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Le città dei monaci: Storia degli spazi che avvicinano a Dio
Le città dei monaci: Storia degli spazi che avvicinano a Dio
Le città dei monaci: Storia degli spazi che avvicinano a Dio
E-book867 pagine11 ore

Le città dei monaci: Storia degli spazi che avvicinano a Dio

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Info su questo ebook

L'esperienza della vita monastica è stata caratterizzata, sin dai suoi esordi nell'Oriente tardoantico, dall'abbandono di un ambiente di provenienza e dalla ricerca di uno spazio nuovo e alternativo, nel quale maturare un percorso di avvicinamento a Dio da compiersi in una situazione – spirituale e materiale – di libertà dalle interferenze esterne. Questa ricerca ha prodotto da subito delle idee su come tale spazio dovesse distinguersi e proteggersi e tali idee si sono presto trasformate in esperimenti concreti su come i luoghi in cui i monaci andavano a stabilirsi (da soli o in comunità) dovessero essere organizzati. Tuttavia, per quanto votato a una vita di solitudine, il mondo monastico non ha mai potuto (né voluto) recidere totalmente i propri legami con il resto della società umana. Sin dall'inizio la struttura dei monasteri ha dovuto perciò assumere forme in grado di mantenere con essa canali di comunicazione. Questo studio percorre ed esamina le testimonianze, testuali e materiali, relative alla conformazione dello spazio dei monasteri, proponendo un excursus su come le diverse funzioni cui essi dovevano assolvere (di tipo religioso, politico, produttivo, assistenziale) sono state pensate e concretamente realizzate.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita2 feb 2021
ISBN9788816802056
Le città dei monaci: Storia degli spazi che avvicinano a Dio
Autore

Federico Marazzi

È professore di Archeologia Cristiana e Medievale presso l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Dirige gli scavi del monastero di San Vincenzo al Volturno e ha indagato diversi altri siti monastici fra Campania e Molise. Suoi campi di ricerca sono anche la storia di Roma e del papato fra tarda antichità e alto Medioevo e la storia e l'archeologia della città e degli insediamenti rurali fra età tardoantica e altomedievale. Attualmente è vicepresidente della Società degli Archeologi Medievisti Italiani.

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    Anteprima del libro

    Le città dei monaci - Federico Marazzi

    Capitolo primo

    ‘DESIDEROSI DI DESERTO’:

    I MONACI DELL’ORIENTE TARDOANTICO

    E L’INVENZIONE DELLO SPAZIO MONASTICO

    Et tout d’abord, le monastère doit être situé

    loin du commerce des hommes.

    Le moine, comme son nom l’indique,

    doit vivre dans la solitude

    (Dimier 1964: 36)

    L’asceta cristiano è un personaggio liminare per eccellenza.

    [Egli] si purifica dal quotidiano (conosciuto, domestico, previsto)

    e si trasporta in un mondo agli antipodi del mondo comune

    e delle leggi che lo definiscono

    (Kleinberg 2007: 136-137)

    L’affermazione della Chiesa cristiana nella società romana fra III e IV secolo: forza e contraddizioni di un grande successo

    Le città erano la spina dorsale dell’Impero romano. Fondate in seguito alla conquista di nuovi territori o ereditate (soprattutto in Oriente) dagli Stati via via soggiogati e assorbiti nella Res Publica, esse costituivano il perno dell’amministrazione civile e militare e il cuore della vita politica ed economica delle diverse province. Un’immagine sicuramente non lontana dalla realtà della struttura dello Stato romano è quella di una grande comunità di città – ciascuna con un territorio dipendente, federate in via subordinata a una città dominante, cioè Roma stessa. In conseguenza di ciò, i centri urbani furono i luoghi ove si concentrò una popolazione le cui attività prevalenti non erano quelle direttamente legate alla produzione agraria e pastorale, ma piuttosto quelle della produzione manufatturiera e dei servizi e quelle legate all’amministrazione e al governo.

    Ciò determinò la formazione di ceti che di tali attività si occupavano, il cui benessere materiale poteva anche derivare in buona parte dal possesso della terra e dallo sfruttamento delle sue risorse, ma che ambivano comunque a differenziare il proprio stile di vita da quello dei rustici.

    Nei primi due secoli dell’era volgare, la comparsa nelle città di ogni regione dell’Impero di spazi destinati allo svago, all’intrattenimento, al benessere personale e alla formazione intellettuale rappresenta la dimostrazione più eloquente dell’esistenza di uno ‘stile di vita’ urbano che, nonostante tutte le differenze esistenti con l’età contemporanea, avvertiamo come comparabile a quello dei nostri giorni.

    Nella storia dell’area mediterranea considerata nel suo insieme, tutto ciò rappresentava un fenomeno assolutamente nuovo. In realtà, la percentuale della popolazione residente nelle città rimase sempre minoritaria rispetto al totale (come del resto è stato anche nell’Occidente sino alla metà del XX secolo), ma è tuttavia indubitabile che, tanto a livello locale quanto alla scala globale dell’Impero, le leve attraverso cui si governava la società del tempo erano in mano a persone che provenivano soprattutto dai ceti egemoni dei centri urbani (Cecconi 2009: 285-306).

    Ovviamente, non tutti coloro che abitavano nelle città godevano in pari misura dei vantaggi che esse potevano offrire e ciò sia a causa delle forti sperequazioni sociali esistenti nelle comunità urbane, sia per l’arretratezza tecnica che, in rapporto agli standard contemporanei, caratterizzò il mondo romano. Come è stato recentemente affermato (Stark 2010: 38),

    le città greco-romane erano piccole, sovraffollate, sudice all’inverosimile, disordinate, stracolme di stranieri e afflitte da frequenti catastrofi: incendi, epidemie, conquiste e terremoti.

    Non per questo, però, vivervi era meno attraente. I disagi erano evidentemente ricompensati dalle molte opportunità offerte dalla contiguità con il potere e dalla possibilità di trovarsi in luoghi ove, in virtù della loro centralità politica, economica e amministrativa, informazioni e novità potevano giungere prima ed essere conosciute meglio. Abitare nelle città consentiva quindi di recepire, condividere ed elaborare in modo più immediato i fermenti del mondo contemporaneo.

    È un dato storico ormai chiaro che il Cristianesimo si diffuse proprio negli ambienti cittadini, partendo dalle popolose città del Mediterraneo orientale. Le mete della predicazione di Paolo di Tarso e i destinatari delle sue epistole delineano una geografia del primitivo proselitismo cristiano che trova sempre nei centri urbani il proprio ancoraggio sul territorio (Sánchez Bosch 1979). Non per niente, già in epoca tardoantica, il termine ‘pagano’ – cioè abitante dei pagi, vale a dire dei villaggi rurali – assume il significato di ‘non cristiano’. Il fedele della nuova religione, insomma, si identifica con l’abitante della città.

    Nel III secolo d.C., quando le comunità cristiane iniziano ad acquisire una consistenza numerica di una certa rilevanza (soprattutto nelle città dell’Oriente, ma anche in alcuni centri occidentali come Roma, Cartagine e Lione), si sviluppa parallelamente al loro interno una struttura organizzativa e finanziaria che ha come obiettivo in primo luogo la gestione degli spazi del culto comunitario, dell’assistenza e della sepoltura degli adepti.

    Gestione di beni e strutture significa anche e soprattutto gestione di denaro. All’inizio del III secolo la comunità cristiana di Roma fu investita da uno scandalo che vide protagonista Callisto, schiavo del potente Carpoforo, che aveva amministrato in modo piuttosto disinvolto una banca che avrebbe dovuto custodire le somme necessarie all’assistenza di vedove e orfani. Dopo diverse peripezie, Callisto riuscì a farsi scagionare dalle accuse e alla sua riabilitazione avrebbero concorso anche personaggi vicini all’imperatore, la qual cosa lascia intuire che la diffusione del Cristianesimo a Roma fosse ormai piuttosto significativa.

    Durante tutto il III secolo, le fasi acute di conflitto fra i cristiani e le autorità dello Stato romano furono intervallate da periodi relativamente pacifici, cosa che permise alle comunità di crescere numericamente e di radicarsi all’interno del tessuto sociale urbano (Winkelmann 2004: 83-110).

    Al momento in cui Costantino e Licinio, nel 313, decisero di emanare l’editto di Milano che garantiva libertà di culto ai cristiani, si calcola che essi potessero rappresentare una percentuale pari a circa il 15% della popolazione complessiva dell’Impero (Stark 2010: 90). Tale percentuale doveva assumere ovviamente proporzioni più cospicue nelle città delle province orientali, da dove questa religione si era originariamente sviluppata. La differenza che il Cristianesimo presentava rispetto alle altre religioni diffuse nell’Impero stava soprattutto nella sua capacità di aver sviluppato due caratteristiche: la prima era quella di aver progressivamente consolidato una struttura gerarchica e organizzativa che, seppure ben lontana da quella piramidale e ‘romanocentrica’ della Chiesa cattolica di oggi, era tuttavia in grado di tenere insieme le diverse comunità e di far sì che esse si presentassero come cellule di un’entità unitaria; la seconda caratteristica è quella di aver saputo superare abbastanza rapidamente la dimensione prettamente settaria degli esordi, proponendosi come un credo aperto all’adesione delle componenti sociali ed etniche più diverse presenti nel territorio dell’Impero. Questa seconda peculiarità, peraltro, non si sviluppò a spese dell’identità del credo cristiano. Sebbene sia stato rilevato come il Cristianesimo del III e del IV secolo abbia assorbito moltissimi elementi propri della cultura ‘alta’, del simbolismo del potere, della devozione popolare e del linguaggio figurativo propri del mondo classico, ‘pagano’, nondimeno non ha prodotto il risultato di incrinarne la compattezza dogmatica, determinando fenomeni di mero sincretismo rispetto a tradizioni e credenze con cui il proselitismo cristiano entrò via via in contatto.

    Questa ‘duttile monoliticità’ del Cristianesimo dovette certamente costituire uno dei fattori di valutazione per la maturazione della svolta che Costantino compì nel 313. La cessazione di rapporti conflittuali con la componente cristiana della popolazione dell’Impero portò rapidamente a una reciproca attenzione, se non a una vera e propria collateralità fra il potere imperiale e le gerarchie ecclesiastiche, in certo senso suggellata dalla presenza di Costantino al Concilio che si riunì a Nicea per definire e ufficializzare i fondamenti dogmatici e organizzativi della Chiesa cristiana (Suso Frank 2000: 134-135 e 172-175).

    Sebbene la capillare accettazione del Cristianesimo presso tutti gli ambienti e gli strati sociali dell’Impero si verifica non prima del V secolo, è un dato di fatto che la legislazione emanata durante il IV andò progressivamente, ma decisamente, in direzione della concessione alle Chiese di prerogative e sostegni sempre più ampi (Wipiszycka 2000: 126-128). Gli imperatori agirono nei loro confronti, sia pure con modalità diverse da sovrano a sovrano, continuando ad applicare il principio tradizionale secondo cui un rapporto di pace con la sfera del divino sarebbe stato garanzia della stabilità dello Stato, ma coltivandolo con l’attenzione che si sarebbe riservata al funzionamento di una parte dello Stato stesso (Barzanò 1996: 62-78).

    Questa situazione ebbe per effetto una crescita significativa della contiguità delle gerarchie ecclesiastiche con le strutture politico-amministrative dell’Impero. Basti pensare, ad esempio, alla deliberazione del Concilio di Nicea con cui si stabilì che i territori delle metropolie ecclesiastiche coincidessero con i confini delle province imperiali.

    Un’ulteriore conseguenza – percepibile già ai tempi di Costantino – fu quella del poderoso rafforzamento economico delle Chiese, consentito sia dalla favorevole legislazione e dalla munificenza degli stessi imperatori, sia dal concorso sempre più ampio di benefattori privati, che attivarono un flusso di donazioni di beni mobili e immobili. Tale rafforzamento fu reso d’altra parte necessario dal fatto che, a partire dalle città, le singole diocesi si trovarono a gestire patrimoni sempre più imponenti, costituiti principalmente dalle vecchie e nuove aree cimiteriali, dagli edifici di culto e dai loro annessi (battisteri, cappelle, sacrestie), ma anche da complessi residenziali per l’alloggio dei vescovi e del clero e da spazi per l’espletazione di servizi assistenziali e sanitari che costituirono, mano a mano, uno dei campi in cui la Chiesa operò con sempre maggiore capillarità ed efficacia (Remie Constable 2003). La ricchezza di molte sedi episcopali – soprattutto di quelle più importanti – crebbe così vertiginosamente durante il IV secolo, non senza suscitare critiche e provocare scandali.

    Alla fine del IV secolo, quando il potere imperiale aveva ormai dichiarato che la religione cristiana costituiva il credo ufficiale dello Stato romano, le diocesi delle più importanti città – come ad esempio Roma e Costantinopoli – erano detentrici di ricchezze tali da porle alla pari con quelle delle famiglie aristocratiche più in vista (Dagron 1991: 503-516; Marazzi 1998: 47-78; \ernic 2004; Lizzi Testa 2004: 93-104).

    Cristiani che abbandonano il mondo? I primi monaci d’Oriente come elemento di ‘rottura dialogica’ in seno alla Chiesa

    L’evoluzione del ruolo sociale e politico della Chiesa nel mondo tardoantico, e le sue implicazioni in ambito economico, non mancarono di provocare dibattiti e riflessioni all’interno della comunità dei credenti.

    Il trionfo garantito dalla svolta costantiniana comportò il prezzo di un’inevitabile mondanizzazione e vi fu chi vide in questa evoluzione un insopportabile allontanamento dai costumi della Chiesa ‘primitiva’, in grado di perseguire l’esempio del Cristo nella conduzione di un’esistenza improntata al rifiuto delle lusinghe del mondo e votata all’attesa del ricongiungimento con il Padre.

    Questo disagio, esistenziale e ideologico al contempo, fu sicuramente uno dei motivi principali alla base della nascita e del successo del fenomeno monastico (Moreno Martín 2011: 35-37).

    Ad essi non dovette essere estranea neppure la sensazione che il trionfo ‘mondano’ della Chiesa non avesse certamente determinato l’instaurarsi di una società più capace di lenire le enormi disuguaglianze economiche e sociali del tempo e di moderare la deriva autoritaria intrapresa dal potere statale e dai suoi apparati. L’idea che il mondo fosse un luogo dove era difficile attuare la giustizia, nonostante la vittoria in un certo senso politica in esso conseguita dalla Chiesa di Cristo, dovette indurre molti a disperare sulla possibilità di una sua positiva palingenesi. L’unica soluzione per vivere un’esistenza coerente con i precetti del Vangelo poteva perciò essere quella della fuga dal consesso sociale, rompendo i vincoli – anche affettivi – che in esso si generavano e tentare di prepararsi a entrare, nel modo migliore, nel mondo promesso da Cristo dopo la fine della vita terrena.

    Le persone che scelsero di abbandonare la propria comunità di origine e di ritirarsi nel ‘deserto’ per il perseguimento di un ideale di vita dedicato alla preghiera nell’isolamento (μονάζειν), rinunciando ai beni terreni con l’obiettivo del perseguimento di una vita perfecta, furono detti monaci (μοναχόι) (Judge 1977).

    Ciò che si voleva abbandonare, quindi, era il legame con il ‘secolo’ (sæculum, in latino; ϰόσμος, in greco), inteso come tutto ciò che vive nella dimensione effimera e peritura della materialità. La vita perfecta, specularmente, è l’esistenza che raggiunge il suo compimento già durante il transito terreno, attraverso la scelta dei beni imperituri dello spirito, perseguendo l’esempio del Cristo che visse per annunciare il Padre e nell’attesa di ricongiungersi a Lui dopo la morte corporea.

    Non stupisce, per le ragioni ricordate in precedenza, che le aree dell’Oriente mediterraneo abbiano costituito la ‘culla’ di questo movimento che si espresse in maniera assai variegata. Le esperienze di vita ascetica cristiana che si affermarono in queste regioni (Egitto, Siria, Palestina, aree sud-orientali dell’Asia Minore) presentano tutte dei tratti comuni: l’abbandono dei beni materiali, la lotta contro i desideri carnali (soprattutto quelli sessuali e quelli legati al cibo) e la ricerca di una capacità di dominio dei sentimenti di antagonismo verso il prossimo. Il fine era il raggiungimento della grazia di un colloquio diretto con Dio, e il suo raggiungimento comportava un continuo esercizio (l’ascesi, appunto) teso a trasformare chi lo pratica in un essere già interamente volto alla vita vera, che sarebbe iniziata dopo la conclusione del transito terreno (Alciati 2013: 816-818).

    Il multiforme paesaggio dell’ascetismo cristiano, che inizia a prendere forma storica nei decenni a cavallo fra III e IV secolo, non si nutre solo di suggestioni e riferimenti nati entro l’alveo della nuova religione, ma trova antecedenti in una lunga tradizione di spiritualità cresciuta sia nel mondo genericamente definito ‘pagano’, sia in quello giudaico (Scazzoso 1975: 294-313; Davies 1996: 253-257; Rubenson 1998; De Vogüé 2000: 97-106).

    Nel neoplatonismo del III secolo si colgono accenti chiari sull’esigenza che il filosofo plasmi la sua personalità attraverso la rinuncia alle ricchezze, alla fama, agli onori mondani, al soddisfacimento del desiderio sessuale e a un’alimentazione smodata. Porfirio, in particolare, nel suo trattato sull’astinenza ricorda che l’esempio migliore da seguire per l’esercizio di queste virtù si trovava nei seguaci di Pitagora i quali, per sfuggire ogni tentazione, si allontanavano dalle città per cercare luoghi deserti o, se vi rimanevano, si stabilivano entro i sacri recinti dei santuari, ove potevano vivere liberi dal disturbo recato dalle faccende mondane (Dillon 1998).

    Similmente, un autore come Girolamo, impegnato nella promozione del monachesimo cristiano, non ha difficoltà ad ammettere che il costume della fuga mundi era già praticato presso alcuni philosophi pagani, come appunto i Pitagorici, al fine di perseguire la meditazione al riparo dalle passioni e dalle lusinghe del mondo (e della città in particolare):

    Spinti dunque da queste considerazioni, molti filosofi hanno abbandonato l’affollamento delle città e i giardini dei suburbi, con i loro terreni percorsi dalle acque, gli alberi frondosi, il cinguettio degli uccelli, lo specchio di una fontana, il mormorio di un ruscello e le mille dolcezze che catturano l’occhio e l’orecchio. Essi temevano che il lusso e l’abbondanza dei beni indebolissero la loro forza d’animo e ne sporcassero la purezza. […] Di fatto, i pitagorici, per evitare questa confusione, abitavano normalmente nella solitudine e nei luoghi deserti¹.

    Inoltre, come ricorda Richard Finn, esiste un vasto retroterra di tradizioni cultuali del mondo greco-romano, nell’ambito del quale «modalità specificamente definite di astinenza dal cibo e dal sesso erano funzionali alla definizione di spazi e tempi consacrati, a mediare un accesso entro – o stabilire una comunicazione con – il mondo sacro degli dei e per sancire l’esistenza di un ordine sociale in cui sesso e cibo trovavano il loro spazio nell’ambito della vita familiare ed urbana» (Finn 2009: 14).

    Ugualmente, le due sette ebraiche dei Terapeuti (in Egitto) e degli Esseni (in Palestina) sono descritte nella testimonianza di Filone di Alessandria come caratterizzate da una vita comunitaria che, per raggiungere attraverso la conoscenza della Legge e delle Scritture il proprio ideale di contemplazione divina, sceglievano programmaticamente di allontanarsi dall’ambiente cittadino visto come fonte di confusione materiale e morale, andando quindi a perseguire in luoghi isolati un’esistenza fatta di rinunce e astinenza. Osserva sempre Finn che Filone, nel descrivere i modelli organizzativi delle due sette, forse aveva in mente riferimenti tanto alla tradizione filosofica greca quanto a quella biblica, che voleva i Leviti destinati ad abitare città proprie, scevre da commistioni con chi non poneva al primo posto, nella propria esistenza, il servizio a Dio (Finn 2009: 38). I rotoli di Qumran, tra cui in particolare il cosiddetto Documento di Damasco, forniscono indicazioni sul fatto che i membri del gruppo costituiscono un’‘unità’ di persone alla ricerca della santità e della prossimità con Dio attraverso la purezza e l’astinenza dal cibo, il cui percorso, per essere coronato da successo, deve svolgersi in un luogo prescelto (il Campo degli Israeliti), separato dal resto della società e dalle sue contaminazioni².

    L’idea del perseguimento di una vita di perfezione spirituale, anche nelle tradizioni mediterranee anteriori a quella del monachesimo cristiano, trovava dunque forte caratterizzazione nei concetti dell’allontanamento dalle sedi umane e nella definizione, in luoghi lontani o quanto meno separati da esse, di uno spazio ‘altro’, riservato a chi aveva intrapreso tale percorso e perciò non accessibile ad altri.

    Il deserto monastico e la polemica ‘antiurbana’

    Nella letteratura cristiana tardoantica che tratta le tematiche della vita monastica, il concetto dell’abbandono del mondo si caratterizza quasi sempre come percorso di allontanamento dalla città, rappresentata come luogo-simbolo della sottomissione dell’uomo alle lusinghe della vita terrena.

    Accanto ad esso, e direi in posizione speculare, vi è il topos del raggiungimento, da parte di colui che lascia il mondo, di un luogo dalle caratteristiche completamente diverse. Esso si guadagna attraverso un processo di distacco, al contempo fisico e mentale, da quanto si è deciso di abbandonare (fama, onori, ricchezza, appagamento sessuale, piaceri del cibo), ed è quindi innanzitutto caratterizzato da un’assenza: è ciò che gli autori latini definiscono desertum, termine che contiene in sé tanto la nozione della carenza di qualcosa, quanto della libertà, dello scioglimento (de-serere) da questo qualcosa, rappresentato dalla vita anteriore da cui ci si è estraniati. Uno spazio nuovo e vuoto, quindi, che dovrà essere riempito con lo slancio spirituale di chi si avvia verso la nuova vita (Brown 1974: 74-88; Brown 1995b: 143-147; Alciati 2013: 819-820).

    L’opera di Giovanni Crisostomo (354-407) Contro i detrattori della vita monastica, scritta nella prima metà degli anni ’80 del IV secolo, illustra con chiarezza e in più circostanze la dicotomia fra l’ambiente urbano e l’appagante solitudine del deserto monastico, ricca di doni spirituali (Dattrino 1996: 22). Giovanni nota in particolare che non vi sarebbe bisogno di cercare un ‘altrove’ da parte del monaco, se le città da cui egli fugge fossero luoghi da cui potessero scomparire i mali derivanti dalla schiavitù dell’uomo nei confronti delle proprie debolezze, cosa che si riflette anche nelle regole che normano la vita sociale:

    Anch’io vorrei e frequentemente mi sono augurato che fosse eliminata la necessità dei monasteri: mi sono augurato che ottime leggi venissero in vigore nelle città, al punto che nessuno sentisse il bisogno di rifugiarsi nella solitudine. Ma poiché ormai tutto è stato travolto e le stesse città, dove pure esistono tribunali e leggi, sono piene di molte prevaricazioni e di ingiustizie, mentre invece la solitudine abbonda dei frutti che nascono dalla vera saggezza, ne segue che a buon diritto non dovrebbero essere incriminati da voi quanti si prodigano nel tirar fuori coloro che appunto intendono di essere liberati da quella turbinosa tempesta, per condurli nel porto della pace. I veri responsabili sono coloro che, rendendo ogni città impraticabile e avversa ad ogni vera saggezza, costringono quanti bramano salvarsi a cercare la solitudine³.

    Crisostomo non è il primo a illustrare il concetto della antitesi fra vita cittadina e ascesi cristiana. Atanasio di Alessandria, nella biografia di Antonio scritta intorno al 355⁴, ricorda che il santo, volendo emulare l’esempio di altri che avevano già intrapreso il cammino della perfezione spirituale,

    cominciò anch’egli a soggiornare in luoghi che erano fuori città⁵.

    Rufino di Concordia, nel prologo delle sue Storie di Monaci, scritto alla fine del IV secolo (Trettel 1991: 19-25), ricorda analogamente che, fra i monaci egiziani,

    alcuni vivono nelle periferie delle città, altri in aperta campagna, la maggior parte (e forse i migliori) vivono da soli in un eremo⁶,

    che si presenta tuttavia come una solitudine popolata da molti individui che hanno scelto un medesimo percorso di vita e che, quindi, si anima della comune condivisione di valori e comportamenti che caratterizzano i luoghi ove i gruppi di eremiti sono andati a stabilirsi.

    Il luogo deserto ove il monaco trova la propria sede è descritto spesso non solo come antitetico alla città, ma anche remoto e inaccessibile. Cassiano ricorda ad esempio, attraverso le parole dell’abate Abramo, che i monaci che abitavano nel deserto egiziano di Porfirione (a ovest del delta del Nilo) erano

    separati da tutte le città e dai villaggi abitati per una distanza di deserto più vasta del deserto di Scete, per cui, percorrendo in sette o otto giorni quella vastissima solitudine, a stento si raggiungono i recessi delle loro celle⁷.

    Tuttavia, l’isolamento del monaco non necessariamente si realizza solo perché il luogo in cui egli si rifugia è collocato in posizione difficile da raggiungere, ma perché, ovunque esso si trovi, egli lo definisce e lo delimita come uno spazio precluso a chiunque. Un esempio riportato nella Storia di Monaci Siri o Storia Filotea, scritta da Teodoreto di Cirro fra il 443 e il 449 (Gallico 1995: 41-43), è in questo senso davvero molto eloquente. Parlando dell’eremita Linneo, che si era allontanato su un’altura «non troppo aspra né troppo scoscesa» prossima a un villaggio del territorio di Cirro, egli dice che

    qui è vissuto fino ad oggi senza una cella, né una tenda, né una capanna, ma circondato da un semplice recinto costruito con pietre e neppure tenuto assieme con fango. Ha una piccola porta sempre coperta con fango, che non apre mai agli altri che vengono; solo a me [scil. a Teodoreto, che era un chierico], quando giungo, permette di aprirla⁸.

    In certo senso, ciò che il monaco costruisce intorno a sé è una sorta di pomerium, che ha la funzione di rendere visibile la diversità della dimensione entro cui egli ha scelto di vivere: un isolamento tangibile ed evidente e, al contempo, pur se fragile, invalicabile per gli altri proprio in ragione del distacco che egli, nello spirito, ha raggiunto rispetto alle cose del mondo. Naturalmente, in molti casi, ciò non impedisce al monaco di colloquiare con chi gli si avvicini per chiedergli consiglio e aiuto. Ma tale colloquio avviene spesso in modo indiretto (ad esempio il monaco non si mostra, ma la sua voce è udibile), oppure in momenti ben determinati ed eventualmente attraverso l’intermediazione di qualcuno che – come nel caso narrato da Teodoreto – all’eremita è particolarmente vicino.

    Il concetto della recinzione dello spazio entro cui il monaco (da solo o con altri) vive seclusus rispetto alle persone rimaste nel secolo avrà grande rilievo, come vedremo, nella caratterizzazione materiale degli insediamenti cenobitici.

    La scelta effettuata da Simeone lo Stilita, di cui pure Teodoreto parla diffusamente, di collocarsi in cima a una colonna, simboleggia in modo estremo l’isolamento del monaco proteso verso Dio e per questo irraggiungibile dagli altri uomini, anche se mai superbo e vanaglorioso nei loro confronti e comunque pronto a dialogare con loro⁹.

    Dei monaci, insomma, si doveva conoscere l’esistenza e poterne ammirare l’esempio, ma senza che questo portasse ad abbattere la distanza incolmabile esistente fra loro e il resto della società, costruitasi attraverso un lungo e complesso itinerario di prove e di sfide vinte nei confronti delle debolezze carnali e delle lusinghe mondane (Burrus 2011: 57).

    Naturalmente, la dipartita dal mondo e il distacco dal suo fragore non sempre riescono a essere una scelta definitiva e irrevocabile. Palladio porta in tal senso l’esempio di un certo Natanaele, il quale, dopo essersi allontanato dall’abitato per poter condurre vita solitaria,

    schernito dal demonio, credette di provare un senso di tedio per la sua prima cella; e quindi la lasciò e se ne costruì un’altra più vicina al villaggio. Orbene, terminata che egli ebbe la cella e incominciato ad abitarla, dopo tre o quattro mesi giunge di notte il demonio

    invitando l’uomo a lasciare anche quella per trasferirsi in un’altra. A quel punto, egli,

    avendo compreso di essere stato schernito, se ne tornò nella prima cella. E per trentasette anni compiuti non ne oltrepassò la porta, seguitando a lottare contro il demonio¹⁰.

    L’episodio non solo è esemplare della difficoltà del perseverare nella scelta della separazione dal mondo, ma anche della necessità che, affinché essa sia assunta una volta per tutte, comporti la definizione di una soglia invalicabile tra il monaco e il mondo esterno. Questa esigenza è sviluppata al punto tale da impedire perfino al monaco di rientrare provvisoriamente ‘nella città’ per mostrare, attraverso il proprio comportamento, le qualità morali raggiunte attraverso l’ascesi. Esse dovevano rimanere un tesoro nascosto, di cui non ci si poteva in alcun modo gloriare¹¹.

    Il deserto come luogo di una nuova cittadinanza

    La dipartita (anacoresi) del monaco dalla città non era solo considerata un atto di rifiuto verso ciò che ci si lasciava alle spalle, bensì soprattutto l’aprirsi di una nuova prospettiva di vita: quella della creazione di una dimensione ove si potesse dare un’altra possibilità a chi avesse voluto realizzare l’obiettivo di un’esistenza più giusta e conforme agli insegnamenti divini e, soprattutto, governata dal comune intendimento di abbandonare qualsiasi interesse per i beni terreni.

    Atanasio di Alessandria, parlando del luogo dove Antonio si era ritirato, seguito da altri che volevano imitarne l’esempio, afferma che

    le dimore degli anacoreti sui monti erano come tabernacoli pieni di cori divini: cantavano i salmi sperando nei beni futuri, compivano le opere di misericordia e praticavano il pudore e l’amore in armonia fra loro. Questo era veramente l’aspetto di quel luogo: come un paese solitario adatto al servizio di Dio e alla giustizia. Nessuno lì era trattato ingiustamente, né molestato da chi esigeva i tributi, ma c’era solo una moltitudine di persone che cercavano di vivere secondo Dio, ed in tutti c’era l’unico pensiero della virtù spirituale¹².

    Sempre Atanasio, in un altro, celebre passo della biografia di Antonio, afferma chiaramente che il mondo creato dalla santità di quest’ultimo e dal concorso di coloro che desideravano seguirne l’esempio costituiva una ‘città alternativa’ a quella degli uomini rimasti nel secolo: una città che, chiaramente, non piacque al maligno, che si sforzava di far fallire l’impegno del venerabile uomo:

    Ed il demonio non sopportando ciò, temendo che in poco tempo, con le pratiche ascetiche, avrebbe trasformato il deserto in una città, gli si appressò una notte con una moltitudine di demoni, e tanto lo percossero da lasciarlo senza sensi…¹³

    La stessa similitudine è utilizzata da Palladio nella Storia Lausiaca a proposito del monaco-presbitero Elpidio di Cappadocia, il quale, ritiratosi a vivere nelle grotte presso Gerico, iniziò ad attrarre con il suo esempio una moltitudine di confratelli:

    Intorno a lui, come un re delle api in mezzo al suo piccolo reame, era venuta ad abitare la moltitudine dei confratelli (io stesso abitai con lui), e così egli trasformò la montagna in una città¹⁴.

    Questo spazio ‘altro’, opposto alla città degli uomini e separato da essa, ma a sua volta scenario di una nuova e più giusta urbanitas, costituisce il solo ambiente dove il monaco può continuare ad essere veramente tale¹⁵. Avendo accettato di scendere dal suo eremitaggio per fare visita al governatore del territorio, Antonio, dopo aver brevemente conversato con i suoi interlocutori, si affrettava a tornare alla sua dimora. E alle parole dell’alto funzionario che lo pregava di trattenersi rispose con una sorta di parabola:

    I pesci vengono tolti dal mare. Se rimangono a lungo in secco, muoiono. Così gli eremiti, se restano tra di voi e rimangono a lungo con voi, si corrompono. Come i pesci si affrettano a ritornare in mare, così noi dobbiamo affrettarci a ritornare sul monte, per non dimenticare, indugiando, le cose che sono là dentro¹⁶.

    La bramosia del ritorno al proprio spazio separato dal mondo degli uomini derivava dal fatto che esso rappresentava la dimensione che prefigurava il ritorno a Dio, alla città ultraterrena di cui il monaco si sentiva veramente abitante. Avvicinandosi la morte, Antonio appariva

    come se si avviasse da una città straniera verso la propria, parlava loro [cioè ai propri discepoli] pieno di gioia e di certezza e raccomandava di non cedere alle fatiche, di non scoraggiarsi negli esercizi spirituali, ma di vivere come se dovessero morire ogni giorno e, come ho già detto, di emulare i santi¹⁷.

    Il topos dell’insofferenza del santo monaco verso l’ambiente inquieto e distraente della città, nella testimonianza di Cirillo di Scitopoli relativa al monaco Eutimio (figura di spicco del monachesimo palestinese della prima metà del V secolo), si spinge sino al rifiuto di recarvisi per incontrare l’imperatrice Eudocia. Narra Cirillo che la sovrana,

    avendo appreso che il grande Eutimio non sopportava di recarsi in città, si affrettò a far costruire una torre nel luogo più elevato di tutto il deserto orientale, ad una distanza di circa trenta stadi a sud della laura di Eutimio, desiderosa di godere là più frequentemente dei divini insegnamenti del santo¹⁸.

    Che l’abbandono della città da parte del monaco, visto da chi vi rimaneva come la scelta di una vita sradicata ed errabonda, costituisse in realtà il trampolino ideale verso il raggiungimento della più stabile e serena dimora celeste lo dice con chiarezza anche Giovanni Crisostomo. Egli afferma che chi conduce la propria esistenza avvinto ai beni materiali, alla propria casa e al proprio letto è il vero fuggiasco, poiché si sottrae costantemente al confronto con l’inevitabile traguardo della morte. Al contrario, il monaco che sceglie il disprezzo di quei beni ha già conquistato il lasciapassare per il conseguimento della sua definitiva cittadinanza celeste¹⁹.

    Anche in ambiente siriaco, i profili biografici degli asceti di cui Teodoreto di Cirro racconta le gesta si aprono sempre con il percorso dell’abbandono di una vita urbana e dei beni e degli onori terreni che ne costituiscono quella che potremmo definire la cornice ambientale per affrontare la ricerca di luoghi isolati e remoti²⁰.

    Ad esempio, Teodoreto racconta il ‘passaggio’ compiuto da Publio, cittadino di Zeugma che «discendeva da ceto senatoriale», il quale, pur se

    proveniente da una tale famiglia, si stabilì in una regione elevata, lontana dalla città non più di trenta stadi. Dopo aver costruito una piccola cella, vendette tutto ciò che aveva ricevuto dal padre, cioè casa, possedimenti, pascoli, vesti, arredi d’argento e di bronzo e qualunque altra cosa avesse oltre a ciò²¹.

    La cittadinanza romana, secondo Teodoreto, cede quindi il passo a una nuova e più duratura appartenenza, che nega valore a ogni segno di distinzione sociale dell’individuo.

    Il monachesimo comunitario come modello alternativo di urbanità: il cenobio e le sue leggi

    Durante la prima metà del IV secolo, la scelta di fuggire nel ‘deserto’ per incontrarvi Cristo dovette diventare, in alcune regioni dell’Oriente, un fenomeno capace di coinvolgere un numero di persone quantitativamente rilevante. I luoghi di eremitaggio scelti dai personaggi dotati di maggior carisma spirituale divennero presto ricercati da altri che speravano di poter emulare, con la vicinanza, le virtù spirituali di coloro che consideravano come i propri maestri.

    L’agglomerazione, nello stesso luogo, di più persone che condividevano il medesimo obiettivo esistenziale, generò rapidamente l’idea che la prossimità si potesse trasformare in una convivenza più strutturata. In altre parole, che si potesse costituire una vera e propria vita comune (ϰοινός βίος, in greco), preferibilmente sotto la guida di un ‘maestro’ al quale si riconoscevano virtù superiori e quindi la capacità di indicare, attraverso la definizione di precise norme comportamentali, come attuare nel modo migliore gli ideali e le speranze che avevano spinto all’adozione di scelte di vita così radicali.

    Questo tipo di declinazione della vita ascetica rappresentò anche una via affinché il mondo variegato e in qualche modo incontrollabile dell’eremitismo individuale e delle sue talora sconcertanti declinazioni esistenziali potesse essere ricondotto entro un alveo più definito e omogeneo (Kleinberg 2007: 156-165). Non a caso, l’idea di riunire dei monaci entro una comunità organizzata in modo prestabilito è frequentemente rappresentata dalle fonti come frutto di un’illuminazione divina che raggiunge un eremita, comandandogli di porre la sua esperienza e il suo carisma al servizio degli altri. L’Historia Lausiaca di Palladio racconta che, intorno alla metà del IV secolo, l’egiziano Pacomio fu visitato dall’apparizione di un angelo che gli disse:

    Tu hai raggiunto la perfezione: non c’è necessità che tu continui a rimanere seduto in solitudine nella tua grotta. Seguimi, va’ all’esterno e raduna i giovani monaci e vivi insieme a loro; e legifera per loro secondo le regole che ora io ti do²².

    Giovanni Cassiano era un uomo originario della Tracia che, alla fine del IV secolo, compì un lungo viaggio in Egitto à la recherche dei monaci più illustri che abitavano le solitudini dei deserti che si stendevano a est e a ovest del corso del Nilo e le isole emergenti fra i rami del delta del grande fiume. Alla fine del suo tour si trasferì in Provenza, dove si dedicò a raccogliere e riportare per iscritto, sotto forma di dialoghi, tutte le conversazioni avute con i personaggi incontrati nella sua permanenza in Oriente. L’abba Piamun, incontrato nelle paludi del delta del Nilo, si soffermò con lui a descrivergli quali fossero, a suo parere, le diverse tipologie di vita monastica che si potevano incontrare nella regione. Egli affermava che i monaci che vivevano in comunità, ossia i cenobiti, costituissero la più antica ‘specie’ di monaci, poiché discendevano da coloro che, già subito dopo la morte del Cristo, avevano saputo tenere viva la memoria dello stile di vita della primitiva comunità apostolica, abbandonando i loro beni individuali e mettendo in comune tutto ciò che possedevano²³. Gli anacoreti avrebbero rappresentato – secondo Piamun – una ‘frangia’ di persone votate alla perfezione individuale, tra le quali si contavano certamente individui più dotati degli altri per forza d’animo e slancio mistico, ma anche molti personaggi ribelli e inquieti, incapaci quindi di sottoporsi alle prove di umiltà e alla disciplina che costituivano un connotato imprescindibile della vita comunitaria. Chiaramente, concludeva Piamun, l’elemento distintivo dell’esistenza del cenobita rispetto a quella dell’eremita consisteva proprio nel fatto che la sua vita è praticata secondo una Regola:

    Sebbene da parte di certuni siano normalmente e indifferentemente chiamati monasteri gli stessi cenobi, tuttavia esiste questa differenza: monastero è il nome che indica l’alloggio, quindi nulla più che il luogo, cioè l’abitazione dei monaci, mentre il cenobio indica il carattere e la disciplina di quella professione. Quindi il monastero potrebbe essere perfino l’abitazione di un solo monaco, il cenobio invece non può essere inteso se non dove si abbia una comunità tutta riunita di parecchi che abitano tutti insieme²⁴.

    La formazione d’insediamenti stabili entro cui si organizzano comunità di monaci, coordinate da un capo riconosciuto e dove per ciascun membro si stabiliscono precisi ruoli e funzioni, costituisce un’opportunità per incanalare il crescente flusso di vocazioni alla vita monastica e rappresenta anche il momento in cui si definisce – da un punto di vista sia normativo sia materiale – lo spazio in cui queste persone vivono. Il cenobio, quindi, si configura come l’alternativa possibile alla polis per una convivenza associata, scevra dai disvalori e dagli stili di vita che caratterizzano il mondo di coloro che non hanno saputo rinunciare ai beni terreni.

    Un caso riportato nelle Storie di Monaci – opera scritta sul finire del IV secolo e attribuita, sebbene non concordemente, a Rufino di Concordia²⁵ – mostra che, in linea di principio, poteva anche essere possibile riscattare la città degli uomini, rendendola simile al modello di vita comunitaria che i monaci realizzano associandosi nel comune progetto dell’ascesi. Ciò sarebbe potuto avvenire attraverso una vera e propria invasione della città da parte dei monaci sebbene essi, anche in un contesto di questo tipo, dovessero continuare a condurre un’esistenza appartata rispetto alle persone del secolo. Era questo il caso della città egiziana di Ossirinco, che

    pullula di monaci; e attorno ad essa – nelle vicinanze – ce ne sono moltissimi altri. Anche gli edifici pubblici (che una volta potevano essere dedicati a delle divinità), i templi dell’antico errore, erano diventati ormai abitazioni dei monaci. V’erano in quella città più monasteri che case private. La città – com’è noto – è grande, piena di gente; conta la bellezza di dodici chiese; lì si raduna la popolazione cristiana, mente i monaci se ne stanno nei loro romitori, dove pregano in edifici a ciò destinati. Ma i monaci sono dappertutto: se ne trovano accanto alle porte, nelle torrette di guardia: non c’è posto ove non vi sia un monaco. In ogni parte della città essi si trovano a salmodiare; giorno e notte essi elevano a Dio la loro voce e i loro inni. Si direbbe che, data questa presenza capillare di monaci, la città intera sia un’unica chiesa²⁶.

    Il modello rappresentato da Ossirinco, città ‘purificata’ dalla presenza dei monaci, testimonia dell’ambivalenza del rapporto esistente fra questi ultimi e l’ambiente urbano, dal quale rifuggire ma in cui, se possibile, rientrare per sradicarvi i cattivi costumi e ogni tipo di devianza religiosa. Le vicende biografiche della filosofa alessandrina Ipazia, vissuta tra la fine del IV e i primi decenni del V secolo, mostrano come gruppi di monaci invasati e fanatici potessero irrompere sulla scena cittadina – spesso con l’incoraggiamento delle stesse gerarchie ecclesiastiche – per colpirvi obiettivi ‘sensibili’, quale ad esempio il Serapeion, considerato la roccaforte della resistenza pagana alla definitiva cristianizzazione della città, ovvero per ridurre al silenzio la locale comunità ebraica²⁷.

    Il problema doveva avere assunto una certa rilevanza in termini di ordine pubblico se, in una disposizione indirizzata nel 390 al prefetto del Pretorio per l’Oriente, Teodosio imponeva l’interdetto all’ingresso dei monaci nelle città, aggiungendo che essi dovevano rimanere confinati nei deserti e nelle ‘solitudini’ dove poteva opportunamente dispiegarsi la loro professio, intendendo con questo termine l’attuazione delle regole di una cittadinanza che non poteva sovrapporsi senza filtri a quella dei laici, ai cui bisogni spirituali avrebbe dovuto provvedere invece la Chiesa secolare (Zerbini 2005: 230-231)²⁸. La norma fu parzialmente abrogata due anni dopo, ma le ragioni che l’avevano sollecitata non dovevano essere venute meno dato che, nel 459, sempre in Oriente, l’imperatore Leone I scriveva al prefetto del Pretorio per notificargli che era proibito ai monaci introdursi in edifici pubblici o comunque destinati al pubblico intrattenimento situati all’interno delle città, recando con sé croci e reliquie, evidentemente con l’intento di trasformare l’utilizzo profano di quei luoghi. È interessante il fatto che la disposizione imperiale faccia riferimento all’esigenza che siano indicati i vescovi come esclusivi interlocutori dei pubblici poteri per decidere dove e come collocare nelle città oggetti e simboli sacri, anche in considerazione del fatto che, come il testo sottolinea, non mancavano di certo chiese a sufficienza per garantire le esigenze del culto²⁹.

    In sostanza, la legislazione tardoantica sembra prendere atto con piena consapevolezza del fatto che, se la Chiesa aveva optato in modo chiaro per una collaborazione con lo Stato, vi erano settori di essa, rappresentati soprattutto dal mondo monastico, che ritenevano ancora inattuata per buona parte la palingenesi cristiana della società del tempo. Questa componente integralista e militante della Chiesa si era polemicamente distaccata dalle sedi della vita associata, e in primo luogo dalle città, dandosi regole e stili di vita che riteneva più autenticamente aderenti alla parola di Cristo. Tuttavia, essa intendeva come proprio dovere influire sul mondo che aveva abbandonato, anche operando in esso azioni radicali e destabilizzanti che i pubblici poteri cercavano in tutti i modi di contrastare, chiamando il clero secolare a collaborare a tal fine. Peraltro, le fonti letterarie tardoantiche danno conto di diverse circostanze in cui gli stessi vescovi non si fecero scrupolo di avvalersi della collaborazione di monaci chiamati in città per perseguire l’abbattimento di propri avversari, magari sotto il pretesto che essi fossero sostenitori di posizioni eretiche, oppure semplicemente per contribuire all’eliminazione di resistenze alla piena e totale adesione al Cristianesimo di parte della popolazione (Lizzi 1987: 13-32; Brown 1995: 103-113).

    Fra ambienti monastici e gerarchia ecclesiastica, insomma, non vi era certo un fossato incolmabile, bensì numerose e articolate occasioni di interazione. Alcuni vescovi ritenevano che evocare i costumi di vita e le virtù dei monaci potesse conferire impulso all’opera di evangelizzazione delle città e quindi accrescere il controllo su di esse da parte dell’episcopato, nonché rafforzare il profilo morale del clero. Per questo motivo, durante il IV secolo, troviamo vescovi, come Atanasio ad Alessandria e Giovanni Crisostomo a Costantinopoli, che si fecero promotori e diffusori di biografie di santi monaci e altri, come Basilio a Cesarea di Cappadocia e, poco più tardi, Agostino a Ippona, che si impegnarono in prima persona per fondare comunità monastiche e scrissero testi pensati per fornire loro precisi riferimenti etici sul come condurre la vita ascetica e sul come organizzarsi per realizzarla praticamente (Scazzoso 1975: 286-294; Kannengieser 1998; Caner 2002: 158-205; Sterk 2004: 13-34).

    Ad esempio, il già ricordato dossier biografico di Ipazia si conclude con la violenta eliminazione fisica della filosofa per mano di gruppi di monaci inurbati e ufficialmente arruolati dal vescovo di Alessandria, Cirillo, nel corpo dei parabalani (cioè degli infermieri). La morte di Ipazia, peraltro, restò senza giustizia poiché, sebbene il governatore imperiale intendesse perseguirne gli autori, ne fu impedito dall’atteggiamento dell’imperatrice Pulcheria, sorella di Teodosio II, la quale si diceva avesse essa stessa assunto posizioni religiose assai intransigenti e adottato uno stile di vita ascetico, a imitazione di quello dei monaci le cui azioni si sarebbero dovute punire.

    Ad Antiochia, nel 387, il vescovo Flaviano aveva invitato in città i monaci dei dintorni per ammonire gli inviati di Teodosio I, nonno di Pulcheria, a non punire la plebe cittadina che aveva abbattuto le statue imperiali per protestare contro la carestia. L’autorità guadagnata fermando le ritorsioni imperiali fece sì che essi, durante gli anni seguenti, con la complicità del governo imperiale, avessero mano libera per spadroneggiare in città e, più in generale, per agire contro i templi pagani della Siria.

    L’oratore antiocheno Libanio, un pagano, lesse in questa situazione una minaccia alla stessa sopravvivenza dell’ordine costituito e, maledicendo i monaci, li stigmatizzò descrivendoli come

    una tribù in abito nero, che mangia più degli elefanti […], dilaga per le campagne come un fiume in piena […] e saccheggiando i templi, saccheggia anche le proprietà³⁰.

    In effetti, per un uomo come Libanio – un individuo di città educato ai valori della cultura tradizionale – doveva apparire mostruoso che persone prive di istruzione, venute dalle campagne più remote e che probabilmente non sapevano neppure parlare il greco, potessero prendere possesso della scena politica e addirittura mediare i rapporti della città con il governo imperiale. Ma, come dice Peter Brown, «grazie al monachesimo, l’idea cristiana aveva allargato il suo campo d’azione nelle province orientali. Aveva accolto copti e siriaci come eroi della fede e, con l’aiuto di traduzioni, i vescovi delle città avevano incoraggiato i non greci a prendere un interesse vivo per i loro problemi teologici» (Brown 1974: 87). In altre parole, le ‘città dei monaci’ sorte nelle terre più marginali di quelle province avevano aiutato il Cristianesimo fiorito nelle città del sæculum a uscire dalle proprie mura e a propagarsi nel territorio.

    Tornando in ambito alessandrino, non si può dimenticare che era stato proprio un predecessore di Cirillo sulla sede episcopale della città (Atanasio) a redigere la biografia di Antonio e a propagarne il modello di asceta senza compromessi. In sostanza, se i monaci erano quelli che avevano abbandonato la città in polemica con la sua natura di luogo generatore di corruzione, il loro richiamo o la loro evocazione da parte dei vescovi poteva costituire, per questi ultimi, un modo per presentarsi come i campioni di una fede che sapeva rimanere autentica nonostante la prossimità con il potere, guadagnata dal tempo di Costantino in poi. Una fede che, nelle città, avrebbe quindi potuto parlare con autorevolezza ai poveri che, non per scelta ma per destino, vivevano come Cristo, da reietti ai margini della polis (Siniscalco 1983: 234; Brown 1995: 136).

    Se i monaci vedevano le città come il luogo da cui rifuggire o, eventualmente, da purificare radicalmente, è evidente che, specularmente, nel desertum monastico non poteva introdursi chi non avesse abbandonato, in modo netto e definitivo, il secolo e le sue abitudini.

    A maggior ragione, quando ci si trovi di fronte a una comunità di monaci che conducono un’esistenza comune secondo norme prestabilite, il luogo ove essi vivono non può essere violato da chi non ha compiuto la loro identica professio. Il principio dell’aderenza del monaco cenobita alla regola vigente nello spazio della comunità cui egli appartiene è precisato al punto da porre stretti limiti alla possibilità che, oltre ai laici, persino monaci di comunità differenti – e quindi soggetti a regole diverse – possano introdursi tra i confratelli del monastero in cui egli vive:

    Un ospite di un altro monastero che abbia un’altra regola non mangi e non beva assieme ai monaci e non entri nel monastero, a meno che non si trovi nel corso di un viaggio³¹.

    Il medesimo concetto che associa l’appartenenza allo spazio distinto del monastero a una comunanza di costumi e a una condivisione di responsabilità è ripreso da Basilio di Cesarea che, alla fine del IV secolo, compila i testi normativi per i monasteri da lui fondati nell’Anatolia sud-orientale:

    Coloro che perseguono un fine identico trovano una quantità di vantaggi nel vivere insieme. In primo luogo, nessuno di noi può bastare a se stesso quanto ai bisogni materiali… Inoltre, tutti noi che siamo stati associati per vocazione entro un unico spazio, noi siamo un solo corpo che ha per testa il Cristo, e membra come siamo gli uni per gli altri, noi non entriamo nella costruzione d’un corpo unico nello Spirito Santo che attraverso la concordia… Il campo di battaglia, la via sicura verso il progresso, un esercizio continuo, la pratica assidua dei comandamenti del Signore, ecco cos’è anche una comunità di confratelli³².

    NOTE

    ¹ AI, 2, 9. Il passo, secondo Y.M. Duval (2009), riecheggerebbe proprio posizioni del pensiero di Porfirio.

    ² Un testo parzialmente recuperato all’interno dei rotoli di Qumran e parzialmente attraverso una tradizione manoscritta medievale (vedi Harrington 2004: 13-14).

    ³ AO, I, 7.

    ⁴ Mohrmann 1974: LXXVI. Il testo preso in considerazione è quello della vita latina di Antonio.

    ⁵ VA, 3, 2-4.

    ⁶ HM, prologus.

    ⁷ CONL, XXIV, 4.

    ⁸ HF, XXII, 3.

    ⁹ HF, XXVI.

    ¹⁰ HL, 16, 2.

    ¹¹ Chiarisce ulteriormente il concetto della dicotomia interattiva fra spazio monastico e città Lorenzo Perrone, nella sua introduzione alle Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, quando dice: «Dalle profondità del deserto il beneficio della vita monastica ricade anche sulla città, in forza della sua stessa vocazione di solitudine e preghiera. Tuttavia, il monachesimo è attratto verso di essa anche in altri modi, al punto che talora l’orizzonte della città viene a sovrapporsi a quello del deserto, col rischio di smarrire le ragioni fondamentali della scelta eremitica e di introdurre in questo ambiente una dialettica che risente piuttosto del mondo da cui si è usciti» (Perrone 1990: 70).

    ¹² VA, 42, 2-4.

    ¹³ VA, 8, 1.

    ¹⁴ HL, 48, 2.

    ¹⁵ Ricorda Rossi De Gasperis (1994: 248-269) che, nella testualità biblica, il topos del deserto è svolto soprattutto come rappresentazione dello stato di passaggio di Israele verso la conquista di una sede definitiva, centrata sulla edificazione di Gerusalemme, ispirata da Dio, luogo ove viene poi custodita la Sua legge. Il raggiungimento di luoghi ove edificare una nuova socialità, determinata dalla fuga mundi dei monaci alla ricerca di una piena attuazione della parola divina, non manca di riferimenti a questo concetto, che si materializzerà soprattutto – come vedremo più avanti – nella costruzione delle comunità cenobitiche. La fuga dalle città del secolo, immagini di Babilonia, non è insomma fine a se stessa, bensì mira alla costruzione di un percorso in direzione del ritorno a Gerusalemme.

    ¹⁶ VA, 85, 3-4.

    ¹⁷ VA, 89, 4.

    ¹⁸ VE, XXX.

    ¹⁹ AO, II, 5. In alcune lettere indirizzate a monaci egizi nella metà del IV secolo, da parte di persone che chiedevano loro di pregare per la salvezza della propria anima, traspare la convinzione che le orazioni dei monaci sarebbero state più ascoltate dall’Onnipotente perché essi, avendo abbandonato i clamori e la vanagloria del mondo, avevano già conquistato la cittadinanza celeste (Tibiletti 1979: 120).

    ²⁰ Sulle caratteristiche della figura dell’asceta nella letteratura cristiana siriaca si veda Griffith 1998.

    ²¹ HF, V, 1.

    ²² HL, 32, 1.

    ²³ CONL, XVIII, 10.

    ²⁴ Parere espresso a Giovanni Cassiano dall’abate egiziano Piamun, della comunità anacoretica della regione di Diolco, nel delta del Nilo (CONL, XVIII, 10).

    ²⁵ Una parte della critica ritiene che si tratti della traduzione operata da Rufino su un testo anonimo originariamente scritto in greco (Fedalto 20052: 176).

    ²⁶ HM, V.

    ²⁷ Ronchey 2010: 31-51. Analoghi episodi di disordini cittadini fomentati da monaci sono ricordati, nel 387, anche nella metropoli siriaca di Antiochia (Barzanò 1996: 248, n. 57), città alla quale è indirizzato, nel 471, dall’imperatore Leone I, un analogo provvedimento d’interdetto d’ingresso ai monaci, considerati «pervertitori degli animi semplici del popolo con consigli che mirino alla sedizione ed al tumulto» (CI, 1, 3, 29).

    ²⁸ CTh, 16, 3, 1.

    ²⁹ CI, 1, 3, 26.

    ³⁰ LO, XXX, 9.

    ³¹ HL, 32, 5.

    ³² BGR, 6.

    Capitolo secondo

    LUOGHI E FUNZIONI

    NEI PRIMI MONASTERI ORIENTALI

    Io non posso ricordarlo senza arrossire

    che gli anacoreti, sotto il pretesto dell’ospitalità

    e dell’accoglienza per gli stranieri,

    si sono messi a possedere

    nelle loro celle una coperta

    (Giovanni Cassiano, Conl., XIX, 6)

    Atmosfere, persone e spazi dei monasteri orientali raccontati dai contemporanei

    Visitando verso il 370 le inospitali lande della Tebaide egiziana, l’autore della Historia Monachorum (un occidentale identificato da molti studiosi con Rufino di Concordia), s’imbatté inaspettatamente nel monastero edificato dall’abate Isidoro. Alle severe sembianze dell’esterno faceva da pendant l’atmosfera di serena amenità dell’interno: un’oasi naturale, entro cui l’isolamento dei monaci dal mondo non era meno radicale rispetto a quello garantito dalle aspre rupi fra le quali si rifugiavano gli eremiti, ma dove era possibile contemplare ogni giorno i doni di Dio, accresciuti dal lavoro dei confratelli, e nutrire così con essi lo spirito e il corpo. Isidoro e i suoi monaci avevano ben scelto il loro angolo di deserto, per dimostrare che l’ascesi comunitaria poteva partorire un nuovo modello di societas umana, più giusta e in armonia con il creato e perciò più vicina a Dio. Il passo della Historia Monachorum che racconta la visita al monastero di Isidoro è forse la descrizione più precisa di un cenobio egiziano primitivo e vale la pena perciò leggerlo per intero:

    Nelle nostre successive scoperte, altro fortunato incontro: si era sempre nella Tebaide; il monastero che incontrammo – monastero celeberrimo – era quello del monaco Isidoro. In breve la descrizione: era attorniato da spazi molto ampi; lo rinserrava un muro di cinta. Si trattava di un monastero per uomini; a loro disposizione avevano discrete abitazioni. Dentro il recinto v’erano parecchi pozzi di buona acqua, giardini che potevano essere irrigati con poca fatica; c’erano piante di ogni specie; l’avresti detto un paradiso terrestre. Vi si trovava tutto quanto era necessario per la vita, a tutti gli usi, ed anche di più. Nessun monaco doveva avere delle ragioni per uscire fuori a cercare qualcosa che là mancasse; abbiamo detto che v’era di tutto. Un uomo, venerando di età, uno certo dei più degni, stava sempre alla porta a fare da guardiano. Il suo compito era quello di accogliere; ma si trattava di un’accoglienza tutta particolare: nessuno di quelli che volevano entrare poteva poi uscire; questa era la norma in vigore là. Se ad uno è parso bello entrare, sa che non ne uscirà mai più: legge inflessibile, norma inviolabile. Ma ciò che più suscita stupore è il fatto che coloro che vi son dentro non vi sono trattenuti da una legge inderogabile, ma dalla beatitudine che là entro si gode, e dalla perfezione cui si tende. Per la ragion detta, occorre aggiungere (per completezza) che il venerando custode poteva disporre lì presso l’uscio di una celletta ospitale, per accogliere gli avventizi, come potemmo fare ben presto esperienza. Non ci fu permesso entrare, com’è naturale, data la destinazione del monastero. Ma il vecchio ci raccontò quale fosse la beatitudine che là dentro si godeva. Ci raccontò: «Due soli uomini hanno la facoltà di entrare e uscire, per portar fuori i frutti del lavoro dei monaci, e per introdurre (quando del caso) ciò che là dentro non vi si trova. Tutti gli altri monaci se ne stanno in sacro silenzio, in tutta tranquillità, unicamente intenti alla preghiera, alle attività dello spirito, solamente preoccupati di crescere in santit໹.

    Una rappresentazione simile è fornita da Cirillo di Scitopoli per il monastero costruito in Palestina poco oltre la metà del V secolo dal monaco Fido presso il luogo in cui era stato sepolto l’abba Eutimio:

    Fido prese dunque un ingegnere, una folla di operai e di materiali e scese alla laura. Edificò un cenobio, lo circondò di mura e lo fortificò. Dell’antica chiesa fece un refettorio, vi fabbricò sopra la nuova chiesa, costruì anche una torre altissima e bellissima e nello stesso tempo fece sì che la cappella funebre fosse situata nel mezzo del cenobio.

    Il complesso monastico, oltre che cinto di mura, sfruttava un sito naturalmente in grado di garantire alla comunità che vi avrebbe abitato la necessaria separatezza, ma senza sottrarre agli occhi e al cuore dei monaci il dono della bellezza pura che Dio aveva profuso a piene mani:

    Cercherò di descrivere il luogo del cenobio, che è bello a vedersi a causa dell’eccellente livellamento del terreno, e propizio alla vita ascetica dei monaci per via del carattere ben temperato e moderato del clima. C’è dunque una piccolissima collina cinta a oriente e occidente da due minuscole vallette che vanno a congiungersi e si uniscono a mezzogiorno, Verso settentrione, un piano estremamente piacevole si spiega su circa tre stadi. A settentrione di questa piana, una forra cade a picco … È in questa pianura che s’innalza la torre e si erge la portineria del cenobio. Tutto questo luogo è improntato a dolcezza e assolutamente ammirabile poiché, come si è detto, gode di una temperatura media².

    La bellezza dei luoghi da sola però non basta. Perché i monaci possano davvero goderne, il sito in cui un monastero sorge deve poter produrre risorse sufficienti, affinché la vita della comunità non diventi impossibile. Sempre Cirillo, raccontando della laura fondata da Saba in Palestina nel terzo quarto del V secolo, ricorda che questi

    vegliava a che [scil. i monaci] avessero all’interno tutto il necessario, perché non fossero obbligati, a causa delle loro esigenze, ad uscire verso il mondo coloro che volevano ritirarsi dai tumulti del secolo³.

    Gli elementi di maggiore interesse che si evincono da questi testi sono rappresentati dall’evidente diversità ‘qualitativa’ dello spazio del cenobio rispetto ai luoghi in cui trovano rifugio gli eremiti. Quanto questi ultimi sono caratterizzati da condizioni ambientali di evidente e a volte quasi estrema durezza, contro le quali si misura la titanica e solitaria ascesa alla perfezione dell’atleta di Dio, tanto i cenobi spiccano per l’atmosfera quasi amena che vi si respira: qui si è sicuri di contare su risorse essenziali, come l’acqua, che permettono di creare spazi a giardino utilizzati anche come orti, in modo da garantire alla comunità l’autosufficienza alimentare; le abitazioni dei monaci, lungi dal configurarsi come spelonche o sepolcri o celle di minuscole dimensioni, sono definite discrete, sebbene non ne venga descritta l’organizzazione (se, ad esempio, fossero spazi collettivi o celle singole); infine, sono disponibili per tutti gli strumenti necessari per attendere alle attività quotidiane. Quest’ambiente rassicurante, sereno e funzionale è rigorosamente separato dal resto dello spazio circostante e, come abbiamo già visto parlando dei luoghi di ritiro degli eremiti, inaccessibile per chi non abbia compiuto l’irreversibile scelta dell’appartenenza o – potremmo dire – della cittadinanza alla comunità che abita questo eden dello spirito dal quale, come ricorda il passo di Cirillo di Scitopoli, sono bandite anche le infermità corporali e la morte giunge come un sereno e consapevole trapasso. Il confine fisico del muro di recinzione e lo snodo cruciale della soglia d’entrata – costantemente sorvegliata – costituiscono l’elemento indispensabile affinché gli equilibri interni non siano turbati dall’irruzione di elementi esterni e grazie al quale chi si trova entro le mura non abbia più ragione d’immischiarvisi.

    Per comprendere ancor meglio il senso dell’alterità dello spazio monastico rispetto all’esterno è interessante leggere un altro passo della già citata Vita di Eutimio in cui si narra di un uomo che, accolto nel monastero costruito sulla tomba dello stesso Eutimio, si era introdotto nottetempo nella cappella funeraria trafugando da essa «l’urna del padre taumaturgo». Servendosi di alcuni muli di proprietà dei monaci cercò di allontanarsi con la refurtiva, ma la mattina dopo fu trovato immobilizzato dal portinaio davanti alla porta del monastero. Richiesto dai monaci di spiegare quanto era successo, confessò:

    Ho camminato in lungo e in largo per circa trenta miglia e alla fine, totalmente affranto, non ho potuto varcare i confini del monastero⁴.

    La legge di Dio, che governa il monastero, impedisce che un crimine giunga ad effetto, rendendo miracolosamente invalicabili i suoi confini per chi lo ha commesso, sino a che questi non compia piena ammenda per le proprie azioni.

    La minuziosa descrizione dei confini dello spazio cenobitico occupa tutta la seconda parte del testo della Regola di Pacomio⁵. I limiti fra l’esterno e l’interno di esso sono costituiti al contempo da elementi fisici (muri, soglie, porte) e da barriere più immateriali che i monaci erigono fra sé e gli altri, ad esempio con il divieto di parlare con le persone del mondo esterno e perfino di guardarle o condividere con esse oggetti e cibo. Se un monaco, per qualche ragione, si fosse dovuto recare all’esterno del monastero, una volta rientrato fra le sue mura doveva assolutamente tacere con i confratelli su ciò che aveva visto. Quando i monaci erano obbligati a recarsi al di fuori del monastero per lavorare, dovevano incessantemente recitare fra sé passi delle Scritture, cosa che li aiutava a difendersi contro sguardi e parole lanciati da chi potesse incontrarsi all’esterno⁶.

    Naturalmente a nessuno era consentito

    andare nei campi o […] andare al di là delle mura del monastero senza aver prima richiesto – e ricevuto – il permesso del padre posto alla guida di esso⁷.

    L’ingresso di un nuovo membro della comunità era scandito da un complesso succedersi di passaggi, atti a verificare l’adattabilità del soggetto alla nuova vita che intendeva intraprendere. Il primo gradino era costituito dall’attesa cui egli dovrà sottostare, rimanendo per un certo periodo «fuori della porta». In questo frattempo, egli dovrà apprendere il maggior numero possibile di preghiere e salmi; quindi, gli sarà chiesto che posto egli abbia occupato nel mondo esterno che si accinge a lasciare e, soprattutto, se egli sia disposto ad abbandonare beni materiali e legami familiari, questi ultimi considerati parimenti incompatibili con la vita monastica quanto lo è il desiderio di possesso delle ricchezze e degli onori terreni. Quindi, concluso l’esame sulla vita pregressa del candidato, lo si istruisce su quella che egli dovrà condurre nel monastero e sulle mansioni che sarà chiamato a espletare. Solo al compimento di questo iter, il candidato sarà sottoposto alla simbolica svestizione dai panni con cui era entrato nel cenobio, e all’abbigliamento con i nuovi abiti monastici⁸. In questo caso, si può dire, ‘l’abito fa il monaco’, nel senso che esso ricopre un corpo in cui alberga un’anima che si presume abbia già compiuto il passaggio da un mondo a un altro.

    È cruciale a questo proposito l’insistenza con

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