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Celeste, la bella
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E-book238 pagine3 ore

Celeste, la bella

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Info su questo ebook

Romanzo d’esordio dal sapore agrodolce che si ispira a una vicenda realmente accaduta a Pisticci, piccola cittadina in provincia di Matera, nella seconda metà dell’800.
Francesco Coriglione, avvisato dell’imminente morte del padre, don Pietro, rientra al paese da cui mancava da molti mesi. I rapporti tra i due non sono stati dei più sereni, ma nonostante le colpe che Francesco attribuisce al genitore, è consapevole di non essere immune da responsabilità in una vicenda che ha segnato le vite di entrambi.
Mentre gli porge l’ultimo saluto, tra le mani del padre intravede la miniatura di una giovane donna e viene riportato a un passato lontano che aveva cercato di dimenticare per molti anni.
Maggio del 1862, da pochi mesi il Paese è stato riunificato sotto la spinta della spedizione dei Mille. Mentre Francesco è dedito agli studi che gli permetteranno di affiancare il padre e lo zio come speziale nella farmacia di famiglia, non nasconde la sua simpatia per Vittorio Emanuele ii. Con l’ingenuità tipica della gioventù è convinto che il mondo stia progredendo verso un futuro in cui non c’è spazio per ridicole convenzioni e pregiudizi. Per questo, innamoratosi della bellissima Celeste, confida che le resistenze del padre alla loro unione possano venire meno e che dopotutto anche gli attriti tra le due famiglie, i motivi venali che le tengono lontane, possano dissolversi.
L’amore, è convinto Francesco, può sistemare ogni cosa. Ma a vent’anni, se è facile sognare, è anche facile perdersi. E una parola non detta, una critica gratuita, una maldicenza stizzosa, possono mutare il corso di un’esistenza.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788832927719
Celeste, la bella

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    Anteprima del libro

    Celeste, la bella - Francesca Maffei

    padre.

    1

    Il letto in legno di noce

    Un intero paese cadde nel lutto quell’estate del 1892. La morte arrivò inaspettata e crudele all’alba del quattordici settembre. Era un mercoledì pieno di sole, un mercoledì di afa e privo di vento.

    Quando il dottor Rogges arrivò a casa Coriglione trovò l’uscio aperto e un viavai di persone intente a curiosare e a civettare, come se la notizia della morte di don Pietro potesse essere annoverata nella cronaca rosa. Tutti facevano a gara per informare chi ancora ne era all’oscuro e molti millantavano di aver inteso particolari riguardo le ultime parole del defunto.

    Pareva che in punto di morte, in quel breve istante che precede l’ultima espirazione, don Pietro avesse pronunciato una frase, poche parole per una rivelazione che avrebbe sconvolto un’intera comunità.

    Il dottor Rogges, se pur incuriosito da quei pettegolezzi, fece appello al suo dovere professionale e varcò la soglia d’ingresso. Una donna non più giovane, corpulenta e dai capelli grigi e radi, gli si fece incontro e senza proferire parola lo condusse al piano superiore dell’abitazione. Addentrandosi nella penombra dei lunghi corridoi dalle pareti adorne di quadri e antichi cimeli, lesse la storia della famiglia Coriglione fin dai tempi del compianto don Francesco, immortalato in un ritratto di fine Settecento, impettito nel suo alto bavero bianco e nella sua fiera nobiltà. Accanto a lui don Peppino ostentava la sua conclamata supremazia di professionista capace e il dottor Rogges non poté fare a meno di ripensare all’ultima volta che era stato in quella casa.

    Lo ricordava bene quel giorno. Era lo stesso periodo dell’anno, sul finire dell’estate del 1863.

    Era stato chiamato di urgenza a seguito di un tentato suicidio. La scena che allora gli si era presentata davanti non si discostava molto da quella alla quale fu costretto ad assistere in quel momento.

    Il corpo livido e liscio di don Pietro rifletteva la luce fioca che entrava dalle persiane socchiuse e l’acre odore della stanza, che un tempo fu solo un alito della morte, quel giorno pareva essersi impossessato persino dei muri. Il dottore si rese subito conto che il defunto doveva essere spirato molte ore prima e, con i tanti che frequentavano la grande Casa Rossa, non riusciva a spiegarsi per quale motivo lui, l’unico medico del paese, fosse stato uno degli ultimi a essere informato dell’accaduto.

    Entrò nella stanza scura e si avvicinò esitante al cadavere trasparente.

    Non avrebbe dovuto far altro che constatarne la morte. Accostò il viso alla bocca semichiusa di don Pietro per cercare di percepirne un insperato sussurro e un brivido gli corse fin nel punto più fondo delle sue vecchie e stanche ossa. Si ritrasse bruscamente, creando agitazione e spavento tra i presenti.

    Pietrantonio Coriglione era freddo e silenzioso più di quanto lo fosse mai stato. Era morto. Talmente morto da sembrare fin vivo.

    L’enorme letto in legno di noce, intagliato molti anni prima con lo stemma araldico della famiglia Coriglione, era stato preparato con cura con lo stesso lenzuolo in raso viola che un tempo aveva accompagnato Peppino Coriglione nell’ultimo abbraccio dei suoi cari.

    Come fu per suo padre, anche don Pietro ebbe gli onori del paese intero. Le campane suonarono a lutto per tre giorni e non ci fu un solo cittadino che mancò le proprie condoglianze o di dire una preghiera.

    La composta confusione che regnava nella casa era la stessa di ogni giorno degli ultimi cinquant’anni. La grigia governante, fedele a tre generazioni di Coriglione, vegliava sulle infinite stanze chiuse, onnipresente al minimo spostamento d’aria, al minimo accumulo di polvere e, se pur avvolta in un’aura di noncuranza, onnipresente alla minima necessità degli ospiti.

    Le sorelle di don Pietro si presero cura del cadavere fino al giorno dei funerali. Lo lavarono, lo rasarono, lo profumarono e lo vestirono con il suo abito migliore. Con il volto nascosto dietro al velo nero e il rosario tra le mani, rimasero al capezzale del fratello, allontanandosi a turno solamente per cenare e per riposare.

    Luisa aveva accompagnato don Pietro nelle sue ultime settimane di vita. Aveva preso i voti cinquant’anni prima, appena quindicenne, e da allora aveva vissuto con le suore del convento di Sant’Agostino a Matera. Con la scomparsa del Regno delle Due Sicilie e per sfuggire a uno scandalo che la voleva amante e amata del Vescovo della città, decise di trasferirsi a Torino dove rimase per trent’anni. Mantenne una certa corrispondenza con i propri cari e appena seppe della malattia del fratello tornò a Pisticci per prendersene cura.

    Teresa le era più giovane di dieci anni. Appena una settimana dopo essersi fatta donna aveva preso in marito Vincenzo Stella, ingegnere superiore delle Ferrovie dello Stato i cui lustri non fu mai dato sapere.

    Con lui ebbe sette figli e sette aborti. Tutti i nipoti, di malavoglia, rimasero in piedi accanto allo zio morto per ore, fino a quando l’insofferenza del piccolo Pietrantonio lo fece venir meno. Cadde tra le braccia del padre che si preoccupò prontamente di fargli riprendere i sensi battendogli le gote ardenti.

    Ai ragazzi venne così concesso di scendere nel patio e presero a giocare con la palla tra schiamazzi, urla e risate. Da quel momento la tensione si allentò sulla casa e sui suoi abitanti.

    All’imbrunire del terzo giorno di veglia, quello della vigilia dei funerali, la casa dei Coriglione sembrava aver dimenticato il lutto. Se un forestiero fosse passato di lì per caso, avrebbe certamente potuto pensare che si stesse festeggiando una nascita o un matrimonio.

    Virginia, la figlia minore di don Pietro, si mise in cucina insieme alle domestiche per preparare quella che, a suo dire, avrebbe dovuto essere la cena per commemorare il padre prima di dirgli addio per sempre.

    Arrivò l’ultima luce del giorno e i commensali presero posto al grande tavolo apparecchiato al centro del patio. Mancava solo Francesco, primogenito del defunto. Era socio del padre nella farmacia che apparteneva ai Coriglione da quattro generazioni. La morte della moglie lo aveva spinto a intraprendere un viaggio di preghiera a Roma. Viaggio che durò oltre ventidue mesi. Aveva saputo della malattia di don Pietro solamente la mattina stessa della morte e varcò la soglia di casa la sera del terzo giorno, mentre i suoi famigliari si accingevano a consumare la cena.

    Rimase sconcertato dal clima rilassato e quasi festoso che trovò nel cortile. Pur conoscendo la grande famiglia della Casa Rossa, non riusciva a credere che si potesse essere tanto irrispettosi, ancor più con il defunto al piano di sopra. Si stupì oltremodo del fatto che l’indifferenza generale non cambiò neppure quando il piccolo Pietrantonio riconobbe il cugino e gli corse incontro, emozionato all’idea che in una delle grosse valigie che il cocchiere stava sistemando nell’atrio principale ci fosse un regalo per lui. Teresa cercò di contenere l’entusiasmo del figlio, ma senza risultati.

    La donna, con la sua pelle color del latte e le sue forme tonde e generose, pareva un’estranea accanto al resto della famiglia. Aveva grandi occhi blu, un blu glaciale, che quasi spaventava e che nulla aveva a che fare con i tiepidi occhi nocciola dei suoi fratelli. Un pomeriggio di molti anni prima, in uno dei suoi ultimi momenti in bilico tra lucidità e follia, la madre le aveva confessato di essersi presa cura di lei come l’avesse partorita, nonostante la realtà fosse ben più amara. Le disse che il padre l’aveva portata a casa una mattina d’inverno, quando aveva solo poche ore di vita, livida per il parto e per il freddo, adagiata in una cesta di vimini in cui le donne usavano mettere il pane ancora caldo e avvolta nello stesso telo di lino bianco in cui, anni dopo, lei stessa avrebbe ninnato tutti i suoi sette figli.

    Don Peppino ordinò alla moglie di prendersi cura della bambina, di lavarla, di vestirla e di chiamare una nutrice che l’allattasse fino a quando sarebbe stato necessario. Donna Anna fece quello che il marito le aveva intimato senza fare domande e da quel giorno la piccola, registrata all’anagrafe come Teresa Maria Coriglione, divenne parte della famiglia. Pochi giorni dopo l’arrivo di Teresa nella casa, fece il giro del paese la notizia della morte, a causa di complicanze durante il parto, della padrona del postribolo più conosciuto e frequentato della provincia e a donna Anna non ci volle molto per capire che Teresa era figlia di suo marito. Negli anni si occupò di lei nella stessa maniera in cui si occupava degli altri suoi figli, con amore e devozione, tanto più che la bambina cresceva di una bellezza e di una dolcezza rare. Era dotata di intuito e di una bontà d’animo tali per cui era impossibile non volerle bene, seppur fosse di salute cagionevole e negli anni diede non poche preoccupazioni ai genitori che scelsero di maritarla giovane perché ci fosse qualcuno che si occupasse di lei quando loro sarebbero stati ormai vecchi.

    L’unica persona che era a conoscenza delle origini di Teresa già prima del suo arrivo nella casa, era l’onnipresente governante. Lei stessa era andata svariate volte a recuperare don Peppino al bordello per rimetterlo nel letto della moglie prima che questa si svegliasse. Lui, annebbiato dall’assenzio, imprecava nel dialetto stretto che lei aveva sempre fatto finta di non conoscere.

    Prima di sedersi a capotavola, Francesco volle andare a rendere omaggio al cadavere del padre. Dopo la scomparsa della moglie aveva sempre cercato di evitare veglie, funerali, rosari e qualsiasi altra cosa coinvolgesse la morte. Per alcuni istanti si fermò titubante sulla soglia della stanza da letto.

    Ripensò agli anni vissuti accanto a don Pietro, così lontani ormai nel tempo e si rammaricò per non essere stato presente e non essere riuscito a salutarlo per l’ultima volta. Ripensò agli anni della sua giovinezza, quando cominciò ad avvicinarsi agli studi speziali, lavorando nella farmacia che il padre gestiva insieme allo zio e che era eredità del nonno Giuseppe e ancor prima del bisnonno Francesco. Da piccola bottega di paese, in pochi anni era diventata una tra le più rinomate di tutta la provincia, grazie alla passione e alla sapienza dei Coriglione. Il buon nome della famiglia aveva valicato i confini del Regno, tanto che Re Vittorio Emanuele II in persona si affidò alla sapienza di Peppino Coriglione.

    Questi, per molti anni, si occupò di preparare intrugli e medicamenti che rafforzassero la debolezza dei polmoni del Re Galantuomo e per altrettanti anni fu periodicamente invitato alla corte di Torino per controllarne la salute e dare consigli di cui il Re si fidava senza riserva.

    Quei tempi, che spesso rivivevano con nostalgia nelle memorie di Francesco, con il passare degli anni e con il susseguirsi degli eventi erano andati sbiadendosi o contornandosi di nuovi dettagli per cui era difficile riconoscerne la realtà o la sua distorsione.

    Don Pietro era lì, con la sua faccia seria di sempre. Quasi portasse una maschera che neppure l’aver valicato il confine tra la vita e la morte lo aveva abbandonato. O forse era stato lui a non volerla abbandonare. Come non aveva mai abbandonato il suo orologio da taschino, eredità del bisnonno e vecchio di oltre un secolo. Segnava le otto e sedici e in quell’esatto minuto era stato fermato. Era l’ora della sua morte. Da che Francesco potesse ricordarlo, suo padre aveva sempre vissuto così. Cristallizzato in un completo scuro e in una quotidianità perfetta in modo quasi estenuante: la sveglia al mattino all’esatto sorgere del sole, qualsiasi fosse la stagione; il bagno tiepido, il caffè amaro nella tazza nera, la passeggiata tutt’intorno la grande casa dai mattoni rossi, il controllo al fienile e alle baracche dei contadini al margine est della sua proprietà. Poi la carrozza lo portava in centro paese. Un altro caffè amaro prima di cominciare la giornata alla farmacia. Durante le prime ore pomeridiane spesso tornava alla Casa Rossa per pranzare con la moglie e con i figli. Altrettanto spesso la carrozza lo accompagnava alla baracca della Caproccia, la maîtresse più famosa della provincia. Lì, come aveva fatto un tempo suo padre e come molto più spesso faceva anche il fratello Nicola, poteva sfogare i suoi istinti meno nobili tra le braccia scialbe di qualche sgualdrina di mezza età.

    Non che non gli importasse della famiglia. Trascorreva del tempo con i figli e si dedicava alla gestione dei suoi possedimenti, lauta eredità ricevuta dal padre Peppino anni prima della morte.

    Fintanto che sono in grado di intendere, applico testamento e lascio tutti i miei beni a mio figlio, quello sano. Così diceva don Peppino, appellando Pietrantonio come il figlio sano, marito e padre di tutto rispetto e il secondogenito Nicola il figlio malato. Malato di mondanità, gioco e ambiguità.

    Tuttavia Nicola possedeva una predisposizione al lavoro di farmacista ben più marcata di quella di Pietrantonio. In paese si era guadagnato la fiducia della gente e di conseguenza quella del padre che, non senza riserve, aveva deciso di affidare la farmacia al secondogenito. Tanto quanto capace e rispettabile speziale, Nicola si era rivelato anche abile stratega negli affari. Con lui la farmacia Coriglione aveva raggiunto la massima prosperità e ben più fiorente avrebbe potuto essere, non fosse stato per le abitudini lascive che lo portavano a sperperare gran parte del suo denaro tra corse di cavalli e cattive compagnie.

    Con fare quasi protettivo Francesco sfiorò la mano del padre che era poggiata greve sul cuore ormai silenzioso. Questa si scostò con un movimento incerto, lasciando intravedere accanto all’orologio la piccola sagoma lucente di un altro prezioso. Lo sfilò delicatamente e si ritrovò tra le dita un ciondolo d’oro, lavorato con il disegno di una rosa dai petali appena dischiusi. Percepì il respiro morirgli nel petto. Consumata dal tempo, la miniatura di una giovane donna riportò il farmacista a un passato lontano, un passato che aveva cercato di dimenticare per molti anni.

    2

    Celeste, la bella

    maggio 1862

    Era una delle primavere più calde degli ultimi venticinque anni. Ne parlavano tutti.

    Le donne di Pisticci si incontravano agli angoli delle strade e rimanevano lungamente a discutere di quell’inconsueta ondata di caldo. Riparate sotto romantici ombrellini dai colori pastello, rientravano alle loro case con un mazzo di fiori per il centro tavola, un cestino di pane fresco per il pranzo e un cappello nuovo, acquisto giustificato, agli occhi indifferenti dei mariti, dal sole cocente.

    Il paese era in fermento, come ogni lunedì. L’andirivieni dei carretti lungo le mura del borgo era cominciato incessante già dalle prime ore del mattino. Il mercato cittadino brulicava di persone, per lo più inservienti e piccoli speculatori che acquistavano la merce a poco prezzo per poi rivenderla alle botteghe in cui si rifornivano le famiglie benestanti.

    I commercianti che avevano le loro attività nella parte alta del paese, scendevano a valle per scaricare le merci dalle barche che attraccavano al porto, e le loro mule, cariche di ogni genere di prodotto, stancamente risalivano la collina, percorrendo con lentezza le vie pavimentate del centro.

    Il paese era una grande macchia bianca spaccata in due dalle mura in pietra tagliata, lascito di un passato di gloriose conquiste. Il castello di San Basilio, un tempo residenza di importanti casati, svettava imponente nel punto più alto della collina, dominando un paesaggio sconfinato.

    Francesco fissava in lontananza la grande torre del Re Ruggiero stagliarsi fiera nel cielo limpido di quel lunedì di primavera. Era sull’uscio della farmacia di suo padre e di suo zio. Quella farmacia che un giorno sarebbe diventata sua. Prese una sigaretta dalla scatoletta che teneva nel taschino e l’accese, facendo ben attenzione che non tornasse il padre, allontanatosi nella piazza per alcuni minuti. Francesco era appena ventenne e don Pietro non ne approvava quel vizio precoce, quindi andava celato almeno fino al compimento della maggiore età o comunque il più a lungo possibile. In questo Francesco trovava un grande alleato nello zio Nicola, accanito appassionato di sigari e con una predilezione per ogni sorta di vizio, su tutti l’inclinazione alle relazioni di letto con le donnacce dei numerosi bordelli sparsi per la provincia.

    Questa debolezza era la causa della sua malattia, diagnosticatagli alcuni mesi prima come sifilide. L’infezione gli aveva procurato delle eruzioni cutanee sulle dita dei piedi che lui stesso si medicava con cura e cercava di tenere sotto controllo con unzioni di mercurio e decotti di guaiaco. Nonostante la malattia lo zio Nicola perseguiva nella sua vita dissoluta.

    Se dovessi morire domani, diceva, voglio farlo sapendo di essermi goduto questa vita fino all’ultimo respiro.

    Francesco ammirava lo zio. Era senza dubbio la persona più colta che avesse mai conosciuto e la sua abilità di speziale lo lasciava ogni giorno più sbalordito. Gli chiedeva spesso perché non avesse intrapreso gli studi per diventare medico e lui rispondeva sempre con le stesse parole: Meglio un farmacista che è un medico mancato di un medico che è un farmacista mancato.

    La realtà però era ben diversa e ne erano a conoscenza tutti. La farmacia Coriglione contava tre generazioni di brillanti professionisti e don Peppino non avrebbe mai permesso che il buon nome di famiglia, intagliato imponente nel legno sopra l’entrata principale della bottega, fosse sostituito con quello, parole sue, di uno straniero venuto da chissà dove a portare novità di chissà che tipo.

    Mutilato dalle decisioni del padre, Nicola sfogava la sua disapprovazione in una vita sregolata fuori dalle mura della farmacia. Era stato quasi sul punto di sposarsi, una volta. La passione folle con una contadina della

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