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Anima ribelle
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E-book290 pagine3 ore

Anima ribelle

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Info su questo ebook

West Larson è ricco di famiglia, quel tipo di ricchezza che va a braccetto con aspettative e tradizioni arcaiche. Quindi, le condizioni del suo fondo fiduciario non sono poi tanto sorprendenti: produrre un erede prima di compiere venticinque anni.

Stacia vive la sua vita al massimo. L’idea di sistemarsi non le passa proprio per la testa. Quindi, quando un amico di lunga data le chiede di avere il suo bambino, la risposta immediata è un deciso no, con imprecazioni annesse! Sul serio, è impazzito?
West la corteggia senza sosta e, a ogni focoso incontro, Stacia si ritrova a innamorarsi sempre di più del suo fascino e della sua sagacia. Oh, per non parlare dei suoi avambracci…
Obblighi. Lussuria. Amicizia. Amore.
I confini iniziano a scomparire quando entrano in gioco le emozioni: d’altra parte, sanno tutti che non è possibile tenere a bada un’anima ribelle.
 
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2024
ISBN9791220708005
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    Anteprima del libro

    Anima ribelle - LK Farlow

    1

    WEST

    «M a… non può essere…» Smetto di camminare e guardo di nuovo il foglio davanti ai miei occhi. Devo aver letto male, perché porca di quella puttana, questa è una stronzata bella e buona, e io sono un esperto di stronzate. Chiunque ricopra la mia posizione – broker di giorno e sviluppatore di un’app di porno virtuale di notte – deve esserlo. Dalla sala riunioni alla camera da letto, praticamente le stronzate sono il mio pane quotidiano.

    …a condizione che produca un erede entro i venticinque anni. In caso di inadempienza il fondo verrà revocato e con esso qualsiasi diritto riguardante la proprietà…

    Il mio sguardo si sofferma su quel punto in particolare, più volte. Cavolo, poteva anche cerchiare, evidenziare e scrivere in grassetto quelle parole, oppure disegnarci delle frecce che le puntano. Mio nonno era uno stronzo ripugnante che adorava mettere la gente nei casini. Era un burattinaio e trattava tutti come delle marionette. E ora, eccolo qui, a controllare la mia vita anche da due metri sottoterra. Chissà se Brock è sulla stessa barca… e con questo intendo in un mare di merda senza neanche una cazzo di pagaia.

    «Sul serio?» chiedo a Colton – il mio avvocato – con un sopracciglio inarcato, aspettandomi che mi dica che è tutto uno scherzo. Ha solo qualche anno più di me, ma è furbo come una volpe e, in un mare di squali, è una murena: piccolo, senza pretese, ma molto aggressivo se provocato.

    «Purtroppo, sì. E a prova di bomba, aggiungerei.» Colton mi comunica la notizia con voce piatta, come se fossimo due estranei che parlano del tempo e non amici di lunga data.

    Per la quarta volta in pochi minuti, leggo il testamento di mio nonno con mani tremanti. So che negli anni la mia famiglia ha fatto una serie di cazzate, ma questo… sì, questo vince sicuramente il primo premio. «Quanto a prova di bomba?»

    «Corazzato.» Il fatto che sia così diretto mi fa capire che la questione è molto seria. Di solito Colton mi parla in avvocatese, rimane sul vago e si rifiuta di fare dichiarazioni palesi. Tuttavia, ora non mi sta parlando solo come mio avvocato, ma come uno dei miei più fidati amici.

    Mi sembra che le pareti dell’ufficio si chiudano intorno a me e riprendo a camminare avanti e indietro; il morbido tappeto di pelle di pecora che ricopre la maggior parte del pavimento davanti alla scrivania cede sotto i miei passi. Non disposto ad accettare la sconfitta, vado alla libreria sulla parete più lontana. Faccio vagare lo sguardo sul dorso dei libri, alla ricerca del titolo a cui sto pensando. «Non può essere legale.» Giusto? Voglio dire, nel mio ambito lavorativo, la legalità ha un’importanza enorme e questa faccenda mi sembra alquanto losca.

    Colton attraversa la stanza e mi ferma con una mano pesante sulla spalla. «Sì e no.»

    Ruoto su me stesso. «Spiegati meglio.»

    Si passa una mano sulla barbetta. «Nei testamenti e nei fondi fiduciari vengono scritte cose che nel mondo reale sarebbero considerate da pazzi; è per questo che sono molto interessanti.»

    «Interessante non è la parola a cui stavo pensando,» borbotto, strattonandomi il colletto della camicia; poi mi dirigo verso il carrello portavivande all’angolo. Mi verso un bel bicchierino di scotch e lo trangugio in un sorso solo, godendomi il bruciore che lascia al suo passaggio.

    «Ti rendi conto che hai appena buttato giù quel Glenlivet di malto singolo come un universitario determinato a stordirsi?»

    Inarco un sopracciglio. «E quindi?»

    Colton sbuffa: «Quindi, quella bottiglia costa più di tutti gli studi di suddetto universitario. Rispettala.»

    Alzo gli occhi al cielo. «Sei insopportabile.» E comunque mi verso solo altre due dita, perché non voglio farlo imbestialire… lo stronzetto ci tiene allo scotch e almeno uno di noi deve rimanere lucido.

    «Mi ami, ammettilo,» mi sfida, buttandosi sul morbido divano di velluto blu al centro della stanza. «Versamene uno e siediti.»

    Faccio come dice, poi richiudo la bottiglia e mi unisco a lui. Restiamo seduti in silenzio, ma la mia mente sfreccia come una vettura di Formula 1. Sono attraversato da una serie di emozioni: shock, rabbia, frustrazione, disperazione, rabbia, incredulità, tristezza, paura, rabbia… Ho già detto rabbia?

    «Sembra che ti abbiano condannato a morte.»

    Mi sfugge un lamento, chiudo gli occhi e appoggio la testa sul divano, nella mia mente la visione di una moglie rompiscatole con in braccio un neonato in lacrime, il ritratto della tristezza domestica. «È come se lo fossi. Ho ventiquattro anni, sono nel fiore degli anni. Non voglio una moglie o…»

    Colton mi ferma con un verso. «Chi ha parlato di una moglie?»

    Muovo la testa di scatto e spalanco gli occhi. «Cosa?»

    Lui scrolla le spalle, con un luccichio calcolatore negli occhi azzurri. «È richiesto un erede, non una moglie.»

    Mi sporgo in avanti. «Aspetta un attimo… Mi stanno chiedendo di avere un figlio illegittimo?»

    Colton inarca un sopracciglio. «Non credevo che ti avrebbe dato tanto fastidio una clausola contrattuale che ti obbliga a fare sesso.»

    «Di solito non mi serve firmare un contratto per fare sesso,» borbotto sottovoce, poi scolo il mio drink.

    Giuro su Dio, se stesse accadendo a chiunque altro, lo troverei esilarante. Ma non è così. Qui si tratta di me. Sposto gli occhi sulla scrivania, dove è posato quel cazzo di foglio, le parole già marchiate a fuoco nel mio cervello. Un figlio al di fuori del matrimonio? Poco lungimirante. Comunque, se voglio la tenuta Cottonwood – il posto in cui risiedono tutti i miei bei ricordi d’infanzia – devo sfornare un erede.

    «Okay, quindi, ricapitolando. I fogli sulla mia scrivania dichiarano che devo mettere incinta una donna qualunque prima del mio prossimo compleanno, ma non che devo sposarla?»

    Un sorriso calcolatore compare sulle labbra di Colton. «Esattamente.»

    Ho capito quello che ha detto, ma il mio cervello… il mio cervello proprio non riesce a processarlo. Uno dei fratelli di mio padre – basta sapere che non l’ho mai incontrato – ha avuto un figlio fuori dal matrimonio e si è rifiutato di sposare la ragazza: è stato disconosciuto, diseredato e accusato di aver mandato in disgrazia il nome dei Larson. Una puttanata enorme, considerato che l’altro fratello di mio padre picchiava il figlio e abusava verbalmente della moglie. Nonostante ciò, mio nonno non ha fatto nulla per segare il suo ramo dall’albero genealogico nel tentativo di cancellare il cosiddetto marchio nero che ha lasciato. E comunque, eccoci qui… con dei documenti validi che mi spingono ad avere un bastardo. Ma che cazzo…

    «Devo bere.»

    Colton abbassa lo sguardo sul tumbler che ho in mano, con espressione scettica. «Hai già bevuto. Due bicchieri.»

    A vederlo così distaccato, muoio dalla voglia di alzare gli occhi al cielo, ma riesco a trattenermi. «Riformulo. Voglio uscire a bere. In un bar. Circondato da studentesse vestite in maniera succinta con passere strette e larghe vedute. Non si sa mai…» Sorrido beffardo. «Potrei anche incontrare la mia mammina

    Colton, invece, non si trattiene e i suoi occhi vanno quasi a finire sul retro del cranio. «Come tuo avvocato, devo dirtelo… è un’idea tremenda.»

    Mi alzo e vado alla porta. «E come amico?»

    Si alza e mi segue, prendendo le chiavi dalla tasca. «Come amico, dico… andiamo a farti sbronzare, figlio di puttana. Mi offro anche come autista.»

    Mi passa accanto, diretto alla porta, e battiamo il pugno. «Evvai! Il mio avvocato può andare a farsi fottere.»

    Due ore dopo, sono ubriaco fradicio, circondato da un mix eclettico di donne, con Colton sobrio e lucidissimo al mio fianco. Ci sono una bionda piena di Botox che si struscia sul mio pacco al ritmo del basso che risuona dagli altoparlanti, una rossa da far paura appiccicata al fianco che mi sussurra cose sconce all’orecchio e una tentatrice dalla pelle d’ebano che balla davanti a me e sazia il mio sguardo con le sue curve formose. Potrei benissimo portarmi a casa una di queste donne… cavolo, probabilmente anche tutte e tre.

    Ma non lo farò.

    Forse è la consapevolezza di dover mettere incinta qualcuna – cosa che mi impegno attivamente per evitare dall’inizio della pubertà – ma, anche in questo ricettacolo del peccato, carico di alcool e perdizione, la mia libido sembra essersi presa la serata libera. Senza menzionare il fatto che Colton manderebbe tutto all’aria in un battito di ciglia.

    O magari è il fatto che chiunque metterò incinta sarà una persona con cui dovrò avere a che fare per il prossimo… per sempre. Già, questa da sola è una ragione più che sufficiente per un po’ di discrezione. Il che significa che il mio uccello non entrerà in azione nel prossimo futuro, almeno non finché non avrò trovato una mammina accettabile.

    Cazzo. Questo pensiero è deprimente. E mi fa passare la sbornia. Tanto da spingermi ad allontanare la bella bionda che mi si strusciava addosso. «Andiamo,» abbaio. Lei sorride entusiasta, leccandosi le labbra rosso sangue e osservandomi. «Non dicevo a te. Colton.»

    Fa una smorfia dispiaciuta e sento una fitta di senso di colpa attanagliarmi il cuore. Almeno finché non la vedo puntare il prossimo stupido vestito elegante, con le due amiche a carico.

    «Andiamo,» risponde Colton. Paga il nostro – anzi, il mio – conto e mi accompagna alla sua auto. «Iniziavo a preoccuparmi che decidessi di portare Barbie e le sue amiche a casa con te.»

    Scrollo le spalle, ma quel movimento mi fa perdere l’equilibrio e barcollo. «Cazzo, no. Era sexy, ma non tanto da avere il mio bambino.» Colton mi fa accomodare al posto del passeggero sulla sua BMW M8 Coupe. Sono ubriaco marcio, ma la realtà mi colpisce con un colpo secco. «Colt, amico mio, che cazzo devo fare?»

    Chiude lo sportello senza rispondere e fa il giro fino al sedile del guidatore, poi scivola dietro il volante. «Stasera? Non c’è niente che puoi fare. Dormi. Domani ci mettiamo al lavoro.»

    Annuisco, anche se non l’ho nemmeno ascoltato. Sento un fischio nelle orecchie e ho la vista offuscata. Gli eventi di oggi mi piovono addosso, e non una pioggerellina con il sole, no. È un uragano di categoria cinque.

    2

    WEST

    La suoneria associata a mio padre – perché, sì, una chiamata da parte sua richiede uno speciale avvertimento – mi strappa al mio torpore. Il suono squillante, insieme ai raggi del sole che penetrano dalle tende aperte, mi provocano un lamento.

    Lentamente, cerco di mettermi seduto, ma anche quel semplice movimento mi manda una scarica di dolore al cervello. Cazzo. Ricado sconfitto sul cuscino e rovisto sul comodino alla ricerca del cellulare. Ma quand’è che l’ho messo sulla stazione di ricarica? Finalmente, dopo qualche vano tentativo, prendo il dispositivo e me lo appoggio sulla faccia. «Sì, padre,» gracchio, la voce rauca dopo la serata passata a bere.

    «Weston,» abbaia mio padre al telefono; la sua voce è piacevole come calpestare i Lego. Da quello che ho sentito, non dev’essere bello. Ma se voglio avere accesso alla proprietà di mio nonno – e lo voglio senza dubbio – mi sa che lo proverò molto presto sulla mia pelle. Cazzo… a che età giocano con i Lego i bambini?

    «Sì, padre?» soffoco a malapena un sospiro.

    «Tua madre mi ha chiesto di invitarti a cena a casa questa sera.» Fa una pausa prima di aggiungere: «La cena sarà servita alle cinque. Vestiti in modo appropriato e, per l’amor del cielo, sii puntuale.» E con puntuale, intende in anticipo.

    «Sì, padre.» Il silenzio all’altro capo mi comunica che ha già chiuso la chiamata. Assurdo, un’intera conversazione in cui pronuncio le solite due parole.

    Il resto della giornata passa troppo in fretta, in un vortice di bibite ricche di elettroliti, carboidrati e medicinali per il mal di testa. Ho anche dormito fino a mezzogiorno, quindi potrebbe essere quello. La conclusione è comunque sempre la stessa: non passa abbastanza tempo tra la sveglia indesiderata e la mia convocazione… voglio dire, la cena di famiglia.

    Alle tre e mezzo, prendo il cellulare e le chiavi dal bancone, e scorro le notifiche nel tragitto fino alla macchina. Proprio quando sto per mettere il telefono in tasca, questo vibra con un messaggio in arrivo.

    Colton: Sopravvissuto?

    Io: Ah ah, divertente.

    Colton: Ehi, non prendertela con me, sto solo controllando come stai.

    Io: Sto bene. Grazie per ieri sera.

    Colton: Quando vuoi, amico. Fissiamo un appuntamento per lunedì per discutere meglio della bomba di ieri e delle inevitabili conseguenze?

    Io: Dimmi solo dove e quando.

    Colton: Quindi lo dico a Margaret.

    Io: Bravo, lo sai.

    So che mi manderà almeno un altro paio di messaggi, ma devo mettermi in strada se voglio evitare che mio padre mi rimproveri per il ritardo.

    Il tragitto da casa mia a quella dei miei è tranquillo, ma non appena compaiono le vistose pareti di mattone e il cancello di ferro, inizia a martellarmi il cuore nel petto e mi si imperla la fronte di sudore. Detesto che a ventiquattro anni la sola vista di questa casa mi scateni una reazione così viscerale, probabilmente perché sono consapevole degli orrori che si nascondono tra le sue mura. È vero, i miei genitori non hanno mai alzato le mani su di me, ma non mi hanno mai neanche cresciuto. Per loro ero una decorazione, non più importante di un’opera d’arte o di un vaso. Se non ci fossero stati i domestici a prendersi cura di me, è probabile che sarei morto di fame prima di compiere due anni.

    Mi fermo sul vialetto lastricato e mi faccio forza intanto che il cancello si apre. Da fuori non sembra mancare nulla. Giardini ben progettati, mattoni pulitissimi, vetri delle finestre immacolati e un ingresso accogliente… peccato che sia tutta una farsa. All’interno è tutto freddo come una cazzo di cripta.

    Dopo un breve discorso di incoraggiamento, lascio la sicurezza della mia Mercedes e mi dirigo alla porta. Busso due volte e attendo, con la schiena dritta, le spalle indietro e la testa alta, mostrando un’aria di sicurezza che non provo davvero.

    Passano alcuni secondi prima che la guardiana della cripta in persona risponda alla porta. Trattengo lo shock nel vedere Prissy Larson fare qualcosa che considera al di sotto della sua posizione sociale. Mi chino e avvicino le guance alle sue. «Madre.» Entro. Questa casa è stata personalizzata, dalle fondamenta al tetto, senza badare a spese, ma quello che hanno azzeccato è il colore delle pareti: un color carbone scuro che si abbina alla perfezione ai cuori e alle anime dei suoi proprietari. «Hai dato il giorno libero a Eliza?» chiedo, domandandomi dove sia la domestica.

    Mia madre schiocca la lingua. «Sua nipote è malata. Anche se non capisco perché questo dovrebbe impedirle di lavorare.»

    Stringo i pugni lungo i fianchi. «Sua nipote vive con lei,» le ricordo. Non riesco a capacitarmi del fatto che non lo sappia: Eliza cresce quella bambina dal suo primo compleanno, quando è morta la madre, ed è successo dieci anni fa.

    «Oh, sì, certo,» risponde mia madre, passandosi le mani sulla gonna. «Stasera ceniamo fuori visto il bel tempo.»

    «Fantastico,» rispondo, anche se se ne sta già andando.

    La seguo attraverso la casa immacolata e fino in cortile. Anche qui, è tutta una dimostrazione di stato sociale, dal terrazzo in travertino all’enorme piscina con tanto di cascata. Cavolo, non ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che qualcuno ha osato intingere un dito in quell’acqua cristallina, riscaldata per avere sempre la temperatura ideale.

    Notando la mia presenza, mio padre fa la solita scenetta, guardando prima me e poi l’orologio. «West, carino da parte tua unirti a noi.»

    Lui e mia madre sono vestiti in modo impeccabile; sembra che stiano per partecipare a un derby più che a una cena in casa e, da brava marionetta, anche io ho indossato il mio completo della domenica, con tanto di papillon e tutto il resto. Anche perché una cena sul terrazzo è un affare di Stato per Roland e Prissy Larson.

    «Mi fa piacere essere qui,» mento diligentemente, interpretando la parte del bravo figliolo anche se non c’è nessuno ad assistere allo spettacolo.

    I lineamenti aristocratici di mio padre sono graziati da un compiaciuto sorriso vittorioso. «Vieni, siediti. Abbiamo tanto di cui parlare.» Si siede al suo posto a capotavola, senza preoccuparsi di tirare fuori la sedia di mia madre. Stronzo. Compenso alla sua mancanza di cavalleria prima di sedermi di fronte a lei.

    Teatrale come sempre, mio padre impiega un sacco ad arrivare al punto. Ma io e mia madre lo conosciamo abbastanza bene da non parlare prima di lui. Invece, mi permetto di divagare. penso al testamento, al lavoro, alle donne di ieri sera, pensieri casuali che mi passano per la testa veloci come un lampo.

    Finalmente, dopo quello che mi sembra un’eternità, mio padre parla, con tono compiaciuto quanto il sorriso sul suo volto: «Presumo che tu abbia letto il testamento?»

    È alla ricerca di una reazione; vuole disperatamente vedermi arrabbiato e triste per banchettare sulla mia sconfitta. Il coglione è un demonio che si nutre della tristezza degli altri.

    Sono determinato a non dargli quello che vuole… mai. Mi sforzo di mantenere un’espressione impassibile e annuisco. «Sì.»

    La sua espressione resta calma, distaccata, ma la vena che gli pulsa sulla fronte è una chiara prova della crescente irritazione. «E…?»

    Scrollo le spalle. «E, cosa? Volevi sapere come ti chiamerà il nipotino? Pensavo nonnino, ma sono sicuro che per te sarebbe troppo informale.» Mi batto un cinque mentale quando lo vedo serrare i denti. Questa conversazione è una partita di battaglia navale e sono determinato ad affondarlo. «Sei più il tipo da signor nonno…» Lascio cadere il discorso, come se avessi pensato ad alta voce e non gettato di proposito altra benzina sul fuoco.

    «Di sicuro non intendi…» inizia mio padre, ma lo interrompo subito.

    «Oh, assolutamente sì. A dire il vero, ho già iniziato a cercare appropriate… candidate.»

    Accade di rado, ma è uno spettacolo da non farsi scappare quando Roland Larson perde la sua compostezza e, in questo momento, sembra che proprio stia per esplodere. «Vuoi dirmi che hai intenzione di sposarti e produrre un erede prima del tuo prossimo compleanno?» La voce è tesa mentre si porta alle labbra un bicchiere di whisky.

    Faccio un sorrisetto, perché so che sto per farlo esplodere: «Oh, no, padre. Non ho intenzione di sposarmi. Credevo che tu avessi letto il testamento. Devo solo mettere incinta una ragazza.»

    Mi lancia il tumbler di cristallo addosso, ma io lo schivo appena in tempo e quello si sfracella contro il muro. Pazzo di un figlio di puttana. «Hai messo in imbarazzo questa famiglia già abbastanza! Non me ne starò a guardare mentre peggiori la situazione con un bastardo!» sibila mio padre, sfuriando dentro casa, diretto senza alcun dubbio nel suo studio per rileggere il documento in questione. Non gli piacerà quello che troverà. Mia madre si affretta dietro di lui, pronta e disposta a subire il suo malcontento.

    Io resto seduto. La prima portata dovrebbe essere servita a breve. Per quanto sia tremendo stare in questa casa, ne vale quasi la pena per i piatti che prepara la signora Zelda.

    Controllo l’orologio e, come previsto, allo scoccare dell’ora, la porta finestra si apre ed esce un cameriere. Mi mette il piatto davanti e mi viene l’acquolina in bocca. «Ravioli di zucca con burro nocciola e rosmarino. Buon appetito.»

    Mi volto per ringraziarlo, ma sta già correndo dentro casa, senza dubbio terrorizzato all’idea dell’ira di mio padre. Roland Larson si impegna a non essere mai amichevole con i suoi dipendenti. Che sia a casa o in ufficio, è fermamente convinto di non doversi abbassare a ringraziare qualcuno per dei servizi che paga per avere. Come ho già detto, è uno stronzo.

    Senz’altro da fare, affondo la forchetta nel piatto davanti a me. I

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