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Fino a tardi per vedere l'alba
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Fino a tardi per vedere l'alba
E-book276 pagine3 ore

Fino a tardi per vedere l'alba

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Info su questo ebook

Un'autrice tradotta in 22 Paesi

Autrice del bestseller Quanto ti ho odiato

È una vera e propria guerra quella che è scoppiata al liceo Hamilton: l’odio tra il team di football americano e quello di calcio è insostenibile. E Lissa è stanca. Non aveva immaginato che fidanzarsi con Randy, il quarterback della squadra, significasse venire costantemente piantata in asso in nome di qualche vendetta. In almeno tre occasioni la macchina di Randy è stata bombardata da uova, mentre lui e Lissa cercavano un po’ d’intimità. È arrivato il momento di porre un freno a tutto questo: Lissa non ha più intenzione di contendersi le attenzioni del suo ragazzo con un branco di scimmioni sudati. Lei e le altre ragazze hanno in mente un piano per mettere fine a quella sciocca rivalità una volta per tutte: nessuna si farà più avvicinare dal proprio fidanzato finché le squadre della scuola non faranno pace. Uno sciopero in piena regola. Ma Lissa e le altre non hanno messo in conto una nuova forma di competizione: quella tra maschi e femmine. Vince chi è in grado di resistere ai propri istinti. Peccato che Lissa si senta irrimediabilmente attratta da Cash Sterling, il leader dei ragazzi…

In un liceo americano le rivalità sportive degenerano in una guerra senza esclusione di colpi

«Kody Keplinger crea personaggi vividi e realistici, pieni di audacia e gioia di vivere. I suoi libri sono freschi, divertenti e brillanti.»
Kirkus Reviews

«Lo stile della Keplinger conferma la sua capacità di rendere una storia interessante, avvincente, adorabile. I suoi dialoghi hanno un ritmo tale che è impossibile non amarli.»
Bookish Advisor
Kody Keplinger
è nata e cresciuta in una piccola città del Kentucky. Dal suo bestseller di esordio, Quanto ti ho odiato, è stato tratto il film L’A.S.S.O. nella manica. Vive a New York, scrive a tempo pieno e insegna in workshop di scrittura. La Newton Compton ha pubblicato anche TVB. Ti voglio bene. Fino a tardi per vedere l’alba è il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2018
ISBN9788822720566
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    Anteprima del libro

    Fino a tardi per vedere l'alba - Kody Keplinger

    Capitolo 1

    Al mondo non esiste niente di più umiliante che ritrovarti a seno nudo sul sedile posteriore della macchina del tuo ragazzo quando a qualcuno viene la bella idea di lanciare un uovo sul parabrezza.

    Aspettate, come non detto.

    Se il tuo ragazzo, che era sopra di te, schizza via, scende dall’auto e si mette a rincorrere il tizio, dimenticandosi completamente che sei ancora mezza nuda… ecco, questo lo batte.

    Ma al peggio non c’è mai fine.

    Può anche succedere ripetutamente.

    Mi girai a pancia in giù e allungai un braccio per cercare la canottiera sul tappetino, augurandomi che i vetri della nuova Buick Skylark di Randy fossero oscurati come quelli della vecchia Cougar, con la quale aveva abbracciato un palo del telefono il mese prima. La Buick aveva più anni, ed era usata, ma Randy considerava il sedile posteriore, più grande, un punto a suo favore.

    Non che in quel momento lo stessimo sfruttando.

    Infilai la canottiera e strisciai davanti. Era la terza volta che vandalizzavano l’auto, con noi dentro, da quando io e Randy avevamo iniziato a uscire insieme, sedici mesi prima. Le altre due risalivano all’autunno precedente, quando la rivalità era ai massimi livelli, e in entrambi i casi ero stata abbandonata in macchina, in preda all’umiliazione, mentre il mio ragazzo dava la caccia al colpevole.

    Non corrispondeva esattamente al mio concetto di divertimento.

    Da allora era passato quasi un anno, e ormai speravo che certe situazioni imbarazzanti non si ripresentassero, ma evidentemente ero stata troppo ottimista. Eccomi di nuovo lì… dimenticata, sola, intenta a ricacciare indietro le lacrime.

    Una parte di me sapeva che mi sarei dovuta infuriare, ma più che altro mi sentivo ferita. Dopo più di un anno insieme, speravo di essere al primo posto per Randy. E il fatto che mi dimenticasse con tanta facilità per via di uno stupido uovo sulla macchina? Mi bruciava.

    Staccai il CD di R&B sexy che aveva messo Randy e scorsi le stazioni memorizzate sullo stereo, fermandomi su una radio di vecchi classici per ascoltare gli ultimi secondi di Night Moves di Bob Seger, mentre legavo i capelli, arruffati dalla pomiciata, con l’elastico che portavo al polso.

    Tredici minuti e mezzo più tardi, Randy tornò.

    «Che squadra di checche! Prima o poi li ammazzo, quegli stronzi».

    Gli lanciai un’occhiataccia. Detestavo sentirlo parlare così, e lui lo sapeva.

    «Scusa», mormorò, sprofondando sul sedile del conducente con un tonfo. Fissò il parabrezza coperto di schizzi di uovo, digrignando i denti. «Non posso credere che l’abbiano fatto».

    «Non puoi?»

    «Sì, va bene, posso, ma sono incazzato».

    «Uh-uh».

    «Pulirlo sarà una bella menata».

    «Credo di sì».

    Randy si voltò a guardarmi. «Odio quegli stronzi. Accidenti, non posso credere che sia scappato. Io e Shane gliela faremo pagare cara».

    Non dissi niente. Avevo già provato a spiegare a Randy tutte le fasi del ciclo della violenza, ma non gli entravano in testa. Non capiva, a quanto pareva, che se si fosse vendicato sui calciatori, loro avrebbero risposto. Gli avrebbe dato quello che volevano. Avrebbe alimentato quella stupida faida. Non sarebbe mai finita, se continuava a reagire.

    La logica non era il suo forte, per così dire. Randy era un tipo istintivo, alla prima agisci, poi pensa. Era uno dei motivi per cui l’amavo. Nel nostro caso, la storia degli opposti che si attraggono funzionava. A volte, però, l’impulsività di Randy era stressante, più che sexy.

    Fece un sospiro teatrale, poi si voltò verso di me.

    «Dunque», esclamò, con un sorrisetto malizioso sul volto. Piegò la testa, lasciando che i capelli biondo sabbia gli ricadessero sugli occhi. «Adesso che è tutto finito… dove eravamo rimasti?»

    «Eravamo rimasti», dissi, spingendolo via quando si avvicinò per baciarmi, «al punto in cui mi portavi a casa».

    «Cosa?». Randy si appoggiò allo schienale, con l’aria ferita. «Lissa, sono solo le dieci e mezzo».

    «Ne sono consapevole».

    «Senti, lo so che quell’idiota ha rovinato l’atmosfera, ma possiamo ricominciare. Non ti incazzare con me, per favore. Piuttosto, incazzati con lui, che ha tirato l’uovo».

    «Non sono incazzata. Sono solo… delusa».

    «Non è colpa mia».

    «È colpa vostra, di tutti e due».

    «Dài, Lissa. Cosa dovevo fare, secondo te?», chiese. «Ha lanciato un uovo sulla mia auto. Ha rovinato il momento. Magari ci stava spiando… ti stava spiando. Un bravo fidanzato non permetterebbe mai che un imbecille del genere la passi liscia».

    «Lui l’ha passata liscia», gli ricordai. «La passano sempre liscia. Che tu li rincorra o no, loro scappano. Quindi, non è inutile?».

    Volevo essere sincera con Randy. Aprirmi e dirgli quanto mi faceva soffrire lasciandomi sola a quel modo. Quanto mi faceva sentire insignificante e inutile. Era da tantissimo che stavamo insieme, ci amavamo: avrebbe dovuto essere una passeggiata dirgli la verità. Sfogarsi, finalmente.

    Ma tutto ciò che riuscii a dire fu: «Non mi sta bene che per tutto il campionato questa stupida rivalità debba venire prima di me».

    «Non viene prima di te, piccola».

    «Dimostramelo», ribattei.

    Randy rimase a fissarmi. Gli angoli della sua bocca ebbero un fremito, come se stesse per uscirsene con una frase carina, poi ci ripensò. I suoi occhi si illuminarono per un breve istante, prima che lo sguardo tornasse vuoto. Non poteva dimostrarlo.

    Mi voltai e ricominciai ad armeggiare con i pulsanti dell’autoradio. «Portami a casa e basta, va bene?»

    «Lissa», mormorò lui. Mi prese la mano, la allontanò con delicatezza dalla radio e se la portò alle labbra. Baciò le mie nocche, sussurrando: «Mi dispiace. Mi dispiace che quell’imbecille ci abbia rovinato la serata».

    Non era ciò per cui volevo si scusasse.

    «Ci credo».

    Le sue dita mi sfiorarono il polso, poi scivolarono sul braccio, fino alla spalla, e quando arrivarono al collo si fermarono. Mi posò la mano sulla guancia e mi girò la testa verso di lui. «Ti amo», disse.

    «Anch’io».

    Si avvicinò di nuovo, e questa volta gli permisi di baciarmi. Solo un bacetto leggero, rapido, non quello in cui sperava lui, ne ero certa.

    «Ancora convinta di voler andare a casa, vero?»

    «Sì».

    Randy scosse la testa, tastando il sedile posteriore alla ricerca della maglietta, con un sorrisetto sulle labbra. «Mi sorprendi sempre, Lissa Daniels. La maggior parte delle ragazze cederebbe subito davanti al mio sguardo da cane bastonato, con questi occhi stupendi».

    «Spiacente, a me piacciono i ragazzi. Non i cani. Ti saresti dovuto trovare un’altra, se volevi qualcuno da sottomettere al tuo volere».

    «Hai ragione», rispose lui, infilò la maglietta e girò la chiave, che era ancora inserita nel quadro. «Mi piacciono le ragazze che sanno mettermi in riga. Tu sei forte, intelligente, sexy e…».

    «E voglio ancora andare a casa», esclamai, con un sorriso dolce.

    «Sì, immaginavo. Ma questo non lo rende meno vero».

    Scossi la testa, e stavolta non riuscii a trattenere una risatina. «Oh, portami a casa e basta, ruffiano».

    In un attimo, la serata drammatica era quasi dimenticata.

    Quasi, ma non del tutto.

    Capitolo 2

    «Papà!», chiamai la sera seguente, scendendo le scale. «Dov’è Logan? Dovrebbe essere già a casa». Mi fermai sulla soglia a fissare mio padre. O, per la precisione, l’enorme ciotola di gelato che teneva sulle gambe.

    «Ciao, tesoro», disse lui, cercando di nasconderla dalla mia vista e fallendo miseramente. «Sono sicuro che Logan sia…».

    «Papà, cosa stai mangiando?»

    «Ehm…».

    Mi avvicinai e gli strappai la scodella dalle mani. «Non ci posso credere», esclamai, portandola in cucina. Mentre gettavo nel bidone i resti del variegato al cioccolato, alle mie spalle sentii il rumore della sedia a rotelle di papà che avanzava sulla moquette e girava l’angolo.

    «Oh, andiamo, Lissa».

    «Hai sentito quello che ha detto il dottor Collins. Devi stare attento alla dieta». Aprii il rubinetto e sciacquai la ciotola. «Devi perdere un po’ dei chili che hai accumulato dopo l’incidente, oppure avrai altri problemi di salute. E mangiare questa roba non ti sarà d’aiuto, papà».

    «Non sarà certo una ciotola di gelato a uccidermi», ribatté lui.

    «Questo non puoi saperlo». Presi un pezzo di carta e asciugai il piatto, voltandomi verso mio padre. La sua espressione mi provocò una piccola fitta di dispiacere. Era quella con cui pareva dire che, pur sapendo di aver torto, non voleva sentirselo dire.

    Cinque anni addietro, prima dell’incidente, non sarebbe stato un problema: grazie al lavoro nei cantieri e alla passione per lo sport, era in gran forma. Tutto era cambiato quella sera di gennaio in cui la sua auto era slittata sul ghiaccio, facendo sbandare lui e mia madre nell’altra corsia. E da quel giorno, era sempre rimasto sulla sedia a rotelle: anche dopo il funerale della mamma, con tutto quel cibo che nessuno era riuscito a toccare, e una volta iniziato il nuovo lavoro come consulente scolastico alle elementari, e persino quando aveva ricominciato a sorridere.

    Addio bicicletta. Addio calcio. Alcuni paraplegici avevano la possibilità di continuare, ma noi non potevamo permetterci carrozzine o bici speciali che l’avrebbero aiutato a rimanere attivo.

    Quindi, badare a loro era compito mio. A lui e a Logan. Da quando la mamma non c’era più, avevano bisogno di qualcuno che si prendesse cura di loro. La responsabilità, adesso, era mia, anche se a volte significava essere un po’ severa.

    «Be’, perché Logan non è tornato?», chiesi per la seconda volta, guardando l’orologio sul microonde. «Di solito, arriva alle cinque e trentadue in punto. È in ritardo di dieci minuti, quasi».

    Papà rise. A quel suono, i miei muscoli si rilassarono leggermente, nonostante il motivo del suo divertimento fosse la mia nevrosi.

    «Lissa, davvero ti stai stressando perché è in ritardo di meno di dieci minuti?», domandò papà.

    «Forse», confessai.

    «Allora non farlo», rispose papà, accostando la sedia a rotelle alla tavola. «Sono sicuro che arriverà prima di Randy. Randy viene a guardare la partita, vero?»

    «Sì», dissi, girandomi per rimettere la scodella in uno dei mobiletti sopra il lavandino. «Arriva alle sei».

    Randy veniva a casa mia ogni sabato sera. Prima, guardava lo sport su ESPN con papà, qualunque esso fosse, poi uscivamo per un paio d’ore, al termine delle quali Randy andava a casa. In un anno e mezzo che stavamo insieme, non aveva mai mancato un appuntamento. Neanche quando ero infuriata con lui.

    Sentii la porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva alle mie spalle. Mi voltai e andai in salotto, passando davanti a papà. «Dove sei stato?», chiesi a mio fratello, mentre slegava le sneakers e le lanciava sulla pila di scarpe accanto alla porta.

    «Ehm… al lavoro?», rispose Logan. «E dove, altrimenti?»

    «Sei in ritardo», esclamai.

    «Non è vero».

    «Sì, invece». Indicai l’orologio che portava al polso. «Guarda. Sei arrivato undici minuti dopo il tuo solito orario. Iniziavo a preoccuparmi…».

    «Lissa», mi interruppe mio fratello, mettendomi le mani sulle spalle in un modo così mortificante da farmi venire voglia di gridare. «Rilassati. Mi sono fermato a parlare con il capo alla fine del turno».

    «Di cosa?»

    «Tu non preoccuparti», rispose lui, dandomi un buffetto sulla guancia e passando oltre per andare in cucina. «Vi va di ordinare la pizza? Se viene anche Randy ce ne vorrà una grande, giusto?».

    Gli lanciai un’occhiataccia e mi chinai per sistemare la pila di scarpe sul pavimento. Perché Logan non poteva darmi una risposta, semplicemente? Odiavo quando mi trattava come una bambina. Avevo dieci anni meno di lui, ma non ero una poppante… per lui dieci minuti non significavano niente, magari, invece in dieci minuti poteva accadere qualsiasi cosa. Avevo il diritto di preoccuparmi.

    Per uccidere la mamma, c’erano voluti meno di trenta secondi.

    «Lissa!», gridò lui dalla cucina. «Che pizza vuoi? La ordino adesso».

    Mi alzai in piedi, avevo allineato tutte le scarpe ed ero felice che almeno un angolo della casa fosse in ordine. «Salsiccia e prosciutto. Ma papà deve mangiare l’insalata».

    «Oh, andiamo!», sentii che si lagnava papà, mentre Logan rideva e iniziava a dettare l’ordine al telefono.

    Dalla finestra del soggiorno vidi la Buick di Randy che imboccava il vialetto. Giusto in tempo. Era una delle cose che mi piacevano di più di lui: era sempre puntuale, a differenza di mio fratello.

    Gli aprii la porta, stava salendo i gradini all’ingresso. «Ciao, piccola», disse, chinandosi a baciarmi.

    Lasciai che le sue labbra sfiorassero le mie per un attimo, prima di scostarmi.

    «Ancora arrabbiata?», domandò.

    «Non arrabbiata. Delusa, ricordi?».

    Randy mi accarezzò il braccio con le dita e abbassò la voce per evitare che papà e Logan sentissero. «Se mi lasci fare, ti farò ricredere».

    Lo spinsi via, tutto il mio corpo si irrigidì. «Sicuro che non sarai troppo impegnato a pulire il parabrezza?»

    «Non sono mai troppo impegnato per te, piccola».

    «Ieri sera lo eri».

    Lui piegò la testa di lato, sbattendo le ciglia lunghe e perfette. «Mi perdonerai. So che lo farai».

    «Vedremo». Volevo prenderlo in giro, invece mi uscì un tono freddo.

    «Mi perdoni sempre!», disse lui, voltandosi indietro mentre andava in cucina.

    Scossi la testa: sapevo che aveva ragione. Lo perdonavo sempre, ed ero certa che avrei continuato in futuro. Me ne resi conto quando entrò in cucina. Quando mio padre gli sorrise. Quando Logan gli dette una pacca sulla spalla. Avrei sempre perdonato Randy perché faceva parte della mia famiglia. Ne aveva fatto parte sin dal primo momento in cui l’avevo portato a casa.

    Lì, mentre li guardavo dalla soglia della cucina, capii che mi ero innamorata di Randy quella sera stessa, quando era andato da mio padre e gli aveva stretto la mano, come se non avesse neppure notato la sedia a rotelle. Rendeva felici i miei famigliari, e dopo tutto quello che avevamo passato negli ultimi anni, vederli sorridere così… be’, rendeva felice anche me.

    Mi sforzai di rilassarmi, di sciogliermi un po’. Entrai e andai a sedermi accanto a Randy al tavolo. Non era il caso di stare sulle spine. Né con la mia famiglia, né con Randy.

    «Allora, com’è iniziata la stagione?», chiese Logan, sedendosi davanti a Randy. «Quegli stronzi dei calciatori vi stanno già rendendo la vita un inferno?»

    «Sì». Randy sospirò, alzò la sedia su due gambe e incrociò le braccia dietro la testa. «Non importa, presto renderemo loro il favore».

    Mi mordicchiai un labbro. «Randy, puoi mettere giù la sedia, per favore?», chiesi. «Così cadrai… e rovinerai la sedia».

    «Sì, signorina Daniels», rispose lui, alzando gli occhi al cielo e rimettendo tutte le gambe sul pavimento. «Ma sei preoccupata per me o per la sedia?»

    «Mi appello al quinto emendamento».

    Randy fece una smorfia scherzosa, come se gli avessi spezzato il cuore.

    «Quando facevo l’ultimo anno», disse Logan, ignorando il fatto che avessi di proposito cambiato argomento, «abbiamo infilato a tutte le matricole della squadra di calcio la testa nel water del bagno dei maschi».

    «Roba da sfigati». Randy si sporse in avanti, sogghignando. «Abbiamo un piano per domani sera…».

    «Di cui tu non farai parte», sbottai, non riuscendo a trattenermi. Randy, mio padre e Logan si voltarono a guardarmi. «Non credo che dovresti farti coinvolgere in certe storie, Randy. Sono stupide. Che razza di scuola ha due squadre che si fanno la guerra fra di loro? E poi, che succede se qualcuno si fa male?»

    «Oh, andiamo, Lissa», disse mio fratello, in tono di scherno. «Non c’è niente di male. Non è niente di che».

    «Forse quando tu eri alle superiori, ma da allora la situazione è peggiorata. L’anno scorso, in questo periodo, Randy e i suoi compagni del football hanno spaccato tutti i finestrini all’auto del portiere della squadra di calcio. Avrebbero potuto cacciarsi in un bel guaio», lo informai, poi tornai a rivolgermi al mio ragazzo. «Tu non parteciperai, vero? Lascia fare a Shane e agli altri, se sono davvero così idioti, non c’è bisogno che tu ti unisca a loro».

    Randy esitò per un secondo, spostando lo sguardo da me a Logan.

    Gli lanciai una bella occhiataccia. Un muto avvertimento di cosa sarebbe potuto succedere se non mi avesse dato retta.

    «Va bene», disse lui. «Non parteciperò».

    «Giura».

    «Giuro».

    «Come sei rigida, Lissa», borbottò Logan.

    «Lasciala stare», intervenne papà. «Si prende cura delle persone. È dolce».

    Dolce, pensai, amareggiata, e in quel momento, alle mie spalle squillò il campanello. Mi trattavano proprio con sufficienza. Come se fossi una bambina troppo sensibile. Non riuscivano a capire quanto fosse ridicola la rivalità? Non capivano che, se continuavano a reagire, sarebbe andata avanti per sempre? Il calcio, il football… erano solo giochi. Non esisteva uno sport degno di farne una tragedia.

    Andai in soggiorno per rispondere alla porta. Il ragazzo delle consegne mi porse una pizza grande e l’insalata di papà. Dalla cucina mi arrivò il suono delle risate e dei brindisi, i ragazzi stavano parlando della partita che avrebbero guardato quella sera. Si misero a scommettere su chi avrebbe vinto, e l’argomento delle torture alle matricole fu abbandonato e dimenticato.

    Non parlammo più della faida fra le due squadre, fino a più tardi, quando io e Randy ci sedemmo sugli scalini del portico. La partita era finita, e mio padre e Logan erano già andati a letto.

    «Mi dispiace per ieri sera», disse lui, piano, circondandomi le spalle con un braccio e tirandomi a sé. «Mi dispiace che siano spuntati quegli stronzi a rovinare tutto».

    Fui costretta a soffocare un sospiro di frustrazione. Non aveva ancora afferrato. Non aveva capito che ero arrabbiata per il fatto che era corso via lasciandomi da sola, non perché un tizio aveva lanciato un uovo sulla sua auto. Ma almeno ci stava provando, credo.

    «Shane ha un piano per vendicarci», proseguì. «Un buon piano».

    «Tu non lo aiuterai, però», ribadii. «Lo so che forse non avrei dovuto rimproverarti davanti a Logan e papà, ma dico sul serio. Non voglio che ti lasci coinvolgere in questa storia».

    Randy mi rivolse uno sguardo disperato. «Se mi tiro indietro, Shane e i ragazzi mi renderanno la vita impossibile».

    «Oh, se la prenderanno con te, piccolino?», domandai. «Devo chiamare i loro genitori?»

    «Dico sul serio», rispose lui. «Mi chiameranno femminuccia».

    «Se li aiuti, invece, io ti chiamerò stronzo. Quindi, qualsiasi cosa tu faccia, non te la passerai benissimo». Gli sorrisi. Finalmente, ero abbastanza tranquilla da scherzarci su. Mi ci era voluta tutta la sera. «Shane e i ragazzi ti punzecchieranno per un po’, ma pensi che quello che potrei farti io sia meglio?».

    Randy mi fissò per un attimo. «Cosa mi faresti?»

    «Ovviamente, non posso dirtelo. Rovinerei la sorpresa». Gli puntai un dito nel petto. «Ma posso dirti che non è questa cosa qui». Mi guardai intorno per assicurarmi che non ci fossero auto in arrivo, né vicini affacciati alle finestre, che nessuno ci vedesse. Poi, con fare malizioso, mi avvicinai e premetti le labbra sulle sue. Il bacio fu lungo e infuocato, ma prima di spingermi troppo oltre mi ritrassi, lasciando Randy con un’espressione sbalordita e affamata sul viso.

    In compenso, le mie guance erano paonazze.

    «Scommetto che Shane non è così bravo», dissi.

    «Forse sì. Non puoi saperlo».

    «Come fai a dire che non lo so?».

    Randy sbatté le palpebre, e io scoppiai a ridere. «Scherzavo. Non uscirei mai con Shane. Sei l’unico uomo di Neanderthal che sopporto».

    «Grazie, ne sono lusingato».

    Lo baciai sulla guancia e appoggiai la testa sulla sua spalla. «Però dico sul

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