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Blu paonazzo: Furti, amori e crimini sotto le cupole del Santo al tempo di Donatello a Padova
Blu paonazzo: Furti, amori e crimini sotto le cupole del Santo al tempo di Donatello a Padova
Blu paonazzo: Furti, amori e crimini sotto le cupole del Santo al tempo di Donatello a Padova
E-book268 pagine4 ore

Blu paonazzo: Furti, amori e crimini sotto le cupole del Santo al tempo di Donatello a Padova

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Info su questo ebook

Donatello arrivò a Padova, da Firenze, alla fine del 1443. Il doge di Venezia Francesco Foscari, il signore di Firenze Cosimo de’ Medici, la famiglia di Erasmo da Narni, avevano richiesto il suo intervento per eseguire una tomba nella basilica di Sant’Antonio di Padova, destinata ad accogliere il corpo di Erasmo, capitano generale delle armate veneziane. Nella città, sottomessa a Venezia da circa quarant’anni, lo scontento della nobiltà contro la dominatrice lagunare serpeggiava e nella basilica di Sant’Antonio, divenuta luogo di frequentazione abituale per Donatello, un furto sacrilego scosse l’animo della comunità dei frati e dei padovani tutti, legatissimi a quella chiesa. Chiacchiere, sospetti, altri furti sacrileghi contribuirono a creare un clima di sospetti e ricatti, che coinvolsero anche Donatello. Solo nel 1453 la trama contorta trovò soluzione, ma a pagare un prezzo pesante non furono solo i colpevoli.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita26 mar 2018
ISBN9788863364477
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    Anteprima del libro

    Blu paonazzo - Giovanna Baldissin Molli

    IL TEMPO PASSATO

    Bovolenta, a sud di Padova,

    convento di San Francesco, agosto del 1447

    Rane, rane, insopportabili rane, stridule e viscide: quel gracidare continuo, fragoroso nella quiete del tramonto del chiostro francescano di Bovolenta, ricordava a Donatello la lagna di tanti Padovani appiccicosi, dal birignao slargato e petulante:

    Eo, eo messer Donato, magister, Magnificenza Sua lo volse qui.

    Non era stato proprio Sua Magnificenza, il capitano generale Stefano da Narni, comandante dell’esercito veneziano, ad aver chiamato Donatello da Firenze, ad aver convinto Cosimo de’ Medici a lasciar partire l’amico, l’artista amato e stimato, per quella Padova scontrosa, sbalordita per la perdita della libertà, ancora convinta di potersi scrollare di dosso il leone conquistatore, odoroso di salmastro, che campeggiava sui vessilli della Serenissima Repubblica di Venezia. Ma certo Stefano da Narni aveva avuto larga parte nella responsabilità della chiamata di Donatello nella città, non tanto in vita, quanto in morte.

    In quella Padova di metà Quattrocento Donatello era arrivato portando con sé qualche attrezzo per scolpire, i ferri più cari, quasi prolungamenti delle sue mani. Aveva portato un carico d’anni ormai di una certa consistenza, e ancora fama, celebrità, l’affetto caldo di Cosimo de’ Medici, il suo signore fiorentino che lo aveva sempre appoggiato e sostenuto.

    Aveva recato, in quella Padova scossa dalle violenze e dai soprusi dei Veneziani, quel suo modo di scolpire, così diverso da quanto, fino a quel momento, si vedeva in giro. Erano statue, le sue, tanto reali nei contenuti quanto capaci di trasfigurare gli aspetti del mondo naturale in una qualità più alta, bella, gentile, forte e ornata, misurata e insieme libera di accedere a nuove dimensioni di vita, tanto slegata dalle miserie umane quanto in grado di rivestirle di nuovi significati, di renderle degne e onorate, in grado di celebrare vita e morte.

    Appunto: questo era stato l’incarico affidatogli, la celebrazione di una morte, quella di Stefano da Narni, un guerriero accorto, di fedeltà provata, un generale capace anche di comandare il ritiro delle truppe per non rischiare la distruzione del suo esercito. Un uomo, insomma, di reputazione ampia e condivisa, di vita onorata, che aveva avuto responsabilità non da poco, difendendo il confine occidentale dello Stato di Terraferma di Venezia: verso Verona e Brescia, e lungo le sponde del lago di Garda.

    Donato non aveva conosciuto direttamente Stefano da Narni: lo aveva casualmente incrociato una volta a Firenze, dove Stefano era passato, verso il 1437, per controllare i suoi conti e le sue finanze, affidate alla gestione dei banchieri Medici.

    In buone mani si era messa Firenze: mani di banchieri, prestatori di denaro… capaci di scivolare su chine pericolose, per troppo potere ed eccesso di vanagloria. Ma il suo signore, Cosimo, non era così, e Donato andava ricordando gli anni fiorentini, visti ora, a tre anni di lontananza dalla patria, come un tempo infinitamente lontano e diverso e ne rimpiangeva il clima, la lingua, la bellezza di quelle strade sempre troppo piene di gente pronta ad accalorarsi per nulla. Era sfuocato anche il ricordo di Stefano da Narni, a cavallo, in visita a Firenze, allora traboccante di gente e cose mirabili.

    C’era a quel tempo in città Sua Santità Eugenio IV, il papa veneto Condulmer, che aveva scelto Firenze quando Roma era diventata pericolosa, spartita tra le arroganti famiglie di quella nobiltà.

    Non che Firenze fosse meno litigiosa: ma lì si risolveva tutto in modo più spiccio, ci si insultava, ci si scannava e si spedivano, volta per volta, i nemici in esilio. Ora questi, ora quelli, in un gioco di alleanze infide e di voltafaccia improvvisi. Anche Cosimo de’ Medici era stato bandito: ma a Padova e a Venezia, dove aveva trascorso i mesi dell’esilio, aveva tessuto salde reti di amicizie, e prestato denaro, tanto denaro. E così era rientrato a Firenze, dove era stato richiamato quale unico possibile sostegno per garantire autonomia alla città, quando il popolo aveva mostrato di preferire, alla oligarchia degli Albizzi, la sua rete affondata di amicizie, in grado di influenzare le decisioni della Signoria; i legami avevano retto, in quel sottile e crudele gioco del dare e del costringere a restituire un po’ di più, da banchiere appunto, magari anche guadagnandosi fama buona, con quelle sue forme di legame travestite da aiuto.

    Ma con lui, oh, con lui Cosimo era diverso. Donato aveva trascorso ore e ore a parlare, ad ascoltare, o in silenzio, ad ammirare un pezzo antico, fosse un braccio, o un angolo di capitello, frammento ancora palpitante di vita, sognando e immaginando la forma dell’intero; ore, a sfogliare un manoscritto miniato ancora odoroso di colla e bolo armeno, dove le iniziali, come piccoli dipinti autonomi viventi di vita propria, annunciavano un’antifona, un salmo, un Gloria, che i Cantores avrebbero intonato con le gole tese; e ore ancora, a studiare una gemma incisa di perfetta fattura: quanto tempo a valutare, a scegliere tra progetti, schizzi, calchi, a ragionare sugli dei antichi, sulle forme da dare loro in quel primo Quattrocento, in cui la scoperta e il fascino del passato lontano dischiudevano un mondo di possibilità e ogni minuto in più trascorso a osservare sembrava, in Donatello, aumentare la possibilità di capire meglio, di penetrare dentro quel mondo che – pareva, a loro, i moderni del presente – aveva sfiorato la perfezione.

    Va bene, va bene, c’erano anche i pittori geometrici, nuova gente convinta di aver scoperto la vera pittura. All’inizio del secolo erano un numero sparuto, una banda di matti che misurava e misurava, parlava di matematica, filosofeggiava. Certo, c’era gente in gamba tra loro: Leon Battista a esempio, un geniaccio. Costruiva, scolpiva, scriveva novelle e trattati, allevava cavalli, girava e dovunque andasse lo supplicavano di fermarsi a lavorare e riscuoteva simpatie. Parenti suoi Donato ne aveva trovato pure a Padova: anche loro esiliati, ma capacissimi, come tutti i Toscani, di stringersi vicino, fare fronte, insieme, alle nuove genti, aiutarsi, chiamarsi l’un l’altro e far vedere al resto del mondo che loro, i Fiorentini, erano più avanti degli altri. E quegli Alberti diventati padovani, che gente! Traffichini, imbonitori, capaci di strappare il permesso di una sepoltura nel presbiterio della basilica di Sant’Antonio, il luogo più intoccabile per i Padovani: cosa mai avevano promesso, scambiato, fatto, ceduto, donato, per arrivare a tanto?

    Il pensiero di Donatello ritornò a Firenze e al suo incontro con Stefano da Narni, che una decina d’anni prima gli era passato vicino e per caso i due si erano sfiorati fissandosi negli occhi, quasi costretti da una forza che li aveva attirati l’un l’altro: senza poter allora immaginare che il primo, da morto, avrebbe cambiato la vita del secondo… una storia lunga da raccontare, di dolore e di amore, di tanto amore, che per essere stato costretto al silenzio sembrava dilagare per dentro, incanalarsi nei vasi del sangue, arrivare per tutto il corpo come un battito inquieto, lì, all’altezza della terza costa, e più in alto con un groppo alla gola che non si scioglieva con nessun vino.

    In quel momento era più facile lavorare nel convento francescano a sud di Padova, che nella città, a poche miglia di distanza, nonostante le zanzare e le rane. L’estate umida rendeva imprecisa ogni cosa: i contorni degli alberi, lo sfondo della campagna, tutto sembrava un po’ fumigante, come se l’aria immota sciogliesse in vapore anche i pochi refoli di vento caldo. A fianco del chiostrino del convento di Bovolenta c’era una porta che menava verso la campagna acquitrinosa, come una poltiglia di fango che raramente si asciugava. Lì, del resto, l’acqua spadroneggiava, nonostante i tentativi di incanalarla e di ridurla alla volontà degli uomini mediante rogge, canali di scolo, paratie lignee.

    Il convento era praticamente di fronte all’acqua, anche se, a dire il vero, Bovolenta sprofondava letteralmente nell’acqua e quella zona a sud di Padova viveva, un po’ schiava e un po’ affrancata, dall’andamento stesso del Bacchiglione, che era insieme strada e confine, argine, pericolo e fonte di vita. Affacciato sulla campagna Donato, da solo, non stava male: disegnava, pensava, progettava, cercava di concludere quella storia che ormai era tempo di stringere alla fine, sperando che alla sua chiusura anche le ferite si sarebbero rimarginate. Chi avrebbe detto che la sua trasferta padovana avrebbe preso una piega tanto spigolosa e acuta!

    Eppure qualche segnale la vita glielo aveva dato: il fatto era che lui, Donato, non era stato capace di coglierlo, preso com’era a badare a quel suo mondo di sogni che trovavano sempre incauti compratori di illusioni, disposti a pagare grandi o piccoli capitali di fiorini a Firenze e di ducati a Padova, per mettersi in casa o sulla tomba simulacri di pietra e bronzo, a loro modo vivi, se non altro per lo spazio reale che occupavano. La scultura era stata, a innescare tutta la faccenda!

    E l’esecuzione di una grande e importante scultura era stato il motivo che aveva portato Donatello da Firenze a Padova, e proprio nella basilica del Santo – già, perché quell’Antonio era stato così grande da poter fare a meno anche del nome proprio – dove ormai era di casa e dove, a dire il vero, i frati lo avevano accolto subito con benevolenza.

    Donato aveva dapprima pensato che fosse un’accoglienza calcolata, visto che giungeva per eseguire una tomba, segno di prestigio anche per la chiesa che la ospitava. E c’era denaro sonante pronto per quel sepolcro, che avrebbe lasciato qualcosa anche ai frati. Ducati che cadevano dall’alto, dalla potente vedova di Stefano da Narni. Lei, Giacoma da Leonessa, portava quel nome come un marchio impressole nell’anima. Una leonessa per davvero, come se l’origine dalla città l’avesse segnata nel profondo, e resa una donna capace di dominare in quel mondo al maschile. Di far decidere tutto entro le mura di casa, nel clan della famiglia. E poi che gli uomini all’esterno facessero pure le loro alleanze, i loro accordi, convinti di decidere. Quando tutto invece, era già stato orientato prima, dentro le stanze private, con un suggerimento, un sottinteso, uno sguardo interrogativo, una mezza parola calata al momento giusto.

    L’aveva capito Donato, alla fine, che tutto si era mosso per volere di Giacoma. E riandando indietro nel tempo, a quel 1437 in cui la sua strada aveva appena incrociato quella di Stefano da Narni, ricordava del condottiero il viso squadrato, il naso appena allargato, la fronte corrugata in un cipiglio di fiera concentrazione, l’attitudine spontanea al comando, quell’intima consapevolezza del proprio valore. L’incedere a cavallo era lento e deciso e la folla davanti a lui si era aperta, senza che fosse stato necessario forzare il passo. Gli era piaciuto Stefano: lo aveva percepito privo di tracotanza, pensieroso, accorto, lento alla violenza, ma pronto alla decisione fulminea, quando si trattava di soppesare le possibilità di vittoria nella battaglia, o quelle di salvezza dell’esercito, che non doveva essere annientato, pena la sopravvivenza dello Stato di Venezia. Quell’entroterra conquistato da poco non era sicuro, era anzi infido come il corso dei fiumi che lo percorrevano, che esondavano, cambiavano fisionomia al paesaggio, facevano spostare paesi, ridisegnare i confini, costruire nuovi campanili come orientatori nella piattezza immota della pianura: così il Bacchiglione, la Brenta, così l’Adige, l’Astico, il Muson, il Piave…

    Era invece molto più che bella quella Terraferma veneta, addolcita dalle curve dei colli, talora spezzati in cime appena più aguzze e così diversi tra loro: stemperati in cadenze musicali quelli di Treviso, più irti quelli di Padova, ma per certi aspetti somiglianti ai versanti toscani, e quelli veronesi, ancor più struggenti, soprattutto in primavera, pullulanti del risveglio delle gemme, fin profumati di agrumi e punteggiati di colori, che si mescolavano al rosa e al bianco del cotto e del tufo dei castelli e delle chiese dai portali di bronzo.

    Donato aveva percorso quella terra veneta, aveva misurato e contemplato le antichità romane di Verona, aveva camminato tra i paesi e le antiche pievi del Garda, era passato per Vicenza, dove i tagliapietra cavavano la pietra da Nanto, ed era una meraviglia. Si era fermato a vedere la vita dipinta da Tommaso da Modena a Treviso, le favole gentili della principessa Orsola nella chiesa dei frati Eremitani, si era incantato dentro antiche chiesuole delle valli montane, dominate da montagne rosa, sì, esattamente rosa come ogni alba serena che ne rivelava le forme dopo una notte oscura di luna nuova; aveva trovato larghi altipiani popolati da strane genti tedesche, convinte che i boschi fossero abitati da creature dispettose e crudeli. Lungo la costa, era invece un altro mondo e la terra lentamente diventava sabbia e cedeva all’acqua. Tratti grandiosi di strade affioravano ricordando l’imponente opera di cucitura, per linee rette e ortogonali, fatta dai Romani e in certi posti bastava scavare poco per trovare antichi pavimenti pagani di mosaico, vicini alle cripte sottostanti basiliche cristiane, e non c’era problema a mescolare questi con quelle, come in quell’antica città famosa per la fabbricazione delle frecce: e come s’era potuto chiamarla Concordia?*

    Risalendo dalla pianura verso i primi rilievi lo aveva colpito il castello della Valmareno, che Venezia, la Dominante, aveva donato ai suoi due fedeli condottieri, legati tra loro da una pattuizione giurata, e questo li aveva resi, pur stipendiati, ancora più affidabili. Uno era romagnolo di origine, Brandolo Brandolini, con la spada sempre sguainata. Ma l’altro, lo stratega, lo teneva a freno e lo lanciava irruente quando c’era bisogno, ed era appunto Stefano da Narni. Venezia stessa, forse, assecondava la diceria secondo la quale la sua nobiltà nulla capiva in fatto di guerra, perché andava bene essere sottostimati dai nemici. Ma quei patrizi, cantilenanti come l’oscillare delle gondole tra i canali, erano occhiuti come rapaci in caccia. E il castello, donato ai due condottieri per i loro meriti di guerra, si ergeva minaccioso a contrastare il passo di eventuali nemici e soprattutto proclamava la sudditanza di quelle genti alla Serenissima. Alto sulla collina, profilava da lontano il potente mastio circondato da giri di mura che scendevano fino a metà pendio, continuamente percorsi da armigeri che controllavano il territorio senza distogliere mai gli occhi dalle schiene curve dei contadini al lavoro in pianura e dai boschetti circostanti da cui sarebbero potuti sbucare i nemici. Anfratti strategici erano stati scavati nella roccia, traforata da gallerie di servizio, per passare attraverso la collina e uscire alle spalle degli avversari. Brandolo era potente in queste mosse, come se un fondo di divertimento albergasse nel suo modo di fare guerra. Ma le fortificazioni, le travi lignee per rendere sicure le volte, le ispezioni continue quando la stagione piovosa intrideva la terra, le vie secondarie di fuga dai tunnel principali: quelle erano cura di Stefano da Narni e i suoi, sapendo di essere, per questo aspetto, in mani sicure, lo ricambiavano con la fedeltà.

    Che poi l’idea di far sposare la piccola Romagnola, una delle figlie di Stefano e di Giacoma da Leonessa, con Tiberto di Brandolo Brandolini, portasse la firma della madre, questo era fuori di dubbio. La figlia del condottiero con il figlio dell’altro condottiero: e a coronare l’affare la cessione della parte del castello di proprietà Gattamelata a Brandolo, per 3000 ducati d’oro. Così la dote di Romagnola era stata messa insieme senza smuovere un soldo dei beni familiari. Tutto combinato entro le mura di casa, tutto pensato da Giacoma, calcolato, piazzato con un colpo da maestro tra una campagna di guerra e l’altra. La piccola Romagnola aveva lasciato la casa paterna a quattro anni. Come stringeva il cuore veder partire i bambini, combinare i matrimoni a pochi anni di età, spedire le femmine nella casa del promesso sposo, dove, più che i suoceri, avrebbe trovato nuovi genitori, sulla cui amorevolezza nulla si sapeva e si sarebbe potuto anche dubitare. E quel matrimonio però aveva significato, agli occhi del mondo, un bel successo, perché intrecciava due stirpi di uomini d’arme, che avevano necessità di continuare la dinastia.

    Donato era riuscito un po’ alla volta a conoscere la storia di Stefano da Narni e aveva cercato di scrutarne le pieghe e le profondità, per carpirne il senso, per motivare quella ruga sulla fronte che aveva visto prima nell’incontro del 1437 e ritrovato poi nel calco del volto del condottiero, preso sul cadavere e fissato nell’argilla, e ancora nei ritratti che aveva visto nella casa di Stefano, e di nuovo nel busto in terracotta che Cosimo de’ Medici teneva nello scrittoio, vicino a quello di Francesco Sforza. Già: anche Stefano aveva dovuto mandar giù dignità e orgoglio e combattere assieme a Francesco Sforza, quando le armate milanesi di Niccolò Piccinino si erano fatte più prossime ai confini veneziani. Sconfitta la città lagunare, Cosimo lo aveva capito benissimo, niente avrebbe fermato la marcia milanese verso Firenze. E così, rinforzata e benedetta dall’assenso del colle Vaticano, la Lega così costituita era riuscita a fermare il dilagare delle armate del Piccinino. Fianco a fianco, comandando a giorni alterni, Francesco Sforza e Stefano da Narni avevano riconquistato Verona – la bella Verona che tanti letterati amavano celebrare – punita duramente da Venezia per la sua infedeltà. Non minacciava mai, la Dominante, ma sistematicamente epurava, incarcerava, sopprimeva, requisiva beni, fortune familiari, tassava, e tutto questo fingendo di portare pace. Ma questi erano pensieri pericolosi, da tenere custoditi e serrati con cura nella mente: guai a manifestarli, guai a fidarsi!

    Firenze, 1437-1441

    Donato si meravigliava quando si rendeva conto che il centro di Firenze era in realtà piccolo, ma così colmo di bellezza e di storia che ogni pietra avrebbe potuto raccontare. Quando casualmente aveva incrociato lo sguardo di Stefano da Narni, lo scultore stava lavorando nel Duomo di Firenze per la tribuna dell’organo. Aveva cercato, lì, di trattare il marmo come se fosse bronzo, di conferirgli uguali bagliori con le tessere di mosaico colorate, messo a sfondo di quella danza di bambini inneggianti. Rideva e sogghignava dentro di sé Donatello, quando sentiva Neri di Gino Capponi o il suo amico Filippo Brunelleschi pontificare sulla scultura antica e sul modo di rifarla oggi, se fosse doveroso riproporre il composto e candido mondo del marmo Pario, o se invece fosse legittimo reinventarlo, partire da quello per arrivare altrove, in un mondo reale e insieme selezionato e ricomposto secondo coordinate che non erano più razionali e, soprattutto, dovevano far il conto con la differenza grande che loro, i Moderni, avevano rispetto agli Antichi: il passaggio sulla terra di un Dio umano, ucciso, ma nuovamente vivo dopo tre giorni, che aveva scardinato le porte della morte e quella della mente degli uomini. Donatello percepiva spirali di movimenti che partivano da dentro, immaginava forme, armonie, bellezze diverse che poi le sue mani, con fatica, ma insieme con facilità, plasmavano, scolpivano, incidevano, ricavando forme nuove. Altro che Eroti, altro che Genietti: piccoli Fiorentini scatenati erano quelli che aveva scolpito sulla tribuna, ripuliti dal moccio e dal fango di cui erano quotidianamente incrostati, e rivestiti con un po’ di stoffa ondulante, come si pensava fosse la moda antica. Li vedeva ogni giorno quei bambini, stracciati e figli di poveracci, con le gambe segnate dal sangue rappreso e pieni di vita prorompente, che aveva voglia di farsi strada, sgomitando, rubacchiando, a spintoni e a calci. Intorno al Duomo, verso il battistero, nascosti girando intorno al campanile, nei cantieri ancora aperti della cupola nuova di Santa Maria del Fiore, erano sempre in corsa, alla ricerca di lavoretti da poco, spostando cose, portando messaggi, provvedendo acqua o vino, trattenendo qualcosa per sé e per i fratellini più piccoli, per una madre sempre incinta, per un padre ammalato o con poca voglia di far bene. A Donato facevano una tenerezza infinita, e una nostalgia mai confessata gli prendeva il cuore. Amava la scultura, che però chiedeva un tributo esclusivo di fedeltà: nient’altro da accarezzare se non la pietra e il marmo o il bronzo, nessuna altra sonorità nella sua casa, se non la profonda eco del metallo percosso, nessuna rotondità morbida e viva, su cui appoggiare le mani, strisciare il palmo, nessuna pelle da sfiorare con la bocca. Ma amava forzare la materia e toglierla a colpi di scalpello, scoprendo le vene dei marmi, la vita nel legno, cercando in questo e in quelli movimento e contrasti, acuiti con colore e dorature. Amava anche lavorare con il processo contrario, aggiungendo materia, modellando la terra umida, dove era possibile imprimere con le mani – gli sembrava – il soffio animante della vita, magari consunto dalla penitenza, o trasfigurato nell’ascesi.

    Non era stata tenera la vita con lui, che non aveva avuto neppure la pietà e la considerazione che ricevono i bambini sfortunati. Era stata una vita normalmente difficile e quindi non degna di ricevere altre attenzioni. Bandito da Firenze il padre, poi riaccolto e riabilitato, la

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