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La fine di Luisa
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La fine di Luisa
E-book748 pagine9 ore

La fine di Luisa

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Info su questo ebook

Luisa è una donna del novecento che, da bambina benestante, vede il tracollo finanziario della sua famiglia d’origine.
Madre di cinque figli maschi, sopravvive per miracolo ai bombardamenti di Mestre e partecipa agli anni della ricostruzione post bellica fondando una ditta propria e difendendo con le unghie e con i denti il simbolo del suo riscatto sociale, per se stessa e per i suoi figli.
Un amore materno che, tuttavia, sfocerà spesso in controllo e ossessivo desiderio di possesso, un sentimento al quale solo uno dei figli cercherà di sottrarsi... pagando purtroppo molto caro il suo tentativo di emancipazione.
In un’atmosfera familiare rancorosa, nutrita di sospetti e reciproche accuse, si consumano tradimenti impensabili e vere e proprie congiure, che colpiranno alla fine anche la stessa Luisa, che da grande manovratrice si trasformerà in vittima sacrificata dai figli.
Una storia tragica e incredibile, una riflessione sofferta sui grandi temi della vita, primi fra tutti l’importanza della famiglia, il nuovo ruolo della donna nella società, la necessità di un forte recupero dei valori etici e religiosi, i danni di una medicina che sembra avere perso il senso della propria missione.

Giorgio Chiodi nasce a Mestre nel 1940 in una famiglia di operai.
Consegue un diploma tecnico e dopo una lunga parentesi come artigiano, intraprende la strada del commercio, divenendo imprenditore nel settore automobilistico. Dopo trent’anni di lusinghieri successi lascia questa professione per entrare nel mondo pubblicitario, nel quale ottiene ottimi risultati.
Una grave patologia diabetica interromperà la sua parabola lavorativa a causa di una retinopatia trattata con il laser che lo renderà ipovedente.
Con “La fine di Luisa”, inizia la sua attività di scrittore che lo vedrà appassionato testimone di metodiche naturopatiche riportate anche nei suoi saggi.
Con Phasar ha pubblicato il saggio "Vincere il diabete... si può", nel quale propone il suo metodo, tutto basato su terapie naturali, che gli ha permesso di combattere e vincere le complicanze della malattia.
 
LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2016
ISBN9788863584134
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    Anteprima del libro

    La fine di Luisa - Giorgio Chiodi

    CAPITOLO I

    Luisa e la febbre spagnola

    Luisa nacque in Friuli, terra di gente dal carattere forte dovuto alla fatica quotidiana cui è assuefatta da secoli.

    La mescolanza con l’elemento tedesco e la posizione geografica che poneva questa regione contesa tra il regno d’Italia, lo stato austroungarico e la Slovenia-Croazia, la videro al centro delle vicissitudini della Prima Guerra Mondiale – che potremmo definire l’ultima guerra d’indipendenza –, al termine della quale divenne italiana con capoluogo a Udine.

    I miei nonni, Santino e Angelica, possedevano una casa colonica in un vasto appezzamento di terreno coltivato a foraggio, con lunghe file di alberi da frutta e con una grande stalla dove si allevavano centinaia di animali di tutte le razze che davano un ottimo reddito, tanto che la famiglia viveva una sobria ricchezza.

    Lavoravano nella fattoria di nonno Santino alcune famiglie di contadini che formavano una piccola comunità, benvoluta e rispettata per la serietà laboriosa con cui conduceva la propria esistenza, secondo i ritmi della natura.

    I nonni erano molto religiosi e tutta la famiglia si levava al sorgere del sole e iniziava la giornata con le preghiere mattutine, mentre alla domenica assistevano alla messa insieme ai contadini e alle loro famiglie. La fattoria era, dunque, un’oasi felice dove la vita scorreva al ritmo delle ricorrenze religiose e delle stagioni.

    Il nonno ebbe cinque figli, tre dalla prima moglie, che morì di parto, e due dal secondo matrimonio con nonna Angelica. Aprì la serie, nel 1894, il figlio Primo, così come s’usava allora chiamare il primo nato.

    Poi venne Secondo nel 1896, seguito da Valeriano nel 1898 e la prima moglie ne morirà dandolo alla luce. Nel 1908 il nonno si risposò con Angelica, una donna inflessibile e timorata di Dio, di cui c’era bisogno in una grande casa con quattro uomini da accudire. Tino nacque nel 1909 e Luisa, che diverrà mia madre, nel 1913.

    Due anni dopo scoppiò la Prima Guerra Mondiale, che portò distruzione e morte in quelle contrade assuefatte alle dominazioni, dunque abbastanza incuranti di ciò che accadeva e che continuarono a badare al proprio lavoro rimanendo molto fredde riguardo le sorti di quella che non giudicavano una guerra di liberazione italiana, perché in pochi pativano per l’appartenenza al dominio asburgico.

    Nel 1916 la Carnia fu invasa dalle truppe austro-ungariche che vollero così punire l’arroganza degli italiani che, con le tre guerre d’indipendenza, avrebbero riportato anche il Veneto all’Italia unita.

    Gli eserciti in lotta difesero con i denti quelle terre che entrambi consideravano proprie. Fu una guerra di posizione sulle Alpi venete e, per alcuni mesi, gli schieramenti seguitarono a contendersi pochi metri di terreno e qualche cima montana, con il sacrificio di migliaia di uomini in entrambi gli schieramenti.

    Le disgrazie, tuttavia, non vengono mai sole e con la guerra giunse anche la febbre chiamata Spagnola, un’epidemia gravissima che causò oltre trenta milioni di morti in tutta Europa.

    I tedeschi, dopo alcune battaglie sull’Isonzo, decisero per un poderoso attacco di sfondamento fino al Piave, il fiume che sarà consacrato alla patria per tutto il sangue che bagnò le sue rive.

    La pronta risposta del nostro esercito, che usò ogni mezzo per portare uomini e munizioni in quel territorio, ricacciò i nemici nei loro attuali confini.

    Con la guerra arrivò anche la carestia, spesso legata ai conflitti e alle carneficine cui seguono fame, sporcizia e malattie.

    Nel 1917 Luisa, a quattro anni, si ammalò di quella temibile influenza, rimanendo alcune settimane tra la vita e la morte. Quell’anno fu terribile per milioni di persone. Non esistevano cure al di fuori del chinino, peraltro poco efficace e soprattutto introvabile.

    I nonni si adoperarono con la preghiera, l’unica arma che conoscevano, e furono esauditi.

    Un ufficiale che comandava un reggimento di soldati bosniaci, entrò in casa di nonno Santino con altri ufficiali, con l’ordine di requisire casa e vettovaglie per i propri uomini. Appena fu sulla soglia, si avvide subito della piccola malata e la guardò lungamente, poi, dopo essersi presentato in uno stentato italiano, si informò sulle sue evidenti e molto gravi condizioni.

    Avvicinandosi alla piccola e prendendole il polso, chiese da quanto tempo fosse in quello stato e, avuta la risposta dal nonno, diede alcuni ordini in tedesco, disponendo l’intervento del medico militare il quale, constatata la gravità delle condizioni, sconsigliò il trasporto in ospedale della piccola.

    L’ufficiale, congedando gli altri militari, chiese poi al medico che la bimba avesse tutte le cure possibili, quindi, afferrata una seggiola, si sedette accanto a lei, prendendole la mano tra le sue e, tranquillizzando i nonni che assistevano a quella scena ammutoliti e increduli, disse loro di stare tranquilli perché la casa non sarebbe stata requisita.

    Soggiunse che era cattolico e che al suo paese aveva una bambina che assomigliava come una goccia d’acqua alla piccola Luisa. Poi, tolta da una tasca la foto di una bambina, la mostrò alla nonna che trasalì e, passandola al nonno, farfugliò: «È uguale a Gigiute…» Così era chiamata Luisa in famiglia.

    Riposta la foto della sua bimba, l’ufficiale si alzò chiedendo di poter far visita alla piccola qualche altra volta e, salutando in perfetto stile prussiano, uscì dalla stanza con un battito di tacchi.

    Il nonno acconsentì pieno di speranza alla richiesta dell’ufficiale e non passò giorno, da allora, senza che il graduato facesse visita ai nonni per seguire il decorso della malattia di colei che vedeva come la sua bambina. La colmava di attenzioni, recandole dolciumi e medicinali e tutto il ben di Dio che mancava in zona di guerra.

    Poi un giorno dovette lasciare la terra friulana, trasferito presso un altro fronte e di lui non si seppe più nulla perché scomparve in quel tragico 1918 durante la ritirata delle truppe tedesche dal suolo italiano.

    Nessuno della famiglia poté dimenticare Franz, l’ufficiale gentiluomo che innanzi a una bimba malata si era trasformato da duro soldato in angelo salvatore.

    Quando, molti anni dopo, mia madre mi raccontò questo fatto, vidi comparire sul suo viso una lacrima, subito repressa, al ricordo del gesto amorevole di quell’ufficiale.

    Io mi sono sempre chiesto come la pazzia umana riuscisse a contrapporre giovani italiani ad altri giovani ugualmente buoni, desiderosi di rivedere la propria famiglia e di vivere in pace con essa.

    Tuttavia, cervellotici ordini superiori, ispirati da biechi interessi di potere o di conquista, costrinsero questi giovani all’obbedienza e al sacrificio, finendo per farli trasformare loro malgrado in assassini dei loro simili.

    Per lunghi anni non riuscii a rispondere alle domande che mi ponevo sull’argomento e da allora ne sono dovuti passare parecchi prima di capire cosa muove l’egoismo e la bestialità dell’uomo.

    La famiglia di Luisa

    Primo, il fratello maggiore di mia madre, era stato simpatizzante delle idee anarcoidi che avevano preceduto e assecondato il fascismo. Col passare degli anni, divenne vero e proprio sostenitore, quando Mussolini, da socialista direttore dell’«Avanti», divenne interventista, ancora prima della marcia su Roma.

    La vita della fattoria non lo aveva mai entusiasmato e, appena poté, si recò a Treviso per terminare gli studi.

    Lì troverà un lavoro sicuro presso il locale comune, occupando posti sempre più importanti, complice la sua militanza politica. Frequentava dei compagni piuttosto politicizzati che avevano costituito un circolo che raccoglieva gli scontenti della zona contro la politica del governo di giolittiana memoria.

    Dopo la guerra, crebbe nel culto dell’italianità tradita e mal digerì la presa del potere in Russia da parte dei comunisti, i quali si davano da fare per far lo stesso in Italia, con l’occupazione delle fabbriche e i moti di piazza che spaventavano la borghesia dell’epoca.

    Era normale per un giovane di buona famiglia contrastare l’avanzata della sinistra in Italia e a questo scopo cominciò a frequentare i circoli volti a ostacolare questa idea, neppur tanto peregrina. La sua passione politica lo porterà negli anni a venire, a entrare nel partito fascista di cui divenne ben presto un personaggio di spicco. Ancora giovanissimo, venne nominato segretario alle dirette dipendenze del podestà.

    Primo, come molti italiani, avrebbe trovato nel fascismo l’ambito ideale per il suo sogno giovanile di una società militarizzata e anticomunista dove l’ordine regnasse sovrano anche a detrimento di una più equa giustizia sociale. Furoreggiavano in tutto il mondo le idee socialiste che promettevano un domani più fulgido, con il sacrificio di intere generazioni.

    Sapete bene come è andata, perché le generazioni sarebbero state sacrificate per settant’anni, senza mai vedere spuntare il sole dell’avvenire!

    Mussolini, che da socialista divenne poi capo del fascismo, dimostrò come le idee possono variare nello spazio di una notte se il tornaconto spinge in altra direzione. Anche la dittatura del proletariato finì male, dimostrando che dell’enorme massa di lavoratori proletari non si interessa nessuno se non il cavaliere di turno, per cavalcarne il favore e partecipare alla torta del potere.

    Lo zio Primo era mosso dai sentimenti più nobili di italianità e di amore per la patria che sentiva minacciata dall’avanzata in tutta Europa del cosiddetto pericolo rosso, reso manifesto dalle lotte operaie che da un decennio volevano portare la rivoluzione e prendere il potere.

    In tale contesto, riuscì a conoscere le persone giuste che avevano fatto grandi affari personali nell’area della politica e, con un po’ di fortuna e una buona dose di spregiudicatezza, volle dimostrare ai familiari e a se stesso le sue capacità.

    Altro che spezzarsi la schiena sui campi!

    Ben presto capitò l’affare che gli amici bene informati gli porsero come unico e imperdibile. Nella zona c’era un albergo che il vecchio proprietario – oramai defunto – aveva lasciato in eredità ai suoi figli. A causa di pesanti disaccordi familiari, questi non riuscivano a curarne con profitto la gestione e avevano così deciso, dopo anni di abbandono, di vendere l’immobile che poteva divenire una greppia sostanziosa, se condotto in maniera opportuna.

    Primo si consigliò con gli amici, poi con una banca che lo incoraggiò al salto di qualità. Sembrava una cosa da nulla, per lui che conosceva tante persone; così si buttò nell’affare con tutta la sua irruenza e divenne albergatore.

    Ristrutturò i locali rifacendo stucchi e decorazioni, rinnovando tendaggi e illuminazione con prodotti e materiali rigorosamente di prima qualità: vetri di Murano, tessuti pregiati, camere addobbate con ricchezza e quant’altro fosse necessario per riaprire alla grande un hotel di cui parlassero tutti. Tendenzialmente megalomane, lo zio Primo non avrebbe mai accettato la mediocrità.

    Spese più del lecito e la banca, grazie al suo nome e alla sua posizione, non lesinò il finanziamento, spingendolo a indebitarsi con fiducia. Era certo che si sarebbe rifatto della spesa e che avrebbe tratto da questo affare sostanziosi utili. Dunque, con coraggio e ottimismo, si improvvisò imprenditore. Lo facevano in tanti… sosteneva in seguito per darsi coraggio.

    Trascorso il periodo della preparazione dei locali, aprì l’albergo e rimase in attesa dei frutti, che però stranamente tardavano; così, dopo qualche anno di spese continue e di redditi molto negativi, dovette ammettere che la cosa era più difficile di quanto potesse sembrare in un primo momento.

    I problemi da risolvere erano più grandi delle sue capacità e le spese sostenute superiori alle entrate. Ben presto il debito con la banca che lo aveva finanziato arrivò a livelli intollerabili.

    Figlio di un ricco proprietario terriero e pur sempre un esponente del partito, non aveva avuto problemi a ottenere il grosso finanziamento. Ora però non sapeva più come raddrizzare la barca e la banca, dopo una paziente attesa, chiese il rimborso delle rate scadute e il rientro del prestito.

    Dopo non pochi tentativi presso gli amici che lo avevano incoraggiato al grande passo, capì che quello dell’albergatore non era il suo mestiere. Cercò dì salvare il salvabile mettendo tutto in vendita, ma la situazione disastrata andava ben oltre il vociferare; era oramai di dominio pubblico e nessuno si fece avanti per rilevare l’albergo, se non offrendo cifre irrisorie.

    Poiché la differenza tra la massa attiva e quella passiva era incolmabile, decise di chiudere, ma si accorse purtroppo che era tardi anche per quella soluzione. Restava solo l’ultima possibilità: dichiarare fallimento! Un giorno, dopo aver rimuginato la situazione nel suo ufficio fino a sera, prese la decisione per lui più terribile: avrebbe gettato la spugna.

    Avendo passato in rassegna i nomi di coloro che gli potevano dare una mano, capì infatti che nessuno lo avrebbe aiutato. Era rimasto solo con i suoi errori ed era l’unico, con sua moglie e i suoi figli, a dover pagare le conseguenze della sua incapacità e del suo azzardo. Quella sera non tornò a casa e disperato si recò dai genitori presso cui era sempre disponibile la camera che aveva occupato da giovanissimo con suo fratello.

    Si trattenne a cena, facendo finta di nulla e si coricò tardi, come volesse allontanare l’ultima decisione della sua vita. In realtà, i genitori avevano notato nel figlio una strana agitazione, ma per quel riserbo che hanno le persone di poche parole, non chiesero nulla.

    Primo salì in camera trascorrendo la notte insonne e rivedendo la sua avventura come in un film da incubo. Ripensò al posto sicuro in comune, lasciato per intraprendere quell’impresa e maledì quegli amici che lo avevano rassicurato sulla validità dell’affare. Pensò di essere stato tradito dalle banche che gli avevano offerto l’ombrello quando era tempo bello, e ora che pioveva, lo rivolevano indietro con gli interessi.

    Poi il pensiero andò a sua moglie che non lo aveva certo aiutato, con la sua mania per l’eleganza, ma alla quale non imputava alcuna colpa. Lei era sempre stata una brava moglie, ma poco attenta alle spese e in questo modo aveva contribuito pesantemente a peggiorare la difficile situazione.

    Al mattino stava ancora peggio della sera precedente. Accusava un atroce mal di testa e il vomito lo fece andare in bagno più volte. Sua madre aveva oramai capito che il figlio stava vivendo un dramma. Da tempo arguiva che egli avesse delle difficoltà economiche, ma preferì non affrontare il problema e soffrire in silenzio.

    Lui non si era mai aperto con i familiari, nella speranza che quel momentaccio passasse presto. Ora però era tardi per tutto, anche per le recriminazioni.

    La madre, per tutta la notte, aveva udito dei rumori provenire dal piano di sopra e, al mattino, volle vedere come stava il figlio. Salì le scale e, quando entrò, lo vide seduto sul letto, a capo chino, con la pistola in mano, come in trance. L’urlo della donna alla vista dell’arma, svegliò la famiglia e tutti corsero al primo piano, seminudi, come si trovavano.

    Il nonno, sopraggiunto e afferrata immediatamente la situazione, fece uscire tutti dalla stanza, moglie compresa, e rimase solo con il figlio seduto sul letto, inebetito, che teneva l’arma tra le mani.

    Cosa si dissero non lo seppe mai nessuno, ma certamente il nonno dovette prendere immediatamente una grave decisione che avrebbe pesato sui destini della famiglia come un macigno, per i decenni a venire. Quando scesero nel tinello, i visi dei due uomini erano cadaverici.

    La nonna Angelica piangeva in silenzio; i fratelli, subodorando qualcosa di grave, erano senza parole, come inebetiti, e non ebbero coraggio di chiedere nulla perché ai giovani in quel tempo non era concesso di interloquire in simili gravi frangenti.

    Vendita della fattoria

    Nei primi anni del secolo scorso, mandare in fallimento un albergo non era cosa da poco. Anche ai giorni nostri non è una passeggiata, ma allora il disonore coinvolgeva le sorti di tutta la famiglia, pregiudicando l’onorabilità e la credibilità dei suoi membri.

    Il disonore era tale che i suoi membri non avrebbero mai più riacquistato il rispetto nella società.

    Il nonno sapeva che Primo, se fosse fallito, si sarebbe suicidato e maturò un’idea che oggi parrebbe pazzesca, ma che allora non aveva alternative. Decise di vendere la fattoria e di pagare i debiti del figlio.

    Era una decisione terribile perché avrebbe messo sul lastrico tutta la famiglia, ma non vedeva alternative: o coprire i debiti del figlio e morire pian piano dal dispiacere, o assistere al suo sicuro suicidio morale e fisico con tutte le conseguenze sul piano familiare e sociale.

    In quella primavera del 1918, Valeriano aveva vent’anni, ma non viveva in famiglia.

    Nel 1912, a quattordici anni, per dissapori con il padre che si era risposato in seconde nozze, aveva accettato di seguire uno zio che espatriava in Argentina. Possedeva un carattere orgoglioso e non sarebbe mai vissuto all’ombra del fratello Primo che avrebbe ereditato la leadership nella conduzione dell’azienda. Nonno Santino, infatti, non avrebbe mai voluto che, alla sua morte, la fattoria fosse divisa tra i figli, fatto che avrebbe provocato il suo frazionamento.

    Valeriano, che non accettava questa legge osservata in quelle terre, aveva preferito andarsene per cercare fortuna nel nuovo mondo come tanti italiani dei primi del Novecento.

    Il quarto figlio, Tino, nato nel 1909, di anni ne faceva nove e Luisa, che diverrà mia madre, ne aveva appena cinque.

    Erano tutti molto giovani e il nonno temeva per il loro futuro, però non vedeva alternative e, con la morte nel cuore, mise in vendita la fattoria. Da quel giorno non riuscì più a vivere e chi lo conosceva bene iniziò a vedere un morto che camminava aggirarsi per l’appezzamento enorme, sempre a capo chino, con le spalle curve dal peso e dal dolore per la perdita di ciò che aveva rappresentato tutta la sua vita.

    Oramai non si poteva tornare indietro e il nonno mise in vendita la sua creatura, dove sognava di finire i suoi giorni in mezzo ai suoi prati che odoravano di fieno e di erba menta appena tagliata.

    Dopo qualche mese, un compratore offrì una somma che era appena la metà di quanto valesse l’azienda, ma nonno Santino decise di accettare perché, se non avesse venduto, la banca avrebbe rovinato il figlio e con lui tutta la famiglia.

    Un giorno, prima di lasciare la sua terra, prese la piccola Luisa e fece il giro delle stalle accarezzando ad una ad una le sue vacche. Volle fare quell’ultimo giro della tenuta come faceva sempre con Gigiute che, molto piccola, si guardava attorno attenta, chiamando gli animali per nome e salutando i lavoranti.

    I cavalli, che pareva conoscessero la bimba, rispondevano nitrendo alla sua voce e i volatili da cortile si avvicinavano svolazzando al suo passaggio, felici e speranzosi in una ciotola di cibo.

    C’era tutta la vita della famiglia di nonno Santino nella terra coltivata da generazioni dai suoi avi e adesso egli vedeva svanire il suo sogno e avrebbe dovuto svendere, con la fattoria, ciò che costituiva il suo mondo e la sua stessa ragione di vita.

    Luisa guardava in silenzio il volto di suo padre bagnato di lacrime, mentre lentamente percorreva il viottolo che circondava la tenuta. I contadini stavano disponendo i campi per i lavori agricoli e lo videro passare pensieroso, quasi vergognoso di ciò che stava per fare. Lo salutarono con le braccia, in silenzio, come presagendo che lui stava morendo dentro.

    Con il ricavato dalla svendita, saldò i debiti del figlio e con la rimanenza comprò una casetta a Quarto d’Altino dove si trasferì con la famiglia.

    Non sarebbe rimasto un giorno di più nella terra dei suoi avi, dove tutti lo conoscevano. Per lui anche solo la vendita in quelle condizioni era un disonore e un dolore atroce. Nonna Angelica non intervenne mai nella decisione perché capiva che il marito non avrebbe potuto fare altrimenti.

    In quel modo aveva salvato dalla morte civile e fisica il suo figliolo; anzi, gli fu grata per aver deciso autonomamente perché il dilemma era gravissimo e di non facile soluzione.

    Poi pian piano tutto tornò alla calma silenziosa di chi non sa più sorridere.

    Valeriano era partito un anno prima che mia madre nascesse e, quando seppe della svendita della fattoria per salvare il fratello, non volle più tenere alcun rapporto con la famiglia che gli aveva provocato tanto dolore e rabbia.

    Non sarebbe mai più tornato in Italia. Si seppe poi che aveva fatto fortuna nell’allevamento dei bovini, grazie all’amicizia del generale italo-argentino Peron che lo aveva protetto perché italiano e quasi compaesano, dandogli la possibilità di fare fortuna con il commercio delle carni con l’estero.

    Valeriano divenne ricchissimo in pochi anni, e sposò una bellissima donna argentina da cui ebbe due figlie.

    Vissero felici in una grande fattoria nel Rio Negro, una terra splendida, attraversata dal fiume omonimo che rende i campi fertili e ubertosi. Quella terra, testimoniava la capacità di lavoro e di sacrificio della gente friulana nel mondo. Purtroppo la fortuna di Valeriano sarebbe sfumata con la caduta del suo protettore, alcuni anni dopo.

    Si conoscevano bene perché il dittatore era oriundo italiano e Valeriano si era ben presto aggregato politicamente al suo carro. Peron era l’incarnazione dell’uomo forte, necessario in quel tempo per governare una nazione enorme da pacificare, attraversata da fermenti rivoluzionari.

    Nel 1948 lo zio Valeriano era un uomo ricco e, preso dalla nostalgia, fece rintracciare la sorella dal consolato argentino e le scrisse una lettera. La guerra era finita da poco e lui la invitava in Argentina con tutta la famiglia, non per lavorare scriveva, ma per godere della sua fortuna.

    Le scrisse di prendere il primo piroscafo e di raggiungerlo nel nuovo mondo per vivere nella sua grande casa che voleva condividere con la sconosciuta incolpevole sorella.

    Non scrisse ad altri, verso i quali conservava il rancore di un tempo, ma la sua Luisita, come lui la chiamava, non aveva colpe per essere nata l’anno successivo alla sua partenza e la voleva stringere al cuore prima di morire.

    Non era facile capire cosa potesse provare un uomo lontano dalla sua terra dove aveva lasciato, da ragazzo, le sue radici e il suo cuore.

    Dopo qualche comprensibile riflessione, mia madre gli rispose che aveva pianto leggendo la sua lettera, ma che, passate tante pene, cominciava a vedere finalmente la fine del tunnel e con cinque figli, perché Elio era oramai in arrivo, si sentiva più sicura in Italia, piuttosto che affrontare l’Atlantico, disseminato di mine a causa della guerra da poco finita.

    Quarto d’Altino

    Dopo la svendita della fattoria, nonno Santino si spostò a Quarto D’Altino, un paesino agricolo vicino a Mestre. Nella casetta colonica, la famiglia dovette adattarsi a una nuova vita. Non c’erano più gli spazi verdi della fattoria friulana e neppure i lunghi filari di viti dai quali, alla fine dell’estate, penzolavano generosi grappoli d’uva.

    Mancava la vista rasserenante dell’immenso prato verde dove le giumente rincorrevano i loro piccoli che saltellavano felici tra una poppata e l’altra e neppure le ordinate fila degli alberi che maestosi ondeggiavano alla lieve brezza dell’assolata campagna friulana. Non si sentiva più il muggito delle vacche che, con le poppe colme di latte, attendevano fiduciose la mungitura del prezioso liquido.

    Ma era pur sempre una casetta carina che abbisognava di robuste braccia per divenire abitabile dai nostri che non si persero d’animo e che con l’alacrità friulana la trasformarono in una piccola oasi pulita e accogliente. Dopo alcuni mesi i lavori erano terminati e la famiglia si organizzò per una povera ma pacifica esistenza.

    Primo viveva a Treviso con la sua famiglia dove, con fatica, cercava una sorta di riabilitazione sociale, dopo la chiusura delle sue attività fallimentari. Secondo, non ancora sposato, viveva in famiglia e, appassionato di meccanica, trovò un lavoro in una officina di Mestre, grazie all’interessamento del fratello Tino che se lo terrà sempre vicino a causa del carattere schivo e poco socievole di questi, con il quale costituirà un sodalizio che durerà fino alla fine della loro vita. Tino dovette accollarsi le responsabilità del capofamiglia perché il padre Santino non si riebbe più dalla tragedia familiare e si occupava dell’orto e delle poche galline da cui otteneva la verdura e le uova necessarie per un piatto di minestra. Primo e Valeriano erano fuori casa, come abbiamo visto, e la piccola Luisa cresceva felice nella nuova realtà, perché troppo piccina per comprendere la tragedia familiare, e aiutava la burbera mamma Angelica nelle faccende di casa. Non aveva dimenticato i suoi animali, ma oramai, dopo un anno dal cambio forzoso di residenza, i ricordi divenivano sempre più fievoli, sempre più sbiaditi.

    Al mattino, Secondo e il fratello Tino, con qualunque tempo, prendevano la sgangherata corriera per Mestre, dove lavoravano fino a sera nell’officina del signor Manarin che li apprezzava per la loro capacità lavorativa e per il loro spirito di sacrificio.

    I due giovani, ben presto, conobbero due ragazze con le quali si incontravano alla domenica nella balera di Mestre divenendo loro assidui accompagnatori, graditi dalle ragazze, sia per la loro abilità nel ballo, sia per il loro serio atteggiamento di bravi ragazzi che dava fiducia e sicurezza alle figliole.

    Verso la fine degli anni Venti, dopo la morte dei nonni Santino e Angelica, Tino, per avvicinarsi al grosso borgo di Mestre, trovò casa a Carpenedo, piccola frazione, dove ospitò il fratello Secondo e la sorella Luisa, allora diciasettenne, che accudirà i fratelli, frequentando nel contempo una scuola di taglio e cucito, conoscenza imprescindibile per una ragazzina dell’epoca che doveva destreggiarsi in tutte le attività casalinghe per ambire a formarsi una famiglia.

    CAPITOLO II

    L’infanzia di mio padre

    Nel 1915 scoppiò la Prima Guerra Mondiale che vide l’Italia contrapporsi al regno austro-ungarico cui contendeva da settant’anni il lombardo-veneto e le città rivierasche. Il nonno Iginio, padre di Nando, che diverrà mio padre, fu chiamato nel regio esercito e dovette rimanere sotto le armi per tre lunghi anni combattendo sul Carso, sull’Ortigara e sul Pasubio.

    Fino alla fine della guerra, la famiglia non ebbe il sostegno del nonno che, al suo ritorno, riprese il lavoro di ebanista nella falegnameria lasciatagli dal padre. Tiràno, il paesino della Valtellina dove viveva la famiglia, non offriva molte possibilità di lavoro e i magri guadagni bastavano appena per il pane.

    Avrebbe voluto spostare la sua attività in zone più ricche, ma non ebbe il coraggio di lasciare la sua casa e la sua terra e ciò avrebbe comportato parecchi problemi economici per la sua famiglia.

    La nonna Dorina soffriva per quella mordace povertà, peraltro comune a tante famiglie, ma era speranzosa che qualcosa potesse cambiare. Ogni mattina, dopo aver salutato Nando che si recava a Sondrio per i suoi studi, andava in chiesa per la prima messa e pregava il buon Dio di dare alla sua famiglia un poco di tranquillità economica e di serenità.

    A Tiràno c’era poco lavoro e il nonno era un ebanista provetto, specialista negli intarsi dei mobili di noce, pertanto accettare di costruire delle sedie, un letto o un armadio, era per lui una sofferenza e un’umiliazione. Trascorreva così molte ore della giornata al patalò, una vecchia e fumosa bettola dove trovava sempre alcuni commilitoni con i quali rivangava i momenti tristissimi ma anche elettrizzanti della vita di trincea.

    Faceva molto freddo la notte nel fango, nell’acqua e in mezzo ai topi ma, a volte, c’erano momenti bellissimi in nome di quel cameratismo gioioso con cui a vent’anni si divideva un fiasco di vino, una salsiccia o un tozzo di pane.

    Ho sentito spesso argomentare sulle difficoltà dei militari americani di ritorno dal Vietnam, incapaci di riprendere una vita normale, che cadevano nell’alcool o nella droga per non ricordare ciò che avevano visto e fatto o per dimenticare quel tremore che li prendeva sempre quando la mente era libera di vagare nei tristi ricordi, ma non ho mai sentito una parola sui nostri ragazzi che combatterono nella Prima Guerra Mondiale e che tornarono alcuni zoppi, altri senza un braccio, altri sani nel corpo, ma tutti vinti nello spirito per ciò che avevano visto e patito.

    Fu una guerra terribile, come lo può essere la crudeltà che diventa metodo, se non si vuole soccombere.

    Il nonno e i suoi commilitoni ne videro di tutti i colori ed ebbero paura per la loro vita, o per le dolorose ferite che difficilmente guarivano. Spesso, per la cancrena, bisognava amputare senza il cloroformio (che non esisteva) e allora, in quei momenti, era difficile conservare anche la fede.

    A volte un ragazzo di vent’anni moriva negli spasmi dell’agonia tra i reticolati che doveva tagliare, senza che nessuno potesse far nulla per aiutarlo perché la mitraglia nemica aspettava solo quell’occasione per scatenare il suo rosario di morte. Mentre le sue invocazioni si facevano sempre più fioche, qualcuno piangeva per la rabbia, senza potersi muovere.

    I reduci ricordavano bene questi fatti, senza parlarne per pudore. Ricordavano le decimazioni che non erano infrequenti nei battaglioni che avevano avuto un attimo di smarrimento davanti al fuoco nemico, pronto a falciare chiunque avesse l’ardire di alzare la testa.

    I parenti e i conoscenti vedranno queste scene nei film o leggeranno dei libri sulla grande guerra, ma pochi capiranno lo strazio di quelle giovani menti nei momenti più crudeli di quell’inutile massacro.

    Io ero molto piccolo quando il nonno mi portava con sé all’osteria dove si ritrovavano i reduci che rivangavano con pudore i fatti d’arme che li avevano tanto segnati. Pronunciavano dei nomi con le lacrime agli occhi e io non capivo il dolore struggente di questi uomini che non potevano spiegare ciò che provavano perché le parole morivano sulle loro labbra.

    La gente non era disposta ad ascoltare quelle tremende esperienze che avevano lasciato una traccia indelebile nei loro cuori.

    Non esisteva una medicina capace di togliere il tormento e nessuno era disposto per pudore ad ascoltare e a consolare quegli uomini duri di fuori, ma tanto fragili dentro. Solo un goccio di vino o di grappa riusciva a lenire quel dolore sordo, provocato dalla demoniaca bestialità dell’uomo quando dimentica il suo Dio e vuole risolvere le contese con la violenza, uccidendo altri uomini per l’egoismo e il tornaconto di pochi.

    A volte mi soffermo a pensare a tutte le guerre moderne che l’uomo ha combattuto o combatte in Bosnia, in Africa, in Irak o in Afghanistan e penso ai reduci che al loro ritorno troveranno i propri cari o gli amici che si defileranno per non sentire i fatti dolorosi che li hanno visti spettatori e soggetti di un gioco bestiale.

    Quella del nonno era una guerra che si combatteva sulle cime o sulle crode, fatta di dolorose avanzate e di cocenti ritirate, dove la sera si contavano i morti a migliaia tra i contendenti.

    Solo il parlarne avrebbe potuto esorcizzare il ricordo di quegli eventi, a cui dovevano tragicamente partecipare con il cuore gonfio di paura e di tristezza, ma il disinteresse degli ascoltatori chiudeva la bocca e il respiro. Nessuno vuol sentire il dolore e le paure del fronte perché il mondo non ha tempo per quegli eroi, più disponibile al futile divertimento, alle canzonette, al gossip…

    Mio padre imparò, ancora giovinetto, come può essere dura la gente quando si è poveri. I commenti a volte salaci e a volte di riprovazione che qualcuno si permetteva sulla indiscussa capacità di lavoro di nonno Iginio, ma anche sulla sua discontinua attività lavorativa, non erano troppo benevoli e mio padre ne soffriva atrocemente.

    Appena tredicenne, per aiutare la famiglia, si trovò subito una occupazione al giornale locale come strillone. Partiva col treno delle 5.00 ogni mattina per Sondrio, sede della scuola tecnica da lui frequentata con successo e sede del giornale medesimo. Arrivava mezz’ora dopo alla messaggeria dove ritirava il pacco dei giornali che doveva distribuire, con pioggia, neve o vento, ai suoi lettori abituali.

    Era un sacrificio che faceva volentieri perché gli consentiva di mantenersi agli studi e portare a casa qualche soldo; ma solo la simpatia dei clienti rendeva quel lavoro meno faticoso. A volte, trovava delle buone persone che gli davano la mancetta che lui riponeva diligentemente in una tasca.

    Finita la distribuzione, correva trafelato a scuola, stanco ma felice di avercela fatta anche quel giorno.

    Alla campanella del finis, si recava di corsa nell’osteria adiacente la scuola dove ordinava un enorme panino ripieno di succulento prosciutto. Lo ingoiava con rapidi morsi, fermandosi solo per respirare e quando non c’era più nulla nelle sue mani, le sfregava soddisfatto, tirando un respiro di sollievo.

    Poi, alzando lo sguardo, si accorgeva che i pochi avventori lo guardavano come rapiti e non di rado qualcuno gli donava un calice di buon vino rosso, raccomandandogli di bere adagio per paura che si soffocasse.

    Alla fine, con le lacrime agli occhi ma felice, salutava tutti, guadagnava l’uscita e prendeva il treno degli studenti che lo riportava a casa. Mamma Dorina lo aspettava orgogliosa e abbracciava lieta quel suo figliolo fattosi uomo anzitempo e che si manteneva agli studi senza chiedere nulla alla famiglia. Sperava in cuor suo, senza darlo a vedere, che il suo Nando avesse conservato qualche spicciolo e lui, che conosceva la debolezza di sua madre, con gesto semplice, quasi con vergogna, le consegnava le monete riposte per lei.

    I nonni avevano altri due figli: Pinuccio, che appena sedicenne si arruolerà in Aviazione per togliersi dalla povertà di quella famiglia, e Arianna, nata nel 1917, frutto di una licenza di nonno Iginio dell’anno prima.

    Era sempre stato così, l’uomo che doveva assentarsi per lunghi periodi ingravidava sua moglie, prima di andarsene, quasi per indurre il fato a farlo tornare, o forse perché erano giovani e in quell’occasione non poteva mancare la conseguenza del loro amore.

    Per tre lunghi anni, la nonna dovette arrabattarsi come poteva con tre figli piccoli, dei quali solo Nando portava a casa poche lire. Poi qualcosa cambiò. Nel ’27 il nonno Iginio fu chiamato a Treviso da una grossa azienda specializzata nella lavorazione dei legnami per riparare i danni provocati dalla guerra.

    Avevano bisogno di un artista del legno per dei lavori di restauro da effettuarsi in diverse chiese dove le parti lignee asportabili erano state usate nelle stufe durante la carestia causata dalla guerra medesima.

    Per il nonno fu l’occasione per dimostrare quanto valesse e partì con tutta la famiglia per Treviso, sede della ditta che gli commissionava il lavoro. La nonna sistemò l’appartamentino preso in affitto mentre il nonno iniziava pieno di speranze quel lavoro che prometteva la fine della povertà. Lasciò la sua impronta nei portali delle chiese, in alcuni pulpiti, nel rifacimento delle panche e di alcuni altari.

    Mio padre, appena arrivato a Treviso, trovò occupazione in un’officina meccanica e poté dare una mano al ménage familiare, notevolmente migliorato grazie al lavoro di nonno Iginio e di suo figlio.

    Il fratello Pinuccio era partito giovanissimo per l’Africa orientale, militando in Aviazione come mitragliere nella brigata che Mussolini aveva mandato in aiuto del fascismo spagnolo. Guadagnava bene e non era più di peso alla famiglia, cosa non secondaria per una persona di poche parole ma dotata di grande amor proprio. Nonna Dorina aveva trovato un po’ di serenità perché il nonno lavorava e guadagnava a sufficienza per la propria famiglia e il suo umore era cambiato.

    Finalmente poteva sentirsi una persona dignitosa perché il lavoro lo stava affrancando dalla crudele povertà che, quando ti penetra nelle ossa, non ti lascia più.

    A Tiràno avevano lasciato la casa di proprietà che nonno Iginio aveva ereditato alla morte di suo padre Bartolo.

    Questi aveva lasciato morendo una ricca eredità di cui i figli beneficeranno in parti diseguali. Bartolo aveva fatto fortuna come antiquario, lavorando con i nobili che avevano in Lombardia i loro interessi e a Tiràno alcuni palazzi patrizi di cui egli curava l’amministrazione della svendita degli oggetti antichi che serviva ai dispendiosi rampolli delle antiche famiglie, per vivere nel lusso parigino o londinese. Si era sposato due volte e la prima moglie gli aveva lasciato tre figli piccoli tra cui nonno Iginio e i fratelli Astorre e Rico.

    In secondo letto aveva avuto altri tre figli, tra cui Lorella e Ada.

    Nonno Iginio non aveva un buon carattere e fu sempre in rotta di collisione con il padre a causa delle presunte o reali differenze che quest’ultimo faceva tra i figli di primo e di secondo letto che, essendo più giovani e figli della seconda moglie, suscitavano facilmente le gelosie dei tre più anziani.

    Quando morì, lasciò per testamento che la sua fortuna fosse divisa in parti proporzionali al suo affetto per gli eredi. Mentre agli altri andava quasi tutto il patrimonio che corrispondeva a qualche milione di euro di oggi, al figlio Iginio lasciò per punizione la sola vecchia casa con annesso laboratorio di falegnameria e un quadro di scarso valore.

    La manifesta ingiustizia del padre provocò dolore e rabbia nella famiglia dei nonni presso cui non si parlerà mai di Bartolo, quasi a volerlo punire e dimenticare.

    Nel ’31, nonno Iginio, terminata la collaborazione con la ditta, lasciò il trevigiano, tornando a Tiràno con nonna Dorina e la figlia Arianna. Il nonno trovò occupazione, poco tempo dopo, presso la locale scuola dove insegnerà per diversi anni la lavorazione del legno ai ragazzi.

    Mio padre non aveva seguìto i propri genitori preferendo rimanere nel Veneto perché Tiràno offriva poco lavoro e la falegnameria del padre non lo interessava.

    Lui amava la meccanica delle auto di allora che facevano impazzire i giovani come lui anche se il possesso di un’auto non poteva rientrare nella soddisfazione dei sogni di un operaio, anche se bravo. Poteva solo permettersi di ripararle.

    Nazi-fascismo in Italia

    Sul fascismo sono stati versati fiumi d’inchiostro da valenti autori e non credo che il mio punto di vista possa aggiungere o togliere molto ai fatti risaputi, ma le vicende da me narrate hanno inizio in questo periodo storico e trovo appropriato accennare brevemente al tempo in cui cominciano a muoversi gli attori della mia commedia.

    Nei primi anni Venti, il cav. Benito Mussolini, fondatore del partito fascista, per una serie di fortunate coincidenze e per la debolezza della monarchia, prese il potere dalle mani del re d’Italia e, guidando poche migliaia di disperati spaventati dall’avanzata del partito comunista in Italia, riuscì a coagulare gli scontenti nel partito fascista (PNF) che instaurò una dittatura che durerà fino al ’43.

    Alla fine degli anni ’30, Mussolini, facendo un errore gravissimo, si alleò con la Germania di Hitler il quale, conseguentemente alla sua politica antinglese e dopo aver riarmato negli anni ’30 un poderoso esercito, nonostante il divieto della società delle nazioni che fece orecchie da mercante, minacciava i paesi europei e i loro alleati.

    Questi non capirono subito le reali intenzioni del tiranno tedesco e dopo aver esperito dei tentativi infruttuosi per salvare la pace, dovettero convenire che con Hitler la pace era impossibile. Nel ’39 i tedeschi invasero la Polonia e poi, in un crescendo di violenza, si presero tutta l’Europa di allora.

    Il nostro Mussolini, temendo di arrivare tardi alla spartizione del boccone che Hitler aveva già in bocca, invase la Grecia, la Yugoslavia e nel ’42 la Francia, già occupata e vinta dai tedeschi, e dichiarò guerra alle potenze europee, nonché alla Russia e agli Stati Uniti.

    Oramai l’Italia era coinvolta dal bestiale alleato che, impazzito nel suo delirio di onnipotenza, aveva messo a ferro e a fuoco l’intera Europa.

    Nel ’41, Hitler era il padrone incontrastato del teatro europeo, ma dal ’42 in poi, la tarda reazione dei paesi europei, alleati dell’America, cominciò a invertire la situazione delle armate tedesche che furono bloccate e dovettero a malincuore iniziare la ritirata dalla Russia e dall’Africa del nord dove l’asse Roma-Berlino le prese di santa ragione, lasciando milioni di morti tra i contendenti.

    Nel luglio del ’43, visto il peggioramento delle vicende militari, il Gran Consiglio del fascismo, sorta di Consiglio dei Ministri, capì che bisognava fermare questa guerra che ci vedeva alleati di un Hitler oramai perdente. Mussolini fu sollevato dal suo incarico e arrestato dal re il quale, improvvisamente, si ricordò di essere il capo delle forze armate!

    Incarcerato il duce, il re chiese un armistizio agli alleati anglo-americani che erano già sbarcati in Sicilia e cominciavano la pulizia dell’Italia del sud dal nazi-fascismo. L’Africa era già perduta per le forze dell’asse che dovette lasciare anche la Francia.

    Le forze alleate stringevano in una morsa le armate di Hitler, costringendole a ritirarsi sempre più verso la Germania, tallonate dai gruppi partigiani che si costituirono ben presto in ogni paese occupato dalle forze tedesche. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, i tedeschi reagirono con ferocia al tradimento dell’ex alleato italiano.

    Mussolini, liberato dai tedeschi sul Gran Sasso dove il re lo aveva imprigionato, fu costretto a formare il suo governo fantoccio con pochi fascisti irriducibili, sul lago di Garda, dove, con il controllo dei tedeschi, fondò la Repubblica sociale di Salò.

    La mia famiglia viveva nel Veneto sottoposto alla ferocia dell’occupazione tedesca, aggravata dal voltafaccia fatto dal nostro Paese nei confronti dell’ex alleato.

    Il lavoro nelle fabbriche era controllato dai nazi-fascisti, che occupavano ancora gran parte del nostro Paese, da Montecassino all’Italia del nord, e obbligavano il popolo italiano sotto il loro tallone, a vivere senza una lira, sopportando la fame, il freddo e i pericoli di doversi rapportare a un occupante tedesco che alla minima occasione imponeva un trasferimento coatto in Germania per lavorare in schiavitù, oppure comminava la pena capitale, vedendo il nemico in ogni italiano, anche fosse un vecchio, una donna oppure un bambino.

    I cittadini italiani di religione ebraica costituiscono un capitolo a parte per la particolare stupidità e ferocia che dovettero sopportare con la complicità dei fascisti.

    Nel ’38, l’Italia, per compiacere l’alleato nazista, aveva emanato la famigerata Dichiarazione sulla Razza in cui erano contenute le leggi che colpivano soprattutto gli ebrei.

    Questa comunità, molto alacre e produttiva, fu sottoposta alle angherie più ingiuste anche se nel nostro Paese non si raggiunse la violenza che pativano gli ebrei in Germania da un decennio, dove erano considerati poco più che animali.

    Mio padre, come una piccola parte del popolo italiano, non si iscrisse mai al partito fascista, più per mancanza di coraggio che per convinzione politica, rinunciando così alla tessera del pane, preferendo svolgere turni massacranti in fabbrica e un duro dopo lavoro straordinario, per sfamare la sua numerosa famiglia.

    Dal 1940, anno in cui sono nato, eravamo già in sei a pranzo: si fa per dire perché con lo stipendio di un operaio era veramente fame!

    Dopo l’8 settembre del ’43, i nazisti occuparono militarmente l’Italia, considerando nemico l’esercito italiano, oramai allo sbando a causa della fuga del re con lo Stato Maggiore delle Forze armate.

    L’esercito restava senza ordini e l’intero apparato militare non sapeva più se combattere contro gli anglo-americani che stavano risalendo la penisola, nemici fino a ieri, oppure contro i nazisti che, forse preparati al voltafaccia italiano, presidiavano oramai la nostra penisola cercando, con teutonica organizzazione, di tappare i buchi creati dal cambiamento di posizioni da parte del nostro esercito.

    C’era la necessità di fermare una guerra che non avremmo mai dovuto iniziare e che stava volgendo al peggio, causando lutti e rovine tra le popolazioni delle città bombardate dagli anglo-americani.

    I nazisti rimasero soli a contrastare l’avanzata alleata e, considerandoci dei traditori, facevano man bassa di tutto ciò che potevano trasferire in Germania, dalle opere d’arte, alle schiere di povera gente sequestrata nelle case e nelle strade e che veniva spedita in Germania ammassata nei carri bestiame, senza preoccuparsi di quante persone arrivassero a destinazione.

    I poveretti morivano di stenti, di freddo e di fame, prima di giungere nei lager (campi di concentramento). Quei pochi che vi giungevano, facevano poi una ben triste fine.

    Alleati dei nazisti erano rimasti gruppi di irriducibili fascisti che non accettavano il voltafaccia dell’esercito italiano e continuavano a combattere a fianco dei tedeschi. Questi ultimi tolleravano il loro aiuto, utilizzandoli soprattutto nella lotta contro i partigiani, che diventavano sempre più pericolosi per il loro esercito in lenta ritirata verso il Brennero.

    Tutta l’alta Italia era così occupata dai nazi-fascisti irritati dal boicottaggio praticato nelle fabbriche dagli operai contrari a quella che era oramai considerata da tutti una feroce occupazione militare.

    I partigiani tendevano soprattutto imboscate sovversive che non consentivano distrazioni ai fascisti e richiedevano sempre maggiori forze per contrastare la loro attività di disturbo.

    Lo smacco era terribile per il più potente esercito di quel tempo che era finalmente costretto a percorrere a ritroso la strada verso il Brennero, quella stessa strada che li aveva visti orgogliosamente vittoriosi nella loro guerra di occupazione giunta fino al nord Africa e, verso settentrione, fino alla penisola scandinava.

    Nella loro ritirata, compivano le più efferate nefandezze, massacrando chiunque si trovasse sul loro cammino. Ricorderò tra gli innumerevoli eccidi, Sant’Anna di Stazzema in Emilia, dove l’intero paese fu demolito a cannonate e i paesani innocenti furono tutti trucidati con le mitragliatrici e con i lanciafiamme.

    Poco dopo ci fu l’eccidio di Marzabotto, dove il maggiore Walter Reder fece trucidare la popolazione con la stessa metodica di Sant’Anna di Stazzema, senza risparmiare vecchi, donne, o bambini.

    Questi due episodi bastano per capire con quale barbaro sospetto i tedeschi vedessero in ogni italiano un possibile fiancheggiatore dei partigiani, che doveva, quindi, anche solo precauzionalmente, essere deportato o ucciso, a meno che non fosse ritenuto utile nelle fabbriche tedesche per lo sforzo bellico.

    I fascisti si resero particolarmente odiosi per la ferocia con cui aiutarono i tedeschi nella loro opera di bassa macelleria, eguagliando, ove possibile, i loro alleati in crudeltà. Questa non è la sede per un esame di quei fatti già trattati da altri più competenti di me.

    A noi interessa rammentare il contesto in cui si svolsero le vicende della mia famiglia, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale.

    CAPITOLO III

    I ragazzi degli anni Trenta

    Mio padre trovò subito occupazione presso un’officina meccanica di Treviso dove si riparavano le poche automobili circolanti. Lavorava sulle vetture dell’Alfa Romeo che in quel tempo erano l’eccellenza tra le auto di tutto il mondo.

    Amava ripararle e quando terminava il suo compito era una grande soddisfazione per lui collaudarle sfrecciando nelle strade del trevigiano, dove faceva impazzire i volatili che, starnazzando, gli facevano ala ai lati delle strade polverose della campagna veneta.

    L’officina era una delle poche specializzate nelle auto dell’epoca e mio padre si fece subito benvolere per la sua abilità nel risolvere i problemi tecnici, sopperendo alla mancanza di quelle attrezzature che difettavano in quei tempi. Pensate che, se un pezzo dell’auto si guastava – e la cosa non era infrequente –, era impossibile avere il ricambio dalle fabbriche che non disponevano della rete assistenziale di oggi.

    Bisognava inventarsi la soluzione e costruire il pezzo mancante perché la macchina potesse correre. Mio padre, con la sua specializzazione tecnica, rispondeva in pieno alla necessità del suo titolare che lo teneva, di conseguenza, in gran considerazione.

    Lavorava con papà un bravo giovane, volonteroso e intelligente, di nome Tino. Aveva inventiva e volontà da vendere e con mio padre partecipava alla soluzione dei problemi tecnici dell’officina.

    Entrambi i giovani amavano il ballo, una delle poche occasioni per tenere tra le braccia una ragazza, sempre che non si trattasse del tango, considerato audace e peccaminoso per l’eccessiva vicinanza dei ballerini che, giovani e bollenti, ringraziavano gli argentini per aver inventato quel ballo un po’ osé e coinvolgente.

    I due cominciarono ad uscire insieme alla domenica e a fare frequenti puntate nelle sale da ballo. La gioventù voleva dimenticare i brutti momenti e come per esorcizzare la povertà diffusa, cercava ogni occasione per divertirsi onestamente com’era costume dell’epoca. Nessuno dotato di buon senso poteva pensare di fare sesso facilmente con le ragazze di quel tempo.

    Forse ci sarà stata un po’ di ipocrisia, ma vi assicuro che le ragazze potevano passeggiare tranquille nei parchi e nelle strade poco illuminate, perché nessuno si sarebbe sognato di aggredirle o mancare loro di rispetto.

    I giovani avevano una mentalità cavalleresca nei confronti della compagna, che poteva contare sulla discreta corte del maschio, ma soprattutto sulla galante protezione che questi offriva spesso senza secondi fini.

    Anche allora si diceva che l’uomo fosse cacciatore ma questi non perdeva occasione per farsi benvolere, con simpatia autentica, e solo se capiva che la ragazza poteva gradire attenzioni più spinte, allora sfoderava le sue qualità mascoline che, a volte, lo portavano in un letto o più facilmente in un prato, ma sempre con maniera e buona educazione.

    Le ragazze si divertivano a stuzzicare i loro compagni e cambiavano atteggiamento se questi si spingevano troppo avanti con le loro audaci avances.

    Insomma, il fine era sempre lo stesso, ma il modo di fare la corte era delizioso e l’uomo doveva realmente dimostrare di meritarsi quella graziosa figura che lo faceva impazzire di desiderio!

    Ovviamente il sesso era tabù e il solo argomento poteva interrompere una buona e promettente amicizia.

    Essere considerate ragazze poco serie avrebbe portato la vergogna non solo sull’interessata, ma anche sulla famiglia che, per questa ragione, vigilava sulla virtù della figliola con uno scrupolo quasi ossessivo. Le ragazze amavano un rapporto che fosse finalizzato a un matrimonio da celebrarsi rigorosamente in chiesa, con parenti e amici in festa. Il rapporto tra i sessi richiedeva pazienza e costanza e ciò allontanava i meno seri da una corte che per approdare a un risultato doveva svolgersi sulla falsariga di un copione collaudato da secoli che evitava le trivialità e i gesti poco corretti.

    Penso con simpatia a quei tempi, nei quali la violenza e la maleducazione erano un’eccezione non tollerata. I comportamenti poco morali non suscitavano che sdegno e ripulsa e avevano scarso risalto nei media di allora per ordine del Min. Cul. Pop. (Ministero della Cultura Popolare) e per una maggior professionalità dei giornalisti che non avrebbero mai riportato i

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