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La Roma segreta dei papi
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E-book635 pagine8 ore

La Roma segreta dei papi

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Alla scoperta delle tracce pontificie nell'arte e nell'urbanistica della Città Eterna

La storia della Capitale è anche la storia dei suoi pontefici

Roma e i suoi papi sono inscindibilmente legati l’una agli altri da un millenario rapporto di reciproca dipendenza, quasi di amore e odio. È impossibile pensare alla città e alla sua storia, ai suoi splendori e alle sue miserie, senza considerare questa viscerale relazione. Così come, del resto, non sarebbe storicamente coerente ricostruire le molteplici vicende pontificie senza cercarne cause, conseguenze e tracce nell’urbanistica e nella cultura romane. Le pagine di questo volume ripercorrono gli interventi artistici, architettonici e urbanistici promossi da quattordici papi così come i momenti più salienti delle biografie di questi sovrani, politici, costruttori, nepotisti, filosofi, santi, collezionisti, ingordi o frugali personaggi. Un libro che accompagnerà la vostra visita alla città: una guida per seguire tracce e indizi di una Roma segreta e accattivante, modellata dagli interventi papali, che si rivelerà al vostro sguardo curioso mentre la percorrerete.

Tra le storie segrete:

• Il «maggior Piero»: i primi passi di un lungo cammino (30-67)
• Silvestro I, domatore di draghi (314-335)
• Leone I Magno e gli incubi di Attila (440-461)
• Gregorio Magno, monasteri e processioni (590-604)
• Niccolò III Orsini e il Magister Cosmatus (1277- 1280)
• Paolo II Barbo, un ghiotto collezionista (1464-1471)
• Sisto IV Della Rovere e la renovatio urbis (1471-1484)
• Gregorio XIII Boncompagni e la cartografia (1572-1585)
• Alessandro VII Chigi e il «mal della pietra» (1655-1667)
• Pio IX Mastai Ferretti e i lavori pubblici (1846-1878)
• Francesco: da Buenos Aires a Santa Marta (2013 - )
Gabriela Häbich
ha studiato Filosofia e Communication Studies. Ha lavorato per diversi anni nel mondo universitario come docente e direttrice accademica di un Dipartimento di Arte. Gli studi post-laurea l’hanno portata alla progettazione e gestione di politiche culturali, cui si dedica dal 2001. È responsabile dei progetti di GoTellGo, associazione per la quale cura anche il disegno di itinerari urbani.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2017
ISBN9788822715104
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    Anteprima del libro

    La Roma segreta dei papi - Gabriela Häbich

    Premessa

    Aprenderé tu inmenso tablero de memoria

    como la más sencilla lección de geometría.

    Y entonces gozaré de la pequeña gloria

    de sentir mi ciudad completamente mía.

    Jorge Luis Borges

    Sono straniera, ma non a Roma. Ho percorso le strade di questa città infinite volte, cercando, osservando, interrogandomi, prendendo nota, fotografando, sorprendendomi, emozionandomi, arrabbiandomi, scendendo dall’autobus per guardare una cosa che, sebbene vista mille volte, a un tratto mi era sembrata nuova, sconosciuta, misconosciuta o addirittura rinnegata. Informandomi e imparando è venuto alla luce ciò che la mia ignoranza aveva reso invisibile e piano piano ho iniziato a vedere la città.

    Il conoscere dettagli storici, la possibilità di datare un luogo o un evento, di assegnare a un’opera l’autore, o a un manufatto lo stile, hanno portato a galla ciò che mi era rimasto fino ad allora nascosto. Le facciate delle chiese più antiche hanno iniziato a ritrovare ciascuna la propria facies originaria e minuti dopo indossavano di nuovo la facciata attuale. Forse è questa la vera stratigrafia romana.

    E dalla toponomastica – piazza Pio xi, via Gregorio vii, piazza Mastai – sono venuti a galla i papi. Non è semplice per chi osserva la città individuare i nomi dietro a ogni stemma pontificio, cardinalizio, regale o nobiliare. Anche ciò che riguarda quanto edificato e commissionato dai pontefici è succube della stratigrafia. La tentazione di sdrammatizzare giocando e di sovvertire e mescolare fra loro secoli e pontificati si fa irresistibile. Allora, in un crudele anacronismo, dalla loggia di Castel Sant’Angelo, Giulio ii della Rovere (che aveva fatto aprire la loggia che porta il suo nome) o il non lontano successore Paolo iii Farnese (che nel castello aveva dei meravigliosi appartamenti), o magari entrambi, insieme, assistevano all’atroce esecuzione capitale della povera Beatrice Cenci e dei suoi familiari, ordinata dal loro categorico successore Clemente viii Aldobrandini. Gregorio Magno, parco nel cibo, redarguì il gaudente Paolo ii Barbo mentre nei giardini di Palazzo Venezia s’ingozzava dei meloni che gli avrebbero prodotto una mortale indigestione. Alla stazione Termini, Pio ix strinse la mano di Martino v e di Sisto iv riconoscendoli, con invidia e ammirazione al tempo stesso, come restauratores urbis e spiegando loro il proprio progetto di rinnovamento urbanistico della città e di come invece fosse stato fermato dalla Repubblica Romana, dall’Unità d’Italia e da Roma Capitale. Ma comparì un Sisto v inferocito per la demolizione della sua amata Villa Montalto e i suoi predecessori si volatilizzarono lasciandolo da solo a fare i conti con papa Mastai Ferretti. Benedetto xiv ordinò l’apertura di grotte per la conservazione del vino e possiamo immaginare che Paolo iii Farnese non solo non avrebbe declinato l’invito ma anzi, vi sarebbe andato accompagnato dal suo bottigliere Sante Lancerio. Nella residenza Santa Marta di papa Francesco, sono così comparsi anche i cuochi di Martino v – Johannes Bockenheym –, e di Paolo ii – Martino da Como –, pronti entrambi a preparare un pantagruelico pranzo per omaggiare l’argentino, venuto da un continente che ai loro tempi non era stato ancora scoperto… però, conoscendolo da vicino, il papa venuto dalla fine del mondo non accetterebbe il luculliano festeggiamento e costringerebbe i due a mangiare con lui alla mensa, forse con piatti di carta.

    Non vi spaventate, cari lettori. Dopo tutte queste apparizioni ognuno è stato messo al proprio posto. Ma duecentosessantasei papi sono troppi e un’accurata cernita ne ha lasciati nel libro solo quattordici. Gli altri sono rimasti a bussare nel cassetto della scrivania.

    E adesso, prima di lasciarvi alla lettura, due parole sui criteri. Ho evitato aprioristici toni sia agiografici e apologetici, sia anticlericali e polemici, tutti frequenti nelle fonti consultate. Roma e i suoi papi sono così, inscindibilmente legati l’una agli altri da un millenario rapporto di reciproca dipendenza, di amore e odio per la figura del pontefice che è stato tanto restaurator urbis quanto «papa re». Per me, l’autrice, l’osservazione ha preceduto e poi guidato la scrittura; per voi lettori si verificherà il processo inverso, cioè sarà la mia scrittura ad accompagnare l’osservazione. Libro alla mano, direttamente sul posto, il volume vuole offrirvi quanto di nascosto c’è in ciò che vediamo e che a volte addirittura crediamo conoscere. Non che mancassero guide di tal genere, ovvio. Eppure, che io girovagassi alla ricerca di spunti descrittivi o che io mi dirigessi dritta allo scopo cercando tombe, reperti, pezzi da museo e quant’altro potesse rendere queste pagine meno scontate, mi sono imbattuta in sorprendenti lacune, spiacevoli ostacoli, inaspettate imprecisioni. Ecco perché mi sono presa la piacevole briga di soffermarmi su cicli di affreschi mai descritti prima d’ora in modo sistematico, o di contattare fino allo sfinimento gentili funzionari che potessero aprirmi le porte di sale e gallerie chiuse al pubblico, o di fare garbatamente notare che quel tale ciclo decorativo il cui contenuto si dice sia sacro, be’, piuttosto è profano… Criteri di scelta: la Roma nascosta dei papi, ciò che non riusciamo a vedere perché non lo conosciamo, perché l’ignoranza rende ciechi e nasconde «il visibile». Via del Corso può essere qualcosa di più che una strada di negozi dove fare shopping: però senza gli strumenti e i dati adeguati non riusciremmo mai a riconoscere in essa la via delle corse di carnevale nel Rinascimento.

    La passione e l’ironia sono presenti in queste righe. Senza per questo voler ridicolizzare, minimizzare, né tantomeno dissacrare. Solo per sentire più vicini personaggi di un passato ormai irrimediabilmente lontano, eppure tuttavia ancora così presenti, ingombranti, vivi, comunque in mezzo a noi. E adesso i tanto noiosi – per il lettore – quanto doverosi – per l’autrice – ringraziamenti. A Chiara Morabito, compagna di avventure nella città, per il supporto morale, intellettuale, linguistico ed enologico senza il quale il libro non avrebbe mai visto la luce; a Maria Teresa Natale, instancabile cacciatrice di «chicche», per la professionale e generosa revisione del testo; a Franca Damian, la badessa Carmela, per le correzioni del mio italiano e le spiegazioni grammaticali ed etimologiche di ogni cambiamento suggerito; a Gennaro Cassiani, bisbetico correttore, senza il quale questo progetto non sarebbe mai arrivato alle mie mani; ai colleghi di Appasseggio, fonti inesauribili di aspetti nascosti della città. E infine a Nico e Orsi che mi hanno sopportata e supportata. Ma anche a Roma, città disposta a lasciar vedere quanto credevamo nascosto.

    Il «maggior Piero»: i primi passi di un lungo cammino

    Non pare indegno ad omo d’intelletto;

    ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero

    ne l’empireo ciel per padre eletto:

    la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,

    fu stabilita per lo loco santo

    u’ siede il successor del maggior Piero.

    Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto ii, vv. 19-24

    Pietro di Betsaida (2. d.C. ca.-67 d.C.)

    Ma chi fu davvero il primo papa della Storia? Forse Pietro, giunto a Roma intorno al 54 d.C. e condotto al martirio nel 64 o nel 67? O forse il suo «successore», san Lino di Volterra, morto intorno al 76? O forse il romano san Cleto, fra il 76 e l’88? Davvero difficile a dirsi. Ci vorranno quattro secoli, almeno fino a Leone i , papa fra il 440 e il 461, perché si possa parlare ufficialmente di soglio pontificio e di ministero petrino. Eppure tutti, dal fedele più devoto all’ateo più scettico, considerano Pietro il primo papa della Storia.

    E pertanto, storicamente vero o falso che sia, noi che crediamo a quanto diceva Marc Bloch¹, cioè che l’errore storico merita comunque di essere considerato oggetto di studio, non spostiamo dunque in avanti le lancette della storia pontificia e iniziamo il nostro percorso nella storia dei papi proprio da Pietro. Più che del suo pontificato, però, parleremo del suo soggiorno romano e della rappresentazione della figura petrina nella storia dell’arte romana.

    pietro primo apostolo

    Simone Bar Giona, detto poi Cefa o semplicemente Pietro, nasce a Betsaida, sul lago di Gennesaret, fra il 2 e il 4 d.C. In età adulta si trasferisce a Cafarnao, sulle sponde del lago di Galilea, esercitando il mestiere di pescatore insieme al fratello Andrea. Viene chiamato da Cristo, che vede i due fratelli pescare insieme: «Seguitemi e io farò di voi pescatori di uomini. Essi, lasciate subito le reti, lo seguirono» (Mc 1, 17-18).

    Pietro è un uomo impetuoso, passionale e leale², ma ha anche un lato oscuro: più volte, durante l’apostolato, è tormentato dalla paura e da dubbi angosciosi e vacilla fino a rinnegare Cristo, come preannunciatogli dallo stesso Salvatore durante l’Ultima Cena. Però dopo la morte di Gesù qualcosa cambia e Pietro inizia a essere un uomo più sicuro di sé: è l’autore del primo miracolo dopo la morte di Cristo, la guarigione dello storpio davanti alla porta del Tempio, e della prima conversione di un gentile, il centurione Cornelio.

    Fra il 42 e il 54 d.C. giunge a Roma, ospite tanto di uomini importanti quanto di gente comune. Subisce la prigionia, anche insieme a Paolo, contrasta le false dottrine, evangelizza e predica. Ancora una volta, attanagliato dal dubbio e dalla paura, tenta di fuggire dalla città e dal suo destino quando la visione di Gesù lo ferma e la risposta alle sue parole «Domine, quo vadis?» lo trattiene a Roma: «Eo Romam, iterum crucifigi», «Vado a Roma, per essere nuovamente crocifisso». Pietro comprende, questa volta definitivamente, lo scopo e l’altezza della sua missione e torna indietro perché sia fatta la volontà di Dio (dagli apocrifi Atti di Pietro). Un detto latino-americano si attaglia alla perfezione al destino di Pedro: «Si naciste para martillo, del cielo te caen los clavos» (se sei nato per essere martello, dal cielo ti arriveranno i chiodi).

    Così, Pietro diventa a Roma capo della comunità cristiana e dopo aver realizzato numerosi miracoli e aver ottenuto svariate conversioni, muore crocifisso. La tradizione fissa la data del martirio al 29 giugno dell’anno 67 d.C., nello stesso giorno in cui, nel luogo dove sorgerà l’abbazia delle Tre Fontane, Paolo viene decapitato.

    L’iconografia petrina riporta i momenti più rilevanti con i quali la Storia, le Scritture e le leggende hanno costruito e caratterizzato il Principe degli Apostoli: i dubbi e la paura (Pietro è salvato da Gesù dopo non essere riuscito a camminare sulle acque; Gesù annuncia a Pietro che lo rinnegherà tre volte prima che canti il gallo; Pietro incontra Gesù sulla via Appia mentre fugge da Roma); il primato petrino (Gesù affida a Pietro il gregge cristiano; Pietro riceve le chiavi del regno dei cieli); le azioni dell’apostolato del santo (Pietro fa convertire il centurione Cornelio; Pietro stecchisce Anania e Safira con i suoi rimproveri; Pietro battezza Cornelio, Prisca, Pudenziana, Prassede, Nereo, Achilleo, Processo, Martiniano e tanti altri; Pietro ha una disputa con Simon Mago); e il martirio (Pietro, incarcerato, è liberato da un angelo; Pietro fugge e viene catturato per la seconda volta; Pietro subisce il martirio). Ma l’iconografia ci regala anche numerose apparizioni del Principe degli Apostoli dopo la sua morte, da solo o in coppia con san Paolo.

    Luoghi di san Pietro a Roma

    Ovviamente le tracce di san Pietro, apostolo e primo vescovo di Roma, si trovano in primis nelle basiliche e chiese che portano il suo nome: San Pietro in Vaticano, in Montorio e in Vincoli. Tuttavia, tante altre chiese, monumenti, siti archeologici, bassorilievi, affreschi e sculture parlano di lui. Roma è la città di Pietro e in essa egli è ubiquo.

    basilica di san pietro in vaticano (piazza san pietro)

    Facciata della basilica

    Nonostante Pietro sia l’uomo del dubbio, Gesù – che ben conosce il destino del suo apostolo – gli consegna le chiavi del regno dei cieli: «E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’Ade non la potranno vincere. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 18-19). Simone diventa Pietro.

    Sotto il balcone della imponente Loggia delle Benedizioni della facciata di Carlo Maderno non poteva che stare la Consegna delle chiavi, un altorilievo marmoreo del milanese Ambrogio Buonvicino scolpito tra il 1612 e il 1614, quando ormai i lavori barocchi erano prossimi alla conclusione. Nel rilievo Cristo consegna a Pietro le chiavi (una delle quali gli pende dal braccio): il paesaggio è scarno, quasi assente, e gli apostoli – solo in dieci – si somigliano tutti.

    Sarà invece san Pietro a donare a sua volta le chiavi a uno dei suoi successori, Eugenio iv Condulmer (1431-1447), committente del grandioso portale bronzeo (1439-1445) realizzato dallo scultore e architetto Filarete. La consegna è narrata nei due riquadri mediani dei sei complessivi che raccontano le Storie del pontificato di Eugenio iv. Se i due riquadri mediani presentano il Principe degli Apostoli e l’Apostolo dei Gentili con tono essenziale e tocco sintetico, i due in basso, invece, raffigurano le scene dei rispettivi martirî (a sinistra Paolo e a destra Pietro): con scarto stilistico inevitabile, data la drammaticità delle scene, non possono che essere animati dal dettaglio narrativo e dal ritmo visivo al limite della concitazione.

    Però, quando si parla di consegna delle chiavi è un altro Pietro a venirci in mente: il Perugino e il suo affresco tardoquattrocentesco nella cappella Sistina. È questa la rappresentazione che torna a galla (un po’ consumata da un’iperpresenza in gadget e souvenir, ma non per questo meno bella) a dare forme e colori all’episodio, tanto si è radicata nella nostra mentalità. Forme e strutture inevitabilmente classiche, pertanto; verso il punto di fuga su cui è posto il tempio, fulcro della religione cristiana, convergono lo sguardo dello spettatore e il sentire dei fedeli.

    Dovete tenere a mente almeno due personaggi raffigurati dal Perugino ne La consegna delle chiavi che ci accompagneranno durante alcuni dei nostri percorsi a Roma: Giovannino de’ Dolci e Andrea Bregno. L’architetto ed ebanista de’ Dolci sarebbe l’uomo all’estrema destra, col mantello rosso gettato sulla veste verde e con la squadra in mano; al suo fianco, l’uomo vestito di blu, con il compasso rovesciato in mano, sarebbe invece l’architetto e scultore Andrea Bregno.

    Oltre a consegnare a Pietro le chiavi del Regno, Gesù gli affida le sue pecore: questo momento è immortalato sopra la porta del Filarete in un rilievo opera del Bernini e aiuti (1633-1644) intitolato, appunto, Gesù che affida a san Pietro il gregge cristiano,: «[…] Pasci i miei agnelli. Gli disse di nuovo, una seconda volta: Simone di Giovanni, mi ami?. Egli rispose: Sì, Signore, tu sai che ti voglio bene. Gesù gli disse Pastura le mie pecore. Gli disse la terza volta: Simone di Giovanni, mi vuoi bene?. Pietro fu rattristato che egli avesse detto la terza volta Mi vuoi bene? e gli rispose: Signore, tu sai ogni cosa; tu conosci che ti voglio bene […]» (Gv 21, 15-17).

    Le rappresentazioni di momenti della vita leggendaria di Pietro si estendono anche a monete e medaglie. Non è quindi da trascurare la numismatica: più che un dettaglio erudito, lo studio del conio di questi piccoli oggetti celebrativi rivela la mentalità e i contenuti delle culture che hanno prodotto quelle stesse monete. E anche le scritte in esse apposte possono essere rivelatrici: per esempio, nella misura classicheggiante dei caratteri che scorrono su una moneta coniata da Sisto iv Della Rovere (1471-1484) possiamo leggere facilmente le parole «Pasce oves meas Sixtus iiii an. 1475» e, nell’eleganza e nella misura dell’equilibrio che compone insieme lettere e immagini, rintracciamo il passaggio dall’età gotica all’Umanesimo. Sul recto gli apostoli navigano in acque agitate da venti che soffiano ai lati e Gesù a destra salva Pietro che sta per annegare; sul verso Gesù e Pietro, nimbati, stanno in piedi accanto al gregge che pascola nei campi, mentre raggi luminosi calano dall’alto e in basso, sorretto da angeli, si trova lo stemma del papa sormontato dalle chiavi decussate³.

    Museo storico-artistico del Tesoro di San Pietro

    Navicella, frammento di mosaico, Giotto, 1305-1315.

    Nonostante Pietro maturi abbastanza presto la coscienza della propria missione, quasi fino alla fine della sua vita egli è l’uomo del dubbio, sempre scisso, quasi lacerato, fra la libertà personale e un destino predeterminato. Così, per esempio, lo incontriamo nel Vangelo di Matteo (14, 26-32):

    E i discepoli, vedendolo camminare sul mare, si turbarono e dissero: «È un fantasma!». E dalla paura gridarono. Ma subito Gesù parlò loro e disse: «Coraggio, sono io: non abbiate paura!». Pietro gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire da te sull’acqua». Egli disse: «Vieni!». E Pietro, sceso dalla barca, camminò sull’acqua e andò verso Gesù. Ma, vedendo il vento, ebbe paura e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». Subito Gesù, stesa la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». E quando furono saliti sulla barca, il vento si calmò.

    L’episodio è stato raffigurato da Giotto, tra il 1305 e il 1315, nel celebre mosaico della Navicella per il quadriportico antistante la basilica di San Pietro: mosaico purtroppo maldestramente asportato durante il xvii secolo e rimpiazzato da una riproduzione realizzata durante il pontificato di Alessandro vii Chigi (1655-1667). Ne rimangono due soli tondi con angeli, belli ma pur sempre frammenti, disegni e riproduzioni successivi che ci restituiscono un pallido ricordo dello splendore originario. Uno dei due angeli si trova al Museo del Tesoro di San Pietro.

    Ma San Pietro che cammina sulle onde è raffigurato in un altro mosaico della basilica costantiniana, nel secondo gran pilone: sopra l’altare troviamo una rappresentazione musiva della navicella con san Pietro quasi sommerso dalle acque e Gesù che viene in suo soccorso. Venne realizzato dal mosaicista Pietro Paolo Cristofari nel 1727 su un disegno originale di Giovanni Lanfranco.

    Il motivo della navicella di san Pietro si ripete anche in medaglie coniate da diversi pontefici del Cinquecento: Paolo iv Carafa (1555-1559), Pio v Ghislieri (1566-1572), Gregorio xiii Boncompagni (1572-1585) e Sisto v Peretti (1585-1590).

    Il Gallo vaticano, bronzo, secoli viii-ix.

    Culmine del travaglio spirituale di Pietro è il rinnegamento, previsto e preannunciato da Gesù allo stesso Pietro immediatamente dopo la Santa Cena: «In verità ti dico che tu, oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo abbia cantato due volte, mi rinnegherai tre volte. Ma egli diceva più fermamente ancora: Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Mc 14, 30-31). Dopo la cattura di Cristo «Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle serve del sommo sacerdote; e, veduto Pietro che si scaldava, lo guardò bene in viso e disse: Anche tu eri con Gesù Nazareno. Ma egli negò dicendo: Non so, né capisco quello che tu dici» (Mc 14, 66-67). E così ancora per due volte, anche davanti ad altre persone. Subito dopo Pietro sente il gallo cantare per la seconda volta, allora si ricorda delle parole di Gesù, e si abbandona al pianto, in un umanissimo e commovente cedimento.

    Il Museo del Tesoro della basilica vaticana conserva un gallo in bronzo dorato databile fra i secoli viii e ix (ma la doratura risale al 1630), già in cima al campanile della vecchia basilica di San Pietro. A differenza di altri galli anemoscopi che, svettanti sulle cime delle chiese (a Roma, in Italia, in tutta Europa) a partire dal ix secolo, leggeri si muovevano appunto seguendo lo spirare dei venti, il bronzeo gallo vaticano era troppo pesante per assecondare le correnti d’aria. Piuttosto esso aveva una funzione semplicemente decorativa e la cura con cui sono stati resi il folto piumaggio, la fiera coda, l’erta cresta, il vitreo occhio, il puntuto becco e i pendenti bargigli sta lì a dimostrarlo. In quarantasei chilogrammi di peso sono condensate maestria artigianale e abilità tecnica, per un manufatto di sessantanove centimetri di altezza e diciannove di larghezza: sono proprio le dimensioni, unitamente alla perizia degli autori, a rendere il gallo nostrano unico, nel suo genere, nel panorama dell’intera scultura bronzea medievale europea⁴.

    Navata mediana della basilica di San Pietro

    San Pietro, statua di bronzo, Arnolfo di Cambio, fine xiii secolo-inizio xiv secolo.

    All’altezza dell’ultimo pilastro di destra, su una cattedra marmorea, troviamo una delle più venerate immagini di Pietro: la statua bronzea del santo, seduto e benedicente in rappresentanza dell’autorità morale del papato. Dopo secoli di ardite discussioni tra gli storici dell’arte sulla datazione e sull’autore della statua, in particolare tra il Settecento e il Novecento, oggi si può attribuire l’opera – scartando definitivamente l’ipotesi tardoantica – alla committenza di Bonifacio viii Caetani (1294-1303) e alle mani del magister architectus Arnolfo di Cambio e dell’esperto bronzista Rubeus. Entrambi avevano già lavorato insieme alla realizzazione delle due fontane della piazza Maggiore di Perugia e così, per la realizzazione dell’importante commissione bronzea del papa, Arnolfo volle di nuovo al suo fianco Rubeus.

    Probabilmente, la statua di Pietro è stata realizzata a partire da un pezzo antico riutilizzato come modello (Arnolfo ha un’eccezionale capacità di riprodurre l’antico e di variarlo in una chiave tutta personale): viene quindi fatto un calco sul quale si stende la cera che Arnolfo e i suoi aiutanti rielaborano. Rubeus è il responsabile della fusione.

    All’osservatore la scultura di san Pietro appare come un pezzo pieno, però non è così. Se potessimo spostarla per guardarne il retro, scopriremmo che è cavo. Questa è una delle caratteristiche dei lavori arnolfiani: anche la scultura del Bonifacio viii giacente, eseguita per il sacello del papa, presenta tale peculiarità. Non pensate a un risparmio sui materiali o sul tempo di realizzazione delle opere: si tratta di ben altro. Siamo davanti a un’elaborata tecnica che risponde all’approfondito studio delle leggi ottiche: «in Arnolfo è lavorato solo ciò che si vede, sino al punto in cui lo si vede e secondo l’effetto ottico determinato dal punto o dai punti di vista prestabiliti, di volta in volta, in relazione all’effettivo luogo o modo di collocazione dell’opera»⁵. Arnolfo è un demiurgo, un artefice delle condizioni di base della realtà: modella gli elementi virtuali dell’oggetto sui quali si potrà posare lo sguardo dell’osservatore per attualizzarli⁶. L’oggetto esiste solo nella misura in cui viene guardato: dove l’occhio non può arrivare c’è il nulla.

    La statua è oggi posta nell’ampio spazio della navata mediana della basilica lungi dalle condizioni spaziali per le quali era stata disegnata nell’antico oratorio di San Martino, demolito a metà del Quattrocento. La statua di Pietro è oggi lontana da quella che si rivelava all’osservatore, a «colpo d’occhio», nella sua collocazione trecentesca. Qualche elemento percettivo previsto da Arnolfo, tuttavia, è rimasto: le superfici del bronzo sono state modellate per essere ripercorse da sguardi che si sarebbero alzati dal basso verso l’alto mentre l’osservatore si sarebbe avvicinato durante la cerimonia del «bacio del piede». La secolare ripetizione di questo gesto di ossequio è immortalata nel bronzo degli arti petrini che pian piano vengono consumati da baci e rispettose carezze.

    Anulus piscatoris

    I Romani Pontefici, per mantener sempre viva la memoria di essere i Successori di un povero Pescatore, a cui fu da Gesù Cristo accordata la suprema potestà di governare la Chiesa, introdussero l’uso di prevalersi, per suggellare le loro lettere segrete, di un Anello, chiamato Pescatorio, perché vi era rappresentato il Principe degli Apostoli entro una Navicella, in atto di tirare le reti da pesca. Dal volgo troppo credulo, ed imperito, erroneamente si crede, che se ne sia servito il medesimo S. Pietro. Ma qual ne sia la vera origine […], non potersi da veruno accertare, mancandone i documenti.

    Clemente iv Foucois (1265-1268) è probabilmente il primo papa a menzionare l’anello piscatorio: nel 1265 scrive a un suo parente «non scribimus sub Bulla, seb sub Piscatorio Sigillo, quo Romani Pontifices in secretis utuntur». Ma fino a quando l’uso si limita alla corrispondenza privata? Alcuni chiari indizi di mutamento nell’uso dell’anello compaiono nella corrispondenza di Martino v Colonna (1417-1431) nella quale risulta spesso nominato al di là della segretezza: a un vescovo anonimo dirige un breve «apud SS. Apostolos, sub Anulo Piscatoris»; lo stesso riguardo all’arcivescovo di Gnesna (nell’attuale Polonia) e a Giuliano Cesarini, al quale scrive sub Anulo, dopo averlo nominato cardinale.

    L’Anulus piscatoris continuerà comunque a essere utilizzato per garantire l’autenticità di quanto scritto ufficialmente e ufficiosamente dai pontefici. L’anello viene realizzato ex novo per ciascun pontefice: in oro, con l’immagine di san Pietro nell’atto di gettare le reti per la pesca e con il nome del neopapa inciso. Durante la solenne celebrazione d’inizio del pontificato, il cardinale Decano del Sacro Collegio infila l’Anello del Pescatore all’anulare del nuovo papa. Invece, alla morte del papa, fino a Giovanni Paolo i Luciani (1978), il Camerlengo lo sfilava dal dito del pontefice defunto e, alla presenza dei rappresentanti del Collegio dei Cardinali, lo spezzava. Da Giovanni Paolo ii (1978-2005) in poi, l’Anulus piscatoris non viene spaccato bensì biffato attraverso una rigatura che ne impedisce simbolicamente l’utilizzo. Qualcosa cambierà ancora con papa Francesco.

    Tomba di san Pietro

    Cent’anni dopo il martirio dell’Apostolo, verso la fine del ii secolo, il presbitero Gaio costruì una piccola edicola funeraria dove, in una tomba terragna, erano state sepolte le ossa di Pietro. Con l’edicola, chiamata sucessivamente Trofeo di Gaio, veniva indicata ai primi cristiani dove fosse la tomba del primo vescovo di Roma, meta di devoti pellegrinaggi già prima di Costantino. L’edicola del presbitero venne racchiusa da Costantino in una teca marmorea che Eusebio di Cesarea ricorda nella sua Teofania come «uno splendido sepolcro davanti alla città, un sepolcro al quale accorrono, come ad un grande santuario e tempio di Dio, innumerevoli schiere da ogni parte dell’impero romano». Sul monumento-sepolcro di Costantino si edificarono in seguito, praticamente sovrapposti, l’altare di Gregorio i Magno (590-604), l’altare di Callisto ii (1119-1124) e infine, nel 1594, l’altare di Clemente viii (1592-1605), che verrà successivamente coperto dal baldacchino del Bernini.

    Si potrebbe considerare che la tomba di Pietro sia questo insieme di altari sovraposti, dal Trofeo di Gaio al baldacchino seicentesco: un enorme monumento secolare per prottegere e onorare il primo papa della Storia.

    musei vaticani (viale vaticano)

    Stanza di Eliodoro, Liberazione di san Pietro dal carcere, affresco, Raffaello Sanzio, 1513

    Dal reclutamento evangelico alla predicazione apostolica: gli Atti degli Apostoli (3,4) ci accompagnano nell’altra fase della vita di Pietro, quando egli predica, punisce, opera miracoli e viene infine arrestato.

    Quando guarisce lo zoppo, tutto il popolo assiste al miracolo e loda Dio, tutti accorrono al portico detto di Salomone per sentirlo parlare: «Ravvedetevi dunque e convertitevi». Ma giungono i sacerdoti, il capitano del tempio e i sadducei e lo gettano in carcere (insieme a Giovanni), sebbene poi siano costretti a liberare entrambi. Il secondo arresto è opera di Erode Agrippa, comminato nel tentativo di conquistare e accrescere il consenso popolare nei propri confronti imprigionando appunto i cristiani. Affidato alla custodia di quattro picchetti, Pietro prega. Leggiamo alcuni passi del testo biblico (Atti 12, 6-19) e, contemporaneamente, seguiamo l’affresco della Liberazione di san Pietro dal carcere di Raffaello nella Stanza di Eliodoro:

    Nella notte che precedeva il giorno in cui Erode voleva farlo comparire, Pietro stava dormendo in mezzo a due soldati, legati con due catenelle; e le sentinelle davanti alla porta custodivano il carcere. Ed ecco, un angelo del Signore sopraggiunse e una luce risplendette nella cella. L’angelo, battendo il fianco a Pietro, lo svegliò dicendo: «Alzati, presto!». E le catene gli caddero dalle mani.

    Siamo al centro dell’affresco: «c’è l’incursione dell’angelo nella cella carceraria. È una luce accecante che fa emergere, con un effetto ottico geniale, la nera grata di ferro della prigione e trasforma i due miliziani armati in manichini d’acciaio immobili e come ipnotizzati dal miracolo»⁸. Pietro segue l’angelo, sebbene non riesca a comprendere in piena lucidità quanto stia accadendo, ed è convinto piuttosto di avere una visione (siamo nella parte destra dell’affresco). Ma una volta uscito dalla prigione, acquista consapevolezza: «Ora so di sicuro che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha liberato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei Giudei». La terza scena dell’affresco ci mostra la concitazione delle guardie che si rendono conto dell’assenza del prigioniero (nottetempo, con una stupenda mezzaluna nell’affresco dell’Urbinate, di giorno nel racconto neotestamentario): «Fattosi giorno, i soldati furono molto agitati, perché non sapevano che cosa fosse avvenuto di Pietro». Per le guardie va a finire male: «Erode lo fece cercare e, non avendolo trovato, processò le guardie e comandò che fossero condotte al supplizio». Dio ha liberato Pietro, e altrettanto provvidenzialmente aiuterà Giulio ii Della Rovere (1503-1513), il committente di Raffaello e «papa guerriero», nella lotta contro le truppe francesi nel nord Italia.

    galleria nazionale di arte antica di palazzo barberini (via delle quattro fontane, 13)

    San Pietro e il centurione Cornelio, olio su tela, Bernardo Cavallino, 1645-1650

    Con incipit quasi fiabesco, gli Atti degli Apostoli (10, 1-48) del Nuovo Testamento narrano un altro evento centrale nella vita di Pietro e della sua opera di evangelizzazione: «Vi era in Cesarea un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte detta Italica. Quest’uomo», prosegue la narrazione biblica, «era pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia», faceva elemosine, insomma era un uomo pronto ad accogliere la nuova fede. La voce di Dio gli dice di andare a chiamare Pietro, a Ioppe (Giaffa), e così Cornelio fa. Pietro, nel frattempo raccolto in preghiera, al sopraggiungere degli ospiti interrompe le sue orazioni e segue Cornelio, diffonde il Verbo e, mentre predica, lo Spirito Santo scende su tutti coloro che ascoltavano la Parola; Pietro dunque comanda che tutti siano battezzati nel nome di Cristo.

    Presso la Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini si trova uno straordinario olio su tela del napoletano Bernardo Cavallino, San Pietro e il centurione Cornelio. Una luminosità diffusa avvolge la scena, la cui gamma cromatica, impostata sui toni freddi del grigio-azzurro e sui toni caldi del marrone, vibra rischiarata dal bellissimo cielo che, luminoso, si apre sul solenne momento.

    In primo piano, a sinistra, si intravede il profilo di un cavallo immerso nell’ombra e si trovano le guardie che scortano Pietro dalla città di Ioppe fino a casa di Cornelio. La luce si spande poi sull’Apostolo, sulla sua lunga veste e sulla tunica, còlto nel gesto di battezzare Cornelio, l’uomo che si china ad accogliere il battesimo e la cui età avanzata lascia intuire, iconografico parallelo di Pietro, la virtù. Poco più a destra, il giovane che guarda lo spettatore è il probabile autoritratto del pittore; la sua veste ha gli stessi colori di quella di Pietro, solo più brillanti. E infine, all’estremità destra del quadro, due fanciulli (che potremmo immaginare due scugnizzi napoletani che Bernardo Cavallino ha preso direttamente dalla strada davanti al suo atelier) vengono redarguiti da un adulto che, con un gesto della mano, sembra rimproverarli mentre paternamente li invita, deciso, a osservare quanto Pietro sta facendo. Alle spalle dell’uomo, una classica colonna scanalata è cornice visiva, segno di solidità e di stabilità, riferimento al paganesimo del mondo classico superato ormai dalla rivelazione del cristianesimo. In secondo piano una folla di astanti, pronti anch’essi a ricevere il battesimo. Al centro e a destra il dipinto è impostato su una gamma cromatica fredda di azzurri, blu e grigi; a sinistra la gamma tende a diventare monocroma.

    basilica di santa maria degli angeli e dei martiri (piazza della repubblica)

    Morte di Anania e Saffira, olio su lastra di pietra, Cristoforo Roncalli, 1604

    Durante l’anno 1727, nel presbiterio della basilica viene trasferito il grande olio Morte di Anania e Saffira di Cristoforo Roncalli, commissionato da Clemente viii Aldobrandini (1592-1605) per uno degli altari della basilica di San Pietro. È dipinto su lastre di pietra nera (con la luce adatta se ne distinguono i bordi) tenute insieme da stuccature stese per rimediare al maldestro allineamento delle lavagne, il tutto ridipinto più o meno uniformemente. Tuttavia l’opera, di dimensioni eccessive per uno degli altari a cui era destinata nella basilica petrina, fu traslata nel 1727 in Santa Maria degli Angeli e dei Martiri mentre in San Pietro, poco dopo, se ne collocava una copia in mosaico.

    È soprattutto nel Cinquecento che le lastre di pietra vengono sperimentate come alternativa alle più tradizionali superfici di tavole e tele: uno dei primi artisti a farne uso è Sebastiano del Piombo. Erano usate l’ardesia o la cosiddetta pietra di paragone⁹, lasciata a vista come sfondo o come oggetto incluso nella raffigurazione.

    Il dipinto su pietra nera del Roncalli si trova oggi sulla sinistra del coro, vicino alla balaustra: per poter essere accolto insieme ad altre tre grandissime pale d’altare, l’architetto Clemente Orlandi, preposto alla direzione dei lavori di ristrutturazione della chiesa prima di Luigi Vanvitelli, decide di far posto chiudendo le finestre michelangiolesche (ancora visibili all’esterno) e aprendone delle nuove. Viene così completamente alterato il sistema d’illuminazione previsto da Michelangelo.

    L’opera era anche nota come Pala della Bugia, il racconto evangelico ce ne spiega la ragione:

    Infatti non c’era nessun bisognoso tra di loro; perché tutti quelli che possedevano poderi o case li vendevano, portavano l’importo delle cose vendute, e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi, veniva distribuito a ciascuno, secondo il bisogno. […] Ma un uomo di nome Anania, con Saffira sua moglie, vendette una proprietà, e tenne per sé parte del prezzo, essendone consapevole anche la moglie; e, un’altra parte, la consegnò, deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro disse: «Anania, perché Satana ha così riempito il tuo cuore da farti mentire allo Spirito Santo e trattenere parte del prezzo del podere? Se questo non si vendeva, non restava tuo? E una volta venduto, il ricavato non era a tua disposizione? Perché ti sei messo in cuore questa cosa? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». Anania, udendo queste parole, cadde e spirò. […] I giovani, alzatisi, ne avvolsero il corpo e, portatolo fuori, lo seppellirono. Circa tre ore dopo, sua moglie, non sapendo ciò che era accaduto, entrò. E Pietro, rivolgendosi a lei: «Dimmi», le disse, «avete venduto il podere per tanto?». Ed ella rispose: «Sì, per tanto». Allora Pietro le disse: «Perché vi siete accordati a tentare lo Spirito del Signore? Ecco, i piedi di quelli che hanno seppellito tuo marito sono alla porta e porteranno via anche te». Ed ella in quell’istante cadde ai suoi piedi e spirò (Atti 5, 1-11).

    Il corpo di Saffira, ormai caduta a terra ai piedi di Pietro, è l’elemento certamente più originale dell’opera di Cristoforo Roncalli: in scorcio, quasi compressa nell’angolo in basso a destra, la donna muore schiacciata dalla malafede del peccato e dall’onta della menzogna, sovrastata dalla fede e dalla volumetria dell’apostolo. San Pietro ormai ha preso in mano il suo destino di apostolo e non esita ad agire.

    Un’altra versione dello stesso drammatico evento è raffigurata in un affresco conservato nella Sala del Tesoro a San Giovanni in Laterano: è parte di un dipinto murale di un anonimo romano tra i secoli xi e xii.

    Prima di lasciare Santa Maria degli Angeli e dei Martiri dovete osservare altre opere che riguardano i miracoli petrini: la Crocifissione di san Pietro, di Nicola Ricciolini (1687-1760); la Caduta di Simon Mago (1730), di Pierre-Charles Trémollière (1703-1739); Un miracolo di Pietro, di Francesco Mancini (1679-1758); la Resurrezione di Tabita, di Placido Costanzi (1702-1759); la Caduta di Simon Mago, questa volta di Pompeo Batoni (1708-1787); la Consegna delle Chiavi, di Girolamo Muziano (1528-1592) nella cappella di San Pietro.

    Ambrogio Buonvicino per la sua Consegna delle chiavi sulla facciata della basilica di San Pietro (conclusa nel 1614) avrebbe potuto prendere ispirazione dal lavoro di Muziano: in entrambe le opere Cristo tende una prima chiave a Pietro mentre la seconda pende dal suo braccio. Come nella Consegna del Perugino, il colore blu tinge le vesti di Cristo e di san Pietro. Per quanto riguarda la sua collocazione nella chiesa, la pala cinquecentesca sembra formare parte di un trittico di scene dedicate a san Pietro: è posta nel lato destro del transetto verso la cappella Albergati e ha accanto la Crocifissione di san Pietro di Nicola Ricciolini e di fronte Un miracolo di san Pietro di Francesco Mancini.

    chiesa di santa prisca (via di santa prisca, 11)

    San Pietro che battezza Prisca, olio su tela, Domenico Cresti, 1600 ca.

    Il fatto che Pietro sia andato via dalla Galilea costituisce un tratto significativo della sua storia personale. Purtroppo, la scarsità di informazioni storicamente accertate non consente di ricostruire con certezza le fasi del viaggio che Pietro compie dalla Palestina alla volta di Roma, all’epoca capitale dell’Impero e solo dopo, proprio grazie in primis a Pietro e Paolo, nuova capitale della cristianità.

    Dunque siamo già a Roma; e una volta giunto in città, dove alloggiava Pietro? La tradizione vuole che egli fosse ospite, insieme a Paolo, del cittadino romano Aquila e della moglie Priscilla, genitori di Prisca, giovane martire del i secolo decapitata sotto l’imperatore Claudio. Sui resti della casa di Priscilla e Aquila fu poi eretta la chiesa di Santa Prisca. Risultano già nel iii secolo un oratorio e nel v secolo un titulus Priscae. Oggi la chiesa ha una facciata seicentesca e il suo interno ha subìto molteplici rimaneggiamenti. Appena si attraversa il portale d’ingresso, troviamo all’inizio della navata destra un piccolo vano commissionato nel 1948 all’architetto e ingegnere Arturo Hoerner che funge oggi da battistero. Ecco qua il primo elemento petrino: un antico capitello che san Pietro avrebbe utilizzato come fonte battesimale (il capitello però sarebbe del ii secolo d.C.). Risale invece al 1200 ca. l’iscrizione Baptismis Sancti Petri sul bordo. Come copertura della fonte in lamina di bronzo, il Battesimo di Gesù: due esili sculturine bronzee di Antonio Biggi realizzate nel 1947. Pietro avrebbe battezzato Prisca proprio attingendo l’acqua da questo capitello. Si tratta, con tutta evidenza, della Roma classica che diventa cristiana, del passaggio dal paganesimo al cristianesimo ben evidenziato dalla nuova funzione a cui il capitello è preposto, da elemento decorativo e architettonico a fonte battesimale.

    Ed ecco, nell’abside, sull’altare maggiore, San Pietro che battezza Prisca, dipinto di Domenico Cresti, meglio noto come il Passignano (1600 ca.): una scena di grande compostezza, in cui il fonte battesimale non è il capitello bensì un bacile, dipinto con grande cura. Capitello o coppa che fosse, il contenitore dell’acqua sacra è il fulcro del quadro, compositivo e simbolico. Pietro ha in questa raffigurazione una tunica blu (come nella Consegna delle chiavi sia del Perugino sia del Muziano). Dal tardo Medioevo il cromatismo della tunica di Pietro si assesta sul blu, «un colore di dolore, un colore di lutto», lo stesso blu che colora la veste della Vergine¹⁰, incarnazione del dolore per eccellenza. Il dipinto viene commissionato al Passignano dal cardinale Benedetto Giustiniani.

    Vale la pena scendere a visitare, accedendo dalla navata destra, gli ambienti meravigliosamente conservati del i secolo d.C. Sarete in un luogo dove avrebbero potuto soggiornare Pietro e Paolo. Sotto l’attuale presbiterio si trova la cripta e in essa gli affreschi seicenteschi di Anastasio Fontebuoni, tra i quali è raffigurato san Pietro nel momento di battezzare santa Prisca.

    basilica di santa pudenziana (via urbana, 160)

    Un altro giaciglio fu approntato per Pietro presso la casa del senatore Pudente, suo generoso ospite, trasformata alla fine del iv secolo in basilica e dedicata a Pudenziana, figlia di Pudente e sorella di Prassede. A quest’ultima invece spettò la non distante e splendida basilica che san Pasquale i (817-824) secoli dopo provvederà a far decorare magnificamente e di cui parleremo nei prossimi capitoli. Nel frattempo, altrettanta magnificenza riluce nel mosaico absidale (417 ca.), dove il Redentore siede su un raffinatissimo trono gemmato, attorno appaiono gli apostoli e le due sante Pudenziana e Prassede sono intente a porre corone sulle teste di Paolo (l’Apostolo dei Gentili, l’evangelizzatore dei pagani) e di Pietro (l’Apostolo evangelizzatore dei Giudei).

    A sinistra del presbiterio, nella cappella di san Pietro sta il gruppo marmoreo di Giovanni Battista Della Porta dedicato alla Consegna delle chiavi (1596); La visita di Pietro al senatore Pudente, invece, si trova presso la settecentesca cappella di Pietro in Santa Prassede, l’autore della tela dell’altare è ignoto.

    Negli ambienti sotterranei della basilica di Santa Pudenziana si può osservare un affresco medievale di san Pietro tra le sante sorelle Pudenziana e Prassede, probabilmente anteriore all’anno 1000. Tutti e tre i santi sono raffigurati a mezza figura con un gran nimbo circolare giallo definito da un bordino bianco: san Pietro benedicente porta un ampio pallio giallo e nella mano sinistra stringe le due chiavi; santa Prassede sta pregando con le mani al petto. La figura di santa Pudenziana è molto danneggiata: non possiamo sapere se fosse rappresentata come la sorella. A lato delle figure sono incolonnati i nomi dei santi.

    basilica di santa francesca romana (piazza santa francesca romana, 4)

    La disputa con Simon Mago

    Fuor de la bocca a ciascun soperchiava/ d’un peccator li piedi e de le gambe/ infino al grosso, e l’altro dentro stava./ Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte,/ che spezzate averien ritorte e strambe./ Qual suole il fiammeggiar de le cose unte/ muoversi pur su per la strema buccia,/ tal era lì dai calcagni a le punte.¹¹

    Dunque conficcati, a testa in giù e fino alle cosce, all’interno di un foro nella roccia, i dannati che Dante incontra nella terza bolgia torcono in maniera del tutto innaturale l’articolazione della gamba, in un dimenarsi, grottesco e drammatico al tempo medesimo, che ha del disumano. E tanta è la forza rabbiosa e disperata con cui si agitano che essi potrebbero spezzare vimini e funi. Una fiammella si muove dalle calcagna alle punte, lambisce la pianta del piede ma non lo consuma, in eterno…

    E chi è, chiede Dante a Virgilio, giustamente incuriosito da cotanto crudele ed eterno tormento, che subisce meritatamente tale supplizio? Virgilio lascia che a fornire la spiegazione sia proprio uno dei dannati, fra l’altro proprio un papa, Niccolò iii Orsini (1277-1280): si tratta dei simoniaci, cioè di coloro che, abusando del loro ruolo di ministri della fede, fanno commercio di cose sacre. Come da vivi essi si dedicarono con la frode alle cose terrene piuttosto che al bene spirituale, così da morti (e da dannati) essi sono, per contrappasso, rivolti a testa in giù, più che verso la terra dentro la terra stessa e la fiamma dello Spirito Santo – che nella Pentecoste si rivelò ai discepoli quale fondamento della loro missione evangelica – qui si trasforma in fiamma che tormenta i piedi che scalciano verso il cielo e in simbolo di corruzione.

    Ma perché simoniaci? In Samaria era un tale Simone che esercitava le arti magiche (da cui l’epiteto mago) e che, in cambio di denaro, chiese a Pietro e a Filippo la facoltà di donare lo Spirito Santo con la sola imposizione delle mani, come già facevano i due apostoli. In presenza dell’imperatore Nerone e dei due (futuri) santi, Simon Mago volle poi dimostrare di poter levitare ma, appena si alzò in volo, i due apostoli si inginocchiarono (tenete a mente questo particolare…) e cominciarono a pregare, causandone così la caduta. Sbattendo a terra, Simon Mago si ruppe le gambe e venne poi lapidato dalla folla che, inorridita e spaventata, assisteva all’inquietante prestazione. Tutto questo accadeva sul sagrato antistante la chiesa di Santa Francesca Romana (prima Santa Maria Nova) e già dedicata a Pietro e Paolo.

    All’interno della chiesa si trovano due fori protetti da una grata: sarebbero le impronte delle ginocchia di Pietro lasciate dall’apostolo quando si inginocchiò per pregare di fronte alla diabolica levitazione di Simon Mago. È una bizzarra «reliquia» alla quale faranno posteriormente compagnia le spoglie di santa Francesca Romana, qui sepolta.

    Ora un passo indietro, ai battesimi e alle fasciolae: gli Atti dei Santi Nereo e Achilleo raccontano che, al pari di Pietro, anche i due santi sostennero una disputa contro Simon Mago; e al

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