quella cosa che lo avrebbe fatto marcire prima del previsto, otturandogli i polmoni di catrame e catarro, e la sua risposta era sempre la stessa: era la sua unica soddisfazione in quella vita di merda che si ritrovava a vivere tutti i giorni.

    La sigaretta era la sua unica via di fuga, la sua pausa dal marciume che lo circondava. Era il suo personalissimo modo di suicidarsi lentamente pur di lasciarsi alle spalle la sua inutile esistenza. Non aveva mai avuto il coraggio di compiere un gesto estremo, era sempre stato troppo impaurito dalla morte. Credeva che potesse essere l’unica soluzione per liberarsi dall’inferno di vita che si era ritrovato a vivere, eppure non l’aveva mai bramata realmente. Ci aveva sperato in un paio di eventi casuali che lo avevano colpito, ma mai se la sarebbe procurata volontariamente. Odiava la propria vita ma non così tanto da arrivare a tal punto. Pensava di non meritarsela, non che non valesse la pena di vivere. Così aveva deciso di passare al suicidio b, nicotina e catrame. In quel modo, si sarebbe ucciso un po’ alla volta, giorno per giorno. L’alcol e la vita sregolata forse avrebbero fatto il resto.

    Fino a quel giorno, però, non c’erano ancora riusciti.

    E così, restava a fissare l’odiata nebbia, immerso nel fumo, cercando di pensare al vuoto più assoluto. Lui bramava quel maledetto foglio bianco che molti stronzi avevano nella testa dalla mattina alla sera, senza nemmeno rendersi conto di vivere una vita vuota in un mondo di infinite possibilità. Gente che aveva il pane ma non aveva i denti per mangiarlo. Lui, invece, aveva i denti ma non aveva mai avuto il pane di cui cibarsi.

    Quel vuoto bianco e assoluto che anelava assomigliava proprio alla nebbia che stava osservando dalla finestra. Scrollò la testa, spegnendo l’ennesima sigaretta.

    Si voltò ad osservare il letto caldo e umido dal quale si era appena alzato, senza coprire le proprie nudità.

    La donna sdraiata a letto mosse le lenzuola, riprendendosi dal sonno. Sbadigliò, poi prese una sigaretta dal pacchetto che aveva sul comodino e l’accese. Continuò a fissare l’uomo alla finestra, che la guardava con occhi spenti e persi.

    «A che pensi?» domandò lei, passandosi la mano tra i lunghi capelli ricci. Le sottili rughe sul viso non nascondevano l’età di lei, che alla soglia dei cinquanta, aveva gli occhi e la pelle consumati dalla vita.

    «A niente» rispose lui, secco. Prese il pacchetto di sigarette sul davanzale e ne accese un’altra. «O almeno, cerco di farlo…»

    Lei si sistemò le coperte intorno alle gambe, posò la cenere della sigaretta nel posacenere sul comodino e si sistemò ancora i capelli. «Vuoi farlo un’altra volta? Così non penserai più a niente per un po’…»

    Lui inspirò dalla sigaretta, socchiudendo gli occhi per proteggerli inconsciamente dal fumo, e restò a guardarla senza risponderle. All’improvviso, si domandò come avesse fatto a ritrovarsi a letto con quella donna con venti anni in più di lui. Se lo domandava tutte le volte che la faceva entrare nel suo letto, incerto se scoparsela o meno. Poi, quando apriva le gambe ogni pensiero andava a farsi benedire per lasciar posto alla nuda e cruda umanità. Per dirla tutta, non gli piaceva nemmeno come persona. Era una di quelle pettegole che sapevano tutto di tutti e sentivano il bisogno irrefrenabile di raccontarlo a chiunque. Non era in grado di stare zitta nemmeno quando non c’era assolutamente nulla da dire. Quegli aspetti del suo carattere lo facevano incazzare ma le piaceva il suo sedere, e come scopava, quindi se la faceva andare bene. A lui non interessava il carattere di una donna, l’unica cosa che contava era che ci fosse intesa sessuale. Il resto era per gli illusi. Forse, un tempo, anche lui lo era stato, ma ora non lo era più. Da tempo, ormai, aveva smesso di farsi illusioni. Le donne come quelle erano tutto ciò che poteva permettersi, e a lui bastava. Non cercava altro.

    «Allora?» l’incalzò lei, spegnendo la sigaretta. «Lo facciamo un’altra volta?»

    Lui prese il bicchiere sul davanzale e diede un sorso alcolico, vuotandolo. Posò il bicchiere vuoto e vi spense la sigaretta. La testa riprese a muoversi leggera, come preferiva che fosse.

    «Vieni qui a convincermi…» le rispose, facendole segno di avvicinarsi.

    Lei si lasciò scivolare giù dal letto e gattonò fino a lui, accarezzandogli le gambe. Salì fino all’inguine.

    «Avanti, non ti fermare…»

    Vomitò nel vicolo. La sua testa era su un altro pianeta, leggera e spensierata. Eppure, non era abbastanza leggera per giungere fino a quella tanto agognata pagina bianca che la sua mente non riusciva a trovare completamente. Anche in quello stato, distratta completamente dall’alcol, la sua mente era in grado di recuperare alcuni sprazzi di lucidità, nella quale la sua vita tornava a tormentarlo.

    Cercò di accendersi una sigaretta ma finì con il perderla tra le dita. Bestemmiò lanciando via l’accendino, che rimbalzò lontano. Scivolò a terra, finendo sull’asfalto umido. Bestemmiò nuovamente.

    Si mosse a tentoni, cercando di rimettersi in piedi o almeno di ritrovare la lucidità per riuscirci. Allungò la mano per riprendersi l’accendino e finì per rovistare vicino al sacco che lui stesso aveva portato fino a quell’angolo di strada. L’aveva rotto, perché era stato troppo ubriaco per maneggiarlo con cura.

    Appena sentì il metallo freddo dell’accendino tra le mani, l’afferrò e se lo mise nella tasca del giubbotto. S’appoggiò al muro per riprendere l’orientamento. Una volta focalizzata la strada per casa, s’avviò tra la nebbia. Vomitò ancora una volta, domandandosi perché stava piangendo mentre la gola gli doleva e bruciava. Perché piangeva? Per il dolore? Perché era ubriaco? Perché era solo? Perché viveva una vita di merda? In quel momento, ubriaco com’era non conosceva la risposta a quella domanda.

    Raggiunse la destinazione e s’infilò nel cortile, lasciandosi alle spalle il cancelletto aperto. Si voltò per osservarlo e domandarsi se tornare indietro per chiuderlo. In fondo, con quella nebbia, nessuno avrebbe visto che era aperto. Come nessuno si era accorto che aveva rovesciato un sacco d’immondizia per strada o che aveva vomitato diverse volte lungo il tragitto da lì fino a casa. Nessuno se ne sarebbe accorto, nascosto com’era in quella nebbia che lo circondava. Era solo. Era perduto.

    Riuscì a malapena a chiudere l’uscio di casa. Si recò in cucina, sostenendosi al tavolo. Prese una birra dal frigorifero e ne bevve un lungo sorso. Era ubriaco marcio ma la sua mente non era ancora abbastanza sgombra. Appoggiò la bottiglia sul lavandino, rischiando di farla cadere. La salvò appena in tempo, finendo per rovesciare il contenitore delle posate pulite. Fu uno sferragliare unico, che gli esplose nelle orecchie amplificato dall’alcol.

    «Che merda!» si lamentò, colpendo il lavandino con un pugno. Fece saltare via un po’ di posate, finendo per ferirsi alla mano destra. Bestemmiò ancora una volta, cercando di lavarsi via il sangue sotto l’acqua corrente del rubinetto.

    «Coltelli di merda!» gridò afferrandone uno come se dovesse difendersi da un malintenzionato. Si fermò a fissare l’immagine riflessa di sé nel lucido metallo del lavandino. Una risata ironica gli singhiozzò fuori dalla bocca.

    «Coltello di merda…»

    Si appoggiò al lavandino, abbassando il coltello. Lo strinse con la mano ferita, sentendo il dolore aumentare vertiginosamente. Il sangue colava copioso ormai sul pavimento. Sollevò la mano per guardare il sangue caldo che sentiva sgorgargli fuori. Sentiva le lacrime cadere dagli occhi come pesanti macigni di sale che si sgretolavano. Portò il coltello vicino all’altro polso.

    Lo appoggiò sulla pelle.

    Il freddo metallo gli fece gelare la spina dorsale. La sua mente ormai era vuota, spenta. Forse nemmeno respirava più. Fu il calore del sangue a riportarlo indietro. La mente tornò a riempirsi delle sue preoccupazioni, delle sue disperazioni e della sua merda di vita. Lasciò cadere il coltello e tornò a sciacquarsi la mano ferita.

    Si coprì con uno straccio e si lasciò cadere sul divano, asciugandosi le lacrime che non avevano ancora smesso di scendergli dagli occhi.

    Quanto poteva divenire misero e disperato un essere umano?

    Quanta disperazione poteva tenersi dentro?

    Non fece in tempo a pensare ad altro, si spense nel vuoto profondo del sonno.

    Quando si riprese, si rese conto di essere sdraiato a terra ai piedi del divano. Gli dolevano il collo e una spalla e la mano bruciava come poche volte gli era capitato nella vita.

    S’affrettò a bere un sorso d’acqua perché aveva la gola secca. Poi tornò a sedersi sul divano, stanco e affannato. Prese una sigaretta. Prese l’accendino. Non riuscì ad accendersi la sigaretta. Provò ad agitarlo per accertarsi che non si fosse svuotato del liquido infiammabile e solo allora si accorse che quello non era un accendino. Dalla tasca aveva tirato fuori un oggetto metallico molto più grande di un accendino. E, soprattutto, molto più pesante.

    Come caspita aveva fatto a scambiarla per un accendino? Era il corpo di una piccola e vecchia macchina fotografica a rullino, di quelle in lega metallica a cui si potevano cambiare gli obiettivi. Da dove era uscita? Dalla sua tasca?

    «Ma che cazzo è sta roba?» domandò, afferrandola.

    Probabilmente l’aveva raccolta dalla spazzatura al posto dell’accendino che gli doveva essere caduto a terra.

    «Vaffanculo!» gridò, scagliando via la piccola macchina fotografica.

    Era come se Dio avesse fatto un pizzicotto al mondo, sollevando un lembo della sua cruda carne in quella sterminata e nauseante pianura. Era una miracolosa singolarità della natura in quell’immenso vuoto cosmico. La piccola altura era ricoperta da un rigoglioso e variopinto bosco, per niente omogeneo nelle forme e nei colori. Su di essa svettava, imperiosa, una quercia secolare che sembrava protendersi verso il cielo come una mano che chiedeva aiuto al divino.

    Il burbero e rugoso busto impressionava alla vista per la sua grandezza. Le sue radici nodose e attorcigliate creavano strani disegni astratti nel terreno. La folta

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