Cirenaica: Un sogno perduto
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Un periodo storico che è stato rivisitato attraverso la vicenda umana di Nullo Gavioli che aveva profondamente creduto in quelle terre, in cui, in uno dei villaggi agricoli, era stato il direttore di un ufficio postale.
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Anteprima del libro
Cirenaica - Giancarlo Bresciani
Premessa
Nei quasi trent’anni che hanno preceduto la Seconda guerra mondiale, la Libia era stata intensamente colonizzata dagli italiani.
Nonostante avesse dei detrattori che la consideravano Lo scatolone di sabbia
, prevaleva la definizione di Quarta Sponda
d’Italia quale parte integrante nel bacino del mediterraneo con la nostra costa adriatica, tirrenica e ionica.
Un completamento del territorio nazionale degno di essere valorizzato incentivando una immigrazione da parte di connazionali in contrapposizione alla fuga verso le Americhe.
L’affascinante Cirenaica, che merita di essere ricordata, è la regione libica che rispetto alle altre due, la Tripolitania e il Fezzan, è quella più a est e comprende i centri di Bengasi, Derna e Tobruk e si estende sino ai confini con l’Egitto.
Quel periodo storico è stato rivisto attraverso la vicenda umana di Nullo Gavioli, modenese che è stato uno dei coloni in Cirenaica, dove era direttore dell’ufficio postale nel villaggio Agricolo Luigi di Savoia.
Su richiesta di suo figlio, che ha fornito parte della documentazione di quegli anni, si tende a precisare che qualche data relativa al padre e alla sua storia famigliare, potrebbe non coincidere nella narrazione, che pur nella realtà dei personaggi è stata ovviamente romanzata, ma tenendo comunque ben salde e quindi privilegiando le vicende umane di coloro che hanno vissuto quella esperienza.
Nullo si racconta ricordando a ritroso la sua Africa dal momento in cui era stato liberato dagli inglesi, che l’avevano fatto prigioniero e reduce in nave lo stavano rimpatriando. Per suo tramite, e questo è il vero scopo della narrazione, emergono così tutte le vicende storiche e le contraddizioni di quegli anni tanto travagliati e discussi.
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È il 14 novembre 1944, è un martedì, oggi si è concluso lo strazio e il senso di inutilità di tutti quei giorni che ho passato qui deportato in Egitto come prigioniero di guerra.
Questa mattina mi hanno consegnato un foglio, o meglio una specie di cartellino come quasi io fossi un pacco, in cui è scritto che dovrò partire per l’Italia con la Ship M.M. 2106. In fretta, assieme ad altri che come me erano stati trattenuti dopo l’appello, ci dicono di recuperare le nostre cose dato che saremmo stati portati in camion a Porto Said, da dove dovevamo imbarcarci.
Dopo tanti anni di Africa sto tornando in patria, che ripensandoci bene non so più cosa possa significare in realtà la parola patria , tante sono le cose successe e dove tutto è stato stravolto.
Sapevo che i fascisti e le truppe tedesche avevano lasciato Roma già dai primi di giugno di quest’anno. Vittorio Emanuele III, il 3 settembre dell’anno precedente, il ‘43, aveva firmato la resa incondizionata agli alleati, indugiando poi su i provvedimenti da prendere, di fatto comportandosi come il suo ben più illustre antenato Carlo Alberto detto Re tentenna.
Così il generale Eisenhower, l’8 settembre, aveva denunciato praticamente unilateralmente l’armistizio, gettando allo sbando, nel panico e nel più assoluto caos quello che era il già disastrato esercito italiano.
Vittorio Emanuele si era poi rifiutato di controbattere in un qualche modo ad Eisenhower rivolgendosi alla nazione, lasciando invece tutto nelle mani del generale Badoglio.
Nessun ordine era stato dato alle truppe mettendo i soldati italiani alla mercé dei nazisti. In piena notte Vittorio Emanuele aveva abbandonato Roma, e di fatto era fuggito al sud.
Questo era stato il nostro Re in un momento difficile... E io a 38 anni non sono più in grado di capire chi sono e cosa potrò fare. Sono stato per 1027 giorni un internato civile sempre nei pressi di Porto Said, spostandomi in tre differenti campi di concentramento inglesi, subendo un trattamento piuttosto duro sino almeno al 1943, per godere successivamente di un regime più accettabile. Il primo periodo, che era stato il peggiore, l’avevo passato nel campo di Feyedin, in pieno deserto, dove eravamo in più di 3.000 stipati in spazi insufficienti e con servizi igienici precari, allora si era alle pendici di una collina, dove c’era questo grande accampamento di tende e baracche.
Era stato veramente difficile non lasciarsi andare allo sconforto e solo il pensiero dei miei figli mi dava una ragione per resistere.
Mi hanno poi trasferito altrove, nel Campo 310 dove le condizioni erano state più umane, tali da viverle con un certo equilibrio. Si era in un campo lungo ben due chilometri e largo almeno un cinquecento metri, dove c’era modo di fare discrete passeggiate; come viveri si andava abbastanza bene ed ogni tanto arrivava un qualche camion di verdura e anche di marmellate ne avevamo in abbondanza; c’era una certa scarsità di medicinali e nelle nostre lettere a casa si chiedeva che ci mandassero principalmente vitamine e fiale per fare iniezioni a base di calcio.
Tutto poi era aleatorio perché era anche difficile capire se quello che si scriveva arrivava poi a destinazione e lo stesso valeva per ciò che i nostri avrebbero potuto mandarci. Noi civili eravamo assieme ai militari, solo alla sera ci si ritirava in attendamenti diversi. Per passare meglio il tempo si era attrezzato un campo da tennis e uno per giocare a calcio.
La cosa che prevaleva, nonostante tutti i nostri sforzi per vincerla, era la noia di tutti quei giorni sempre uguali e con pochi interessi, era veramente insopportabile, aggravata dal disagio causato dall’incertezza di quello che capitava intorno nel mondo per questa devastante guerra che non sembrava finire mai.
Poi c’era la difficoltà di sapere in un tempo accettabile dei propri cari e si era sempre in trepidazione per quello che poteva capitare loro...
A me peggio di così non poteva andare, le notizie che mi erano arrivate avevano avuto un effetto devastante, avevo saputo che il 26 maggio, dopo pochi giorni dal rientro in Italia della mia famiglia dalla Libia, una febbre si era portata via Nazzareno, il mio figlio più piccolo che non aveva ancora compiuto un anno. Il 30 settembre dell’anno successivo, eravamo nel ‘43, all’ospedale Forlanini di Roma si era spenta, stroncata da una improvvisa malattia, anche mia moglie Ida, ed io ero qui prigioniero impossibilitato di fare una qualunque cosa per loro.
Per fortuna c’erano gli altri miei due figli, il primo Giuliano era stato accolto dalle mie sorelle a Modena e Celsina la piccolina viveva a Corato, coccolata dai nonni materni, e almeno le notizie che mi arrivavano di loro erano confortanti.
Tutto sembrava non finire mai, quando poco più di un mese fa, ecco dopo tanto tempo un segnale: pur essendo ancora in piena guerra, avevamo saputo che avevano rilasciato le donne nostre connazionali che erano in un altro campo vicino al nostro. Ancora qualche giorno e nell’appello del mattino era stato annunciato che una parte di noi sarebbe stata liberata ed imbarcata per l’Italia; che il sud, ad un anno dalla caduta del regime fascista, dopo la cacciata dei tedeschi, era solidamente nelle mani degli alleati.
Abbiamo salutato gli amici in partenza e finalmente mi si era acceso un lume di speranza, era certo a questo punto che presto sarei potuto tornare a casa anch’io, anche se tornare a casa era un eufemismo perché una casa non l’avevo più.
Eccomi finalmente, con il piccolo fagotto delle cose che mi avevano accompagnato in questi più di due anni e mezzo, ero sulla nave a Porto Said e dopo uno squillo di sirena, si stava salpando verso Taranto.
Penso di riflesso all’avventuroso rientro in aereo in Italia dei miei cari, avvenuto il 5 maggio del ‘42, che nonostante la data, niente aveva a che fare con Napoleone e la relativa poesia di Manzoni, ma che era stato per certi toni, altrettanto drammatico.
Io ero già prigioniero da qualche mese degli inglesi, ne ero comunque venuto a conoscenza e ho potuto ricostruirlo nel dettaglio tramite il racconto di un mio compagno di prigionia che allora, ancora libero, era presente quel giorno alla loro partenza dall’aeroporto e da quanto mi aveva poi scritto nelle sue lettere mia moglie Ida.
La situazione dei civili italiani residenti in quella parte della Cirenaica era divenuta insostenibile, il fronte avrebbe potuto coinvolgerli, non era più possibile garantire la loro sicurezza e dovevano evacuare la zona, molte famiglie erano pronte per partire quel giorno, li aspettavano all’aeroporto di Al Abraq che si trovava prima di Cirene, sulla Balbia, a soli 5 Km più a ovest dal Villaggio Agricolo Luigi di Savoia, dove tutti loro abitavano.
Tanti erano gli aerei messi a disposizione. Il loro gruppo doveva imbarcarsi su due di questi che erano aerei militari, ma con il simbolo della Croce Rossa messo bene in vista, anche se questo non dava la garanzia assoluta che non potessero essere comunque attaccati dal nemico.
Erano consapevoli del rischio che correvano, le famiglie al completo prendevano posto a bordo nella speranza comunque di potercela fare, tra loro, c’erano i miei, d’altronde non c’erano alternative.
I partenti, data la situazione erano scuri in volto in contrasto con la bellissima giornata di sole, soffiava un vento teso che comunque mitigava loro la sensazione di calura. Mio cognato aveva dovuto abbandonare parte del suo bagaglio per non appesantire l’aereo già stracarico di passeggeri.
Con lui, oltre alla sua famiglia, viaggiava anche mia moglie Ida con i nostri tre figlioletti Giuliano, Celsina ed il piccolo Nazzareno.
Sistemati tutti a bordo, chiusi i portelli e avviati i motori, i due aerei uno dietro all’altro rullavano in direzione della pista di decollo, quando il comandante, di quello dove era mia moglie si accorse di avere un problema al carrello, intanto l’aereo che li precedeva era già decollato e dopo un breve scambio di messaggi, ed un paio di giri sul campo aveva preso la via per l’Italia.
Rimasti così a terra erano ritornati verso gli hangar dove un motorista già aspettava per effettuare la riparazione che avrebbe comportato circa un’ora di lavoro.
Intanto con la radio di bordo continuavano a mantenere il contatto col primo equipaggio che già stava volando sul Mediterraneo, quando, dopo una ventina di minuti, distinta avevano sentito la voce concitata del marconista dire: «Ci attaccano... Ci attac...» Poi il silenzio più assoluto, erano stati abbattuti e da come si era interrotta la comunicazione, erano certamente esplosi in volo.
Il comandante disse che purtroppo gli altri erano stati intercettati e laconicamente aggiunse che almeno non avranno sofferto, quaranta vite di civili, tra cui diversi bambini erano spariti nel nulla e con loro anche i piloti e l’equipaggio, senza una lacrima, quasi rassegnato, il comandante concluse dicendo che il pilota dell’altro aereo era un suo caro amico.
Sul mezzo abbattuto tra gli altri aveva preso posto una famiglia veneta con cui eravamo diventati grandi amici e ci vedevamo quasi ogni giorno. Quando, scrivendomi i particolari di quei momenti, Ida mi aveva dato questa notizia non riuscii a trattenere le lacrime. E fui tormentato per diverso tempo nei miei sogni rivivendo quello che immaginavo fosse stata la loro fine nel baleno di quelle atroci fiamme.
All’aereo di mia moglie quel provvidenziale guasto aveva risparmiato quella immane tragedia ed è facile immaginare con quanta trepidazione abbiano poi vissuto quell’ora di volo che li separava dall’Italia.
Il comandante per evitare i caccia nemici nella prima parte del volo aveva scelto di rimanere ad una quota di soli alcuni metri sul livello del mare, poi forse a causa del mare agitato o perché si sentiva abbastanza al sicuro pensando di essere già fuori dal raggio