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Il giro di Padova e dintorni in 501 luoghi
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E-book927 pagine9 ore

Il giro di Padova e dintorni in 501 luoghi

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Info su questo ebook

La città come non l'avete mai vista

Un viaggio straordinario attraverso la città del santo, per visitare i luoghi che l’hanno resa celebre, ma anche gli angoli o le bellezze più segrete.

501 luoghi come tappe di una lunga passeggiata che attraversa Padova e i suoi dintorni partendo dal cuore della città, ancora racchiuso dalle mura cinquecentesche in cui ogni angolo riserva una sorpresa. Si prosegue per i quartieri meno turistici ma ricchi di storia, di testimonianze straordinarie e gioielli architettonici che spuntano tra le case, si affacciano sulle strade o si nascondono tra la vegetazione degli argini. Per perdersi poi tra i borghi e le cittadine murate della provincia, tra il verde dei Colli Euganei punteggiati di antichi eremi, abbazie, ville e castelli, con una sosta rigenerante nelle acque termali famose in tutto il mondo. A scandire il ritmo dei passi saranno le storie che ogni luogo, anche il più inatteso, avrà da raccontare su chi l’ha costruito, chi l’ha abitato o chi ci è passato lasciando un segno indelebile e consegnandolo per sempre alla memoria collettiva. Si resta a bocca aperta davanti alla distesa del Prato della Valle o allo splendore della pittura di Giotto, ed è facile, all’università, immaginare Galileo che svela ai suoi studenti i segreti del cielo dalla famosa cattedra di uno degli atenei più antichi del mondo, o ricordare i fasti e la grandiosità del castello carrarese al cospetto di ciò che ne rimane. Un viaggio nel tempo e nello spazio, che stupirà anche chi pensava di conoscere bene la città detta “dei tre senza”.

Le origini leggendarie: la tomba di Antenore
Agli albori del culto: la chiesetta di San Nicolò
Le porte contarine e la Padova d’acque
L’anfora: l’osteria “storica” che ha solo vent’anni
Un borgo in città: il Portello
Il fantasma del violinista: la chiesa di Santa Caterina e il mistero della tomba di Tartini
Laura Organteè nata nel 1986 a Padova, dove vive tuttora. È laureata in Filologia Moderna ed è giornalista pubblicista dal 2010. Ha collaborato con diverse testate locali, sul web e su carta, lavorando anche come addetta stampa e copywriter. Attualmente sta portando a termine un dottorato di ricerca presso l’Università di Padova.
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2014
ISBN9788854174245
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    Anteprima del libro

    Il giro di Padova e dintorni in 501 luoghi - Laura Organte

    230

    Illustrazioni di Serena Ficca

    Prima edizione: novembre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7424-5

    www.newtoncompton.com

    Laura Organte

    Il giro di Padova

    e dintorni

    in 501 luoghi

    La città come non

    l’avete mai vista

    logonc

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Si dice che i migliori ciceroni non siano i nativi, ma i cittadini acquisiti, che, innamorati e affascinati da un luogo che non conoscono, non si accontentano di visitare i monumenti più gettonati, di percorrere le strade battute dai turisti e ammirare gli scenari già visti in riviste e cartoline, ma si lasciano guidare dalla curiosità fino agli angoli più nascosti e ignorati, scoprendone i segreti e le vicende dimenticate.

    Da padovana doc quale sono, posso dire che scrivere questa guida è stato un po’ come scoperchiare un vaso di Pandora, dal quale è emerso un patrimonio di notizie e particolari sulla mia città che non conoscevo e che di volta in volta mi hanno sorpresa, affascinata, appassionata. È stato un po’ come togliere gli occhiali dell’abitudine che inevitabilmente, chi più chi meno, ogni abitante indossa e osservare ogni cosa attraverso le voci di cittadini, studiosi, appassionati, esperti di oggi e di ieri, che di persona o dalle pagine dei libri mi hanno regalato uno sguardo nuovo su Padova. Nel condividere questo piccolo itinerario di riscoperta, senza nessuna pretesa di esaustività, spero di risvegliare e stuzzicare l’interesse di padovani e visitatori, la voglia di andare oltre i luoghi simbolo e di lasciarsi incuriosire dai dettagli apparentemente più insignificanti, come una targa commemorativa, il nome di una via, un edificio dismesso.

    Padova è una città che vanta una storia millenaria e importante. È conosciuta in tutto il mondo per la sua antichissima università, che vanta tra suoi docenti Galileo Galilei, per la straordinaria presenza di sant’Antonio, ancora forte dopo secoli, per il Caffè Pedrocchi, unico nel suo genere, per il Prato della Valle, tra le più grandi piazze d’Europa, per le Terme Euganee, che da secoli attirano per le loro proprietà terapeutiche. Ma a chi voglia riscoprire i lati meno noti della città, si apre un dedalo di percorsi inattesi, che conducono via via fuori dal cuore ancora racchiuso dalle mura cinquecentesche, in cui ogni angolo riserva una sorpresa, fino ai quartieri, meno turistici ma ricchi di storia, di testimonianze straordinarie e di gioielli architettonici che spuntano tra le case, si affacciano alle strade o si nascondono tra la vegetazione degli argini, e tra i borghi e le cittadine murate della provincia, tra il verde dei Colli Euganei punteggiati di antichi eremi, abbazie, ville e castelli.

    Il filo conduttore di questa lunga passeggiata in 501 tappe attraverso la città e i suoi dintorni è la curiosità: secolo dopo secolo, ogni luogo ha un aneddoto, un evento, un personaggio da far conoscere a chi abbia la pazienza di ascoltare, piccoli tasselli di quel grande mosaico che è la storia e la tradizione di Padova e dei suoi comuni. Ne fanno parte non solo le strade, le piazze e gli edifici, più o meno antichi e di pregio, che si offrono oggi ai nostri occhi, ma anche i luoghi scomparsi, come la contrada Santa Lucia, gioiello perduto della Padova medievale, le chiese abbattute come la maestosa basilica di Sant’Agostino, demolita nell’Ottocento, o la chiesa di San Tommaso Apostolo, presso la quale fu sepolto, da eretico, Luigi Pulci. Ne fanno parte i grandi eventi storici, le vicende e i personaggi locali, gli aneddoti veri e quelli falsi, alimentati dalla fantasia popolare, come le numerose leggende ambientate sui Colli Euganei, che in fin dei conti contribuiscono a disegnare l’identità della città tanto quanto i fatti realmente accaduti.

    logonc

    I.

    DENTRO LE MURA

    logonc

    L’antico teatro romano si trova all’interno dei giardini dell’Arena ed è

    stato costruito intorno al 70 d.C. È la più consistente testimonianza

    di Patavium, terza città dell’impero dopo Roma e Cadice.

    Padova romana

    e paleocristiana

    1. Le origini leggendarie:

    la tomba di Antenore

    Ormai lo sanno tutti, la tomba di Antenore non contiene le spoglie dell’eroe troiano, che d’altra parte molto probabilmente non è neppure esistito. Perché, allora, si continua a raccontare questa storia, e perché l’arca è ancora in bella vista nell’omonima piazza, all’incrocio tra via San Francesco e riviera Tito Livio? Perché la storia di questo monumento è una di quelle che non ci si stanca mai di ascoltare, ci riporta in un’epoca di grandi entusiasmi e di grandi scoperte, è un esempio di quel fervore intellettuale e della passione per la classicità che resero famoso il preumanesimo padovano.

    Protagonista delle vicende di questo bellissimo falso storico è il giudice, poeta e appassionato copista e collezionista di testi classici Lovato Lovati, uno degli animatori di quella cerchia di notai-letterati, il cui capofila era Albertino Mussato, che tanto si dedicarono alla riscoperta della letteratura latina tra Due e Trecento.

    Quando nel 1274, durante gli scavi per la costruzione di un ospizio per bambini esposti in via San Biagio, venne alla luce una duplice bara di cipresso e piombo dentro un’arca di rosso ammonitico contenente lo scheletro di un guerriero, Lovato Lovati non ebbe alcun dubbio: si trattava delle spoglie di Antenore, l’eroe troiano che Virgilio, nell’Eneide, aveva consacrato come fondatore di Padova. Non solo, i versi del sommo poeta sembravano alludere chiaramente al fatto che la sepoltura di Antenore si trovasse, di fatto, in città:

    [...] Antenore, sfuggito

    lui pure ai Greci, poté facilmente

    penetrare in Illiria, superare

    la Dalmazia e le fonti del Timàvo,

    e dove il fiume con grande rimbombo

    della montagna va per nove bocche

    dilagando nel mare e, mare fatto,

    inonda i campi coi flutti sonanti,

    fondò Padova e lì fissò la sede

    dei Troiani, a cui diede un nuovo nome,

    e, deposte le armi, vive in pace.¹

    Pare addirittura che il ritrovamento fosse stato annunciato nientemeno che dal sapiente medievale Merlino, al quale era stata attribuita la sibillina previsione: «Quando la Capra parlerà e ’l Lovo responderà, Antenore se leverà». Si dà il caso che il capomastro che dirigeva i lavori di scavo si chiamasse proprio Capra, e fu lui ad avvertire il lovo (cioè il lupo) – Lovato Lovati – della scoperta.

    A quel punto non restava che dare degna collocazione monumentale alle vestigia dell’eroico fondatore, che trovarono dimora davanti all’abitazione del loro dotto scopritore, dove un tempo sorgeva la chiesa di San Lorenzo e oggi il palazzo Santo Stefano. Fu lo stesso Lovato a comporre i versi scolpiti sul lato ovest della tomba che suonano, in traduzione: «Il glorioso Antenore, voce tesa alla pace della patria, scortò qui la fuga di Eneti e Troiani, scacciò gli Euganei, fondò la città di Padova. Lo custodisce qui dimora, ricavata da umile marmo».

    Negli anni Ottanta del secolo scorso, le ossa del presunto Antenore sono arrivate fino ai laboratori dell’Università dell’Arizona, a Tuxon, dove sono state datate fra il 135 e il 430 d.C.: il guerriero, di origini forse ungheresi, si è rivelato troppo giovane per aver fondato Padova dopo la distruzione di Troia (nel 1183 a.C. secondo le fonti storiche). Secoli di storiografia avevano già smentito l’attribuzione di Lovati, ma non hanno cancellato il fascino di quella scoperta, falsa, è vero, ma decisamente suggestiva. Non è un caso che i padovani abbiano scelto, dopo molti spostamenti, di riportare la tomba di Lovato Lovati dove si trovava in origine, vicino a quella del principe troiano, a ricordare che anche le leggende, e chi le scrive, fanno parte della storia di una città.

    2. Le origini storiche:

    i veneti e i loro cavalli

    Leggende a parte, per scovare le tracce delle origini preromane di Padova bisogna andare ai Musei Civici Eremitani, che prendono il nome, come la piazza antistante, dalla congregazione di frati cui appartenevano un tempo i chiostri che oggi ospitano le collezioni. Si tratta del cuore del sistema museale patavino, che include il Museo Archeologico e il Museo d’Arte Medievale e Moderna.

    Sono le prime tre sale del Museo Archeologico a raccontare, attraverso una serie di preziosi reperti, la civiltà che abitò il territorio padovano prima dell’arrivo dei romani, nel i secolo a.C.

    A dispetto delle fonti storico-letterarie antiche, che situano la fondazione della città attorno al 1185 a.C., i dati archeologici rivelano l’esistenza di insediamenti già nel IX-X secolo a.C., anche se la vera e propria fioritura della civiltà degli antichi veneti si colloca nel corso del i millennio a.C.

    A questo periodo rimandano le straordinarie stele funerarie, lastre rettangolari di pietra riservate alle tombe dei personaggi di alto livello sociale, che hanno permesso di conoscere la lingua di questo popolo e molti aspetti della sua cultura. Ma il loro fascino risiede anche nella bellezza delle rappresentazioni che vi sono scolpite, come l’addio tra coniugi raffigurato nella stele di Camin (VI secolo a.C.), o il viaggio agli Inferi che ha reso nota la stele di Ostiala (I secolo a.C.), una patavina andata in sposa al romano Gallenio: sopra una biga in corsa, trainata da una coppia di cavalli, vi sono la defunta vestita alla moda paleoveneta, il marito che la sta guardando in atto di estremo saluto, e l’auriga.

    L’aspetto che colpisce forse di più è la presenza insistente della figura equestre: lo ricordano anche Omero e Strabone, i veneti erano famosi per i loro cavalli, pilastro dell’economia. Ne è commovente testimonianza la sepoltura che vede giacere insieme un uomo di circa vent’anni e un giovane cavallo, ad accompagnare nel viaggio oltremondano il suo padrone.

    Animale totem, come dimostrano le centinaia di statuette bronzee con la funzione di ex-voto, ma anche pregiata merce di scambio che regalò fama al popolo veneto: dalla Geographica di Strabone sappiamo che il tiranno di Siracusa, Dionigi il Vecchio, volle per il suo allevamento solo puledri di pura razza veneta, e molti degli esemplari qui allevati finivano in Grecia, a primeggiare nelle gare delle Olimpiadi.

    3. La città e il suo Medoacus:

    era il Brenta o il Bacchiglione?

    Sin dalla leggendaria fondazione, Padova è profondamente legata alla sua natura di città fluviale. Il fondatore Antenore è arrivato risalendo l’antico Medoacus e si è fermato laddove il fiume faceva una doppia ansa, una difesa naturale ideale. Nelle acque di questo fiume è ambientato anche il più glorioso evento della storia preromana della città: la sconfitta del duce spartano Cleonimo da parte dei padovani. Il fatto è diligentemente riportato da Tito Livio, l’illustre storico autore di Ab Urbe Condita, la monumentale opera dedicata alle vicende di Roma: in quanto padovano ci teneva a mettere in buona luce i suoi concittadini: giunto nel 302 a.C. alle foci del Medoacus attraverso l’Adriatico, il condottiero stava mettendo a ferro e fuoco i villaggi dell’entroterra finché i padovani, appreso quello che stava accadendo, in un’eroica battaglia navale ne distrussero quasi completamente la flotta, ricacciandolo da dov’era venuto. Una vittoria talmente clamorosa che in città fino al Duecento fu rievocata con spettacoli annuali sul fiume.

    Fino a qualche tempo fa l’identificazione del Medoacus di cui parlano gli autori latini tra cui Tito Livio con il fiume Brenta era data per certa. Si riteneva infatti che verso la fine del IV secolo d.C. uno sconvolgimento idrografico avesse spostato il corso del Brenta più a nord, dove scorre oggi, e nel suo alveo fosse confluito il Bacchiglione, probabilmente a seguito di un intervento umano. A riprova di questa teoria veniva addotta l’ampiezza dei ponti romani, come quello di San Lorenzo, a più arcate, incongruenti con la portata decisamente inferiore del Bacchiglione rispetto al Brenta.

    Gli studi più recenti hanno messo però in discussione questa ricostruzione, che i padovani leggono sui libri di scuola ormai da tempo immemore. Un colpo di scena.

    In realtà la storia non è tutta da riscrivere, a non tornare sarebbero solo i tempi. In sostanza: è stato il Brenta a formare la doppia ansa entro la quale si è sviluppata la città, ma lo ha fatto all’incirca fra i seimila e i duemila anni prima di Cristo. Lo scambio degli alvei è avvenuto quindi alla fine del secondo millennio a.C. con la conseguenza che il Medoacus di cui parla Tito Livio è sempre stato il Bacchiglione.

    Verrebbe allora da domandarsi perché mai ai tempi dei romani si costruissero ponti così grandi. Le spiegazioni addotte sono più che convincenti: da un lato bisogna ricordare che l’alveo era stato comunque disegnato dal Brenta, e si può pensare che a quel tempo si fosse deciso di lasciarlo così visto che da sempre il Bacchiglione è stato un fiume soggetto a improvvise e repentine piene nei mesi di novembre e maggio (e la devastante alluvione di qualche anno fa a Padova testimonia che è ancora così). Senza contare poi che il canale Scaricatore non esisteva ancora, e neppure il canale Battaglia, quindi la portata del fiume doveva essere ben maggiore.

    4. Patavium: la terza città più

    importante dell’impero romano

    Della Patavium romana, devastata dagli unni di Attila nel 452-453, resta ben poco, e quel che resta è spesso celato sotto i nostri piedi, seppellito da secoli di storia che si sono stratificati sovrapponendosi l’uno dopo l’altro. Piange il cuore a pensare a quanto dev’essere andato perduto, visto che la città era tutt’altro che marginale all’epoca. Diventata municipium tra il 49 e il 42 a.C., probabilmente nel 45, con la Lex Julia Municipalis, fu ascritta alla tribù Fabia, assimilata alla gens Julia, e raggiunse ben presto lo statuto di terza città più importante dell’impero dopo Roma e Cadice.

    Gli scavi e le ricerche storiografiche hanno consentito di fare qualche ipotesi su come dovesse apparire la città di Tito Livio. Secondo la più accreditata, le due vie cardine della centuriazione, il cardo e il decumano, corrispondono grossomodo alle attuali via Dante (non per nulla un tempo chiamata Stra’ Maggiore)/via Barbarigo e via Tadi/via San Francesco. Incrociando le due assi si ottiene, nel loro punto d’incontro, l’umbelicus urbis, che doveva trovarsi quindi nell’area dell’attuale piazza Duomo.

    Altro asse basilare per la città era quello di via Altinate, così chiamata perché portava ad Altino, tappa fondamentale della via per Aquileia.

    Sappiamo anche dove si trovavano alcuni degli edifici chiave della città romana: il foro si estendeva in corrispondenza di quello che i padovani chiamano liston, da piazza Garibaldi a piazza Cavour, appena oltre il foro c’erano le terme, i cui resti sono stati trovati nell’area tra il municipio e via San Canziano, dove era il nucleo più antico della città. Dell’arena ci restano ancora le rovine, lungo l’attuale corso Garibaldi, mentre il teatro dello Zairo si trovava nell’area in cui ora sorge Prato della Valle.

    5. Un’altra storia di ossa illustri:

    la tomba del Tito Livio sbagliato

    Più o meno duecento anni dopo lo scheletro di Antenore i padovani ci ricascarono. Siamo nel 1413, e nel corso di alcuni scavi nell’orto del monastero padovano di Santa Giustina (ora caserma), nell’allora paludoso Prato della Valle, salta fuori la solita cassa di piombo, con il solito scheletro. L’iscrizione rinvenuta con la sepoltura, però, fece venire un colpo ai presenti: si trattava delle spoglie di un certo Tito Livio, che con il tipico entusiasmo dell’epoca venne subito identificato con l’illustre storico morto a Padova, dove era nato nel 17 d.C., dopo aver condotto a termine la sua monumentale storia di Roma (142 libri per un arco temporale di otto secoli). La scoperta sembrava anche plausibile, visto che l’area di Prato della Valle, l’antico Campo di Marte di Patavium, ospitava secondo molti storici, oltre allo Zairo, anche il tempio della Concordia.

    La notizia fece subito il giro della città e capitò persino che certi studenti stranieri si mettessero a trafugare frammenti delle ossa come fossero reliquie di un santo, e la cosa proprio non piacque al vicario dell’abate di Santa Giustina, che frantumò il cranio del povero scheletro in segno di dissenso. Si decise allora di portare in salvo i preziosi resti con una solenne processione e nel 1447 fu eretto presso il palazzo Pubblico un monumento funebre. Nel 1451 si fece addirittura dono di un braccio del prezioso scheletro al re Alfonso d’Aragona, senza immaginare quello che sarebbe emerso più tardi, rileggendo l’antica iscrizione.

    Si dà il caso che all’epoca il nome Tito Livio fosse un po’ come dire Mario Rossi oggi, e infatti quelle erano sì le ossa di Tito Livio, ma si trattava di un omonimo, uno schiavo liberato che probabilmente non sapeva né leggere né scrivere. Ordinaria amministrazione, prima che inventassero la datazione al carbonio, diciamo che questa volta almeno avevano azzeccato l’epoca.

    6. Le tracce della strada perduta: la via Annia

    Lasciando da parte le divertenti prodezze archeologiche degli umanisti padovani, torniamo a quanto di attendibile ci è dato di sapere sulle origini romane della città.

    Patavium era attraversata, come Altino e Concordia Sagittaria, da una delle più importanti arterie stradali dell’Italia settentrionale, la via Annia, che collegava Adria ad Aquileia, probabilmente costruita sotto il consolato di T. Annio Lusco, nel 153 a.C. Il tempo ha occultato e molto spesso cancellato le tracce di quest’antica strada, che riemergono via via in occasione di scavi e lavori, ma ultimamente un progetto di valorizzazione ha promosso una serie di studi volti a ricostruirne il percorso e la storia.

    Del tratto padovano conosciamo il punto di entrata in città, da sud, all’altezza di Prato della Valle; sappiamo inoltre che superava il ponte romano di San Daniele, attraversava la città seguendo le attuali direttrici di via Umberto/via Roma e cambiava direzione in corrispondenza del ponte Altinate per dirigersi verso la laguna e le importanti città romane di Altino, Concordia e Aquileia.

    Il ponte Altinate non si vede più, è stato interrato insieme al Naviglio Interno che vi scorreva sotto negli anni Cinquanta, e la strada ha perso la sua funzione di collegamento diretto con Altino, dalla quale ha preso il nome che porta tuttora, ma in tutto il quartiere si sono rinvenuti tratti di basolato che confermano la sua presenza. Frammenti, piccoli pezzi di un puzzle destinato a non completarsi, ma che ci lasciano indovinare quale fosse il volto di questa parte di città. È riemerso, per esempio, un tratto dell’acquedotto pubblico lungo via Eremitani, mentre all’altezza del cinema Altino, laddove la via Annia si incrociava con un’altra strada, sono state trovate le fondamenta di un edificio. Più avanti frammenti di una pavimentazione musiva suggeriscono la presenza di una dimora patrizia, e alla fine di via Altinate, dove oggi si erge l’antica chiesa di Santa Sofia, una domus segnava i confini della città.

    Ancora tutto da interpretare, poi, il singolare complesso monumentale con pavimento a cubetti di cotto ritrovato nell’odierna via San Gaetano, probabilmente l’ala di un criptoportico, cioè una galleria, un corridoio di passaggio coperto, databile al i secolo d.C., connesso a opere di terrazzamento e forse a una fontana o ninfeo che ne abbellivano l’ampio giardino.

    Ancora una volta conviene rintanarsi nelle sale dei Musei Civici per ritrovare la città perduta e riscoprirne la quotidianità, prima di uscire ad ammirare la più consistente eredità di Patavium, l’arena.

    7. Quello che ci resta dei romani: l’arena

    Eccoci finalmente a qualcosa di visibile e tangibile. La più significativa testimonianza della Padova romana, l’arena, si trova a due passi dai Musei Civici Eremitani, all’interno dei giardini ai quali si può accedere da corso Garibaldi, via Eremitani o via Porciglia.

    Bisogna usare un po’ di fantasia per ricostruire l’aspetto che l’anfiteatro doveva avere ai tempi in cui è stato costruito, attorno al 70 d.C., cioè in età claudio-flavia. Oggi infatti dell’imponente costruzione originaria resta solamente una porzione del muro mediano e numerosi frammenti, quel tanto che basta, però, per dedurne le dimensioni, equiparabili a quelle delle arene di Nîmes, in Francia, e di Verona. Secondo alcune ipotesi ricostruttive, a sudovest, in corrispondenza dell’ingresso dall’odierna piazza Eremitani, era collocata la porta triumphalis, da cui entravano i partecipanti agli spettacoli, mentre sul lato opposto, grossomodo all’altezza della cappella degli Scrovegni, era la porta libitinensis, da cui si trasportavano fuori dall’anfiteatro i gladiatori caduti in combattimento.

    L’immagine che l’arena ci restituisce è quella di una delle città più ricche e floride dell’impero romano, il cui splendore si spense bruscamente con la caduta di Roma e le ondate devastatrici di unni e longobardi. Simbolo del lungo declino che seguì è la sorte toccata all’anfiteatro patavino, dapprima abbandonato a se stesso e poi addirittura usato come cava di pietra.

    Per vedere nuovamente valorizzato questo monumento bisognerà attendere il 1300, quando il ricchissimo banchiere padovano Enrico Scrovegni acquistò l’intera area per erigervi il sontuoso palazzo di famiglia (demolito nell’Ottocento) e, naturalmente, la cappella affrescata da Giotto, che fece di Padova la capitale mondiale della pittura. La città era di nuovo ai vertici del suo splendore, ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

    8. L’enigma delle mura romane

    Quando si parla di mura a Padova, è alla cerchia cinquecentesca che ci si riferisce, alle cortine che s’intravvedono sotto la vorace vegetazione nei tratti in cui questa costeggia il fiume, ai bastioni che troneggiano ancora visibili, anche se spesso diroccati o fusi nel paesaggio, alle porte monumentali che ancora segnano l’ingresso al centro cittadino. Pochi sanno però che quella è solo la quarta cinta muraria costruita a Padova dal Medioevo al Rinascimento: di secolo in secolo, i confini imposti dalle mura stavano stretti a una città in continua espansione, e così bisognava farne altre, più larghe, per inglobare nuovi insediamenti, parrocchie, borghi che spuntavano come funghi fuori dalla città e andavano difesi.

    Da qualche tempo a questa parte ci si è cominciati a chiedere se la cinta comunale, costruita tra il 1195 e il 1210, fosse davvero la prima nella storia della città. Se così non fosse, allora la romana Patavium doveva avere le sue mura.

    Il dubbio non è venuto fuori dal nulla. Lungo l’ansa del fiume che circonda il centro della città sono stati ritrovati tratti di possente muratura in blocchi di trachite, inizialmente letti come semplici argini. Almeno fino a quando non hanno cominciato a saltare fuori un po’ dappertutto tratti composti da grossi blocchi di pietra perfettamente squadrati: ce n’è uno all’imbocco della riviera dei Ponti Romani, uno recentemente individuato nei pressi della Specola, e uno nella zona di largo Europa, sotto il civico n. 6 di via San Pietro, il condominio noto come torre Medoacense. Qui all’inizio degli anni Novanta è stato trovato un muro per una quindicina di metri complessivi diviso in due tratti, uno dei quali ancora della larghezza originaria, di circa tre metri. Gli archeologi che hanno effettuato gli scavi hanno pochi dubbi: troppo spesso e troppo verticale per essere un argine, come anche quelli ritrovati lungo il fiume. Il dibattito è ancora aperto, si aspettano altri ritrovamenti, altri studi e altre conferme per dissipare il mistero.

    9. Il ponte sepolto

    Con l’arena il compito è stato facile. Per scovare le tracce del passato millenario di Padova bisogna intrufolarsi sotto terra, mettere il naso dentro i palazzi, scendere nei piani interrati degli edifici, un po’ come segugi all’inseguimento di una preda molto brava a nascondersi. Cominciamo.

    Vicino alla tomba di Antenore, si apre un sottopassaggio attraverso il quale si accede al sottosuolo, dove si può ammirare il ponte romano San Lorenzo, dal nome della chiesa che un tempo sorgeva in luogo dell’attuale prefettura. Si tratta dell’unico interamente conservato fra i cinque originari dell’epoca repubblicana, la cui memoria resta nella denominazione Riviera dei Ponti Romani.

    Già nel Settecento questo manufatto era parzialmente sotterrato, tanto che nella sua guida di Padova del 1869 Pietro Selvatico ci racconta che fino al 1773 si pensava che avesse un solo arco, quello ancora alla luce del sole, sotto il quale scorreva fino agli Cinquanta il Naviglio Interno. Fu durante i lavori di scavo per abbassare il livello della strada che si scoprì che di archi ce n’erano altri due. In quell’occasione venne alla luce anche l’iscrizione nell’arco mediano del ponte in cui si registrarono i nomi dei magistrati preposti all’opera.

    Nel 1938, i lavori di sistemazione di palazzo del Bo furono un ulteriore pretesto per studiare il manufatto, che si stabilì risalire al decennio 40-30 a.C.

    Oggi il ponte è stato nuovamente inghiottito nel sottosuolo e il passaggio che consente di raggiungerlo è tenuto aperto, quando possibile, dai volontari di Legambiente Salvalarte o dall’associazione ARC.A.DIA.

    10. Le tombe degli avi:

    una necropoli a palazzo Maldura

    Lacerti della Padova romana continuano a emergere dal tessuto cittadino contemporaneo ogniqualvolta una ristrutturazione o un intervento richiedano degli scavi. Così, il centro cittadino nasconde aree archeologiche nei luoghi più impensati, brevi epifanie dell’antica Patavium che occorre sapere dove cercare, perché spesso sembrano proprio giocare a nascondino.

    Dietro la facciata del settecentesco palazzo Maldura, oggi sede del dipartimento di Studi linguistici e letterari dell’Università di Padova, si cela ad esempio un sito di grande importanza: aperto nel 2007 dopo una decina d’anni di scavi e lavori, conserva parte di una delle principali necropoli della Padova romana, quella settentrionale, che si estendeva a sud, verso via Bartolomeo Cristofori.

    Per vederne le tracce dovete mescolarvi agli studenti di Lettere e attraversare il cortile interno fino a raggiungere l’ala più moderna del complesso. I resti che vi troverete davanti agli occhi risalgono a vari momenti della storia di questa necropoli: la prima fase, riferibile alla metà del i secolo a.C., è testimoniata dal rinvenimento in una fossa di un’urna cineraria con coperchio in ceramica grigia contenente i resti combusti di un defunto e da un muretto in mattoni legati da argilla. Si tratta di quel che resta di un recinto funerario con tombe familiari.

    Il ritrovamento di un nuovo recinto, datato ai primi decenni del i secolo d.C., di cui si possono vedere il muro in mattoni legati a malta e la base quadrangolare di un monumento funerario, consente di sapere che l’area fu riorganizzata. All’interno del recinto è stata rinvenuta un’urna lapidea contenente i resti combusti di un individuo e il relativo corredo funerario.

    Un altro nucleo è stato rinvenuto a nord e a sud del recinto: si tratta in particolare di due sepolture di bambini, entrambi con il capo rivolto a nord, sepolti in una fossa coperta da tegole e cronologicamente attribuibili all’età tiberiana. L’area continua a essere frequentata almeno fino al II secolo d.C., come dimostra il rinvenimento di altre sepolture.

    11. Pausa caffè con intermezzo archeologico

    Se nel corso di questa caccia al reperto vi dovesse venire voglia di un bel caffè, sappiate che potete berne uno senza interrompere le vostre ricerche. Chi voglia inseguire le tracce dell’antica Patavium finirà, volente o nolente, per ritrovarsi davanti all’entrata di uno dei locali storici della città contemporanea, il bar Gancino in piazza Duomo.

    Nel 2000, durante i lavori di ristrutturazione del piano interrato, è saltato fuori un tratto di strada romana, oggi comodamente visibile grazie a una pavimentazione in vetro trasparente che ne preserva l’integrità.

    Insieme alla strada, costituita da basoli di trachite con orientamento nord-sud, sono stati rinvenuti anche un’anfora e altri resti, oggi conservati nelle sedi museali.

    Spero che nel frattempo abbiate già finito il vostro caffè, perché, giusto per restare in tema, tempus fugit ed è già ora di rimettersi in cammino.

    12. Palazzo Montivecchi: quanta

    storia in quattro mura

    La sede della banca Antonveneta, in via Verdi, è una sorta di macchina del tempo grazie alla quale si può spaziare dall’epoca romana al Medioevo, dal Cinquecento ai primi del Novecento. Il volto odierno di palazzo Montivecchi è il risultato di un intervento del 1936 su un originario edificio di foggia cinquecentesca, che incorpora però al suo interno un nucleo architettonico molto più antico, risalente al Medioevo. Ma è con l’ultimo restauro, del 1987, che si è rivelato un tesoro nascosto nei sotterranei: qui i lavori di ristrutturazione hanno portato alla luce una strada datata al i secolo a.C., pavimentata con basoli in trachite dei Colli Euganei e con carreggiata a schiena d’asino, in cui sono ancora ben visibili i solchi scavati dal ripetuto passaggio dei carri. Allo stesso periodo risalgono i resti di un edificio identificato come magazzino o dispensa a seguito del ritrovamento al suo interno di una mezza anfora interrata con ulteriori contenitori di terracotta.

    A questo punto basta chiudere gli occhi per tornare indietro di due millenni e sentire il rumore delle ruote e degli zoccoli sulle pietre, i richiami e il chiacchiericcio dei commercianti, le anfore che vibrano l’una contro l’altra dentro i carri.

    Tenete presente però che il sito archeologico è visitabile dietro autorizzazione, è bene quindi prenotare allo 049 6991603.

    13. La chiesa di Santa Sofia: resti

    romani e una misteriosa cripta

    Resti di un tempio pagano di epoca romana sono visibili anche all’interno dell’antichissima chiesetta di Santa Sofia, all’incrocio tra la via omonima e via Altinate. Pare si trattasse di un luogo di culto dedicato al dio Mitra, una divinità di origine persiana venerata in alternativa alla religione ufficiale di Roma, di cui restano una pietra sacrificale e tracce delle fondamenta. La leggenda vuole che questo tempio fosse collegato tramite una galleria sotterranea a un altro, collocato sull’opposta sponda del fiume Bacchiglione che vi passava accanto, ma non ci sono notizie certe.

    Tutta la chiesa in realtà, a causa del suo lungo e accidentato iter costruttivo e per la sovrapposizione di strutture progettate e realizzate in fasi diverse, ha da sempre costituito un bel grattacapo per gli studiosi. È soprattutto la misteriosa cripta, scoperta negli anni Cinquanta, a destare le più forti perplessità: risalente alla prima fase dell’edificazione della chiesa (ultimi decenni del IX secolo d.C.), è rimasta incompiuta perché il cantiere si era arenato per mancanza di fondi, ma ce n’è abbastanza per rendersi conto di un fatto curioso: le sue strutture ripetono esattamente, in dimensioni solo di poco ridotte, quelle della cripta della veneziana basilica di San Marco, iniziata nel 1063.

    La cripta viene completamente abbandonata quando riprendono i lavori, nel 1106, ma neanche questa sarà la volta buona: il cantiere si ferma di nuovo, colpito tra l’altro anche dal terribile terremoto del 3 gennaio 1117, per riprendere soltanto nel 1123, quando finalmente si arriva a terminare la chiesa.

    Nonostante i numerosi cambi di progetto, e la realizzazione a singhiozzo, Santa Sofia è una delle chiese più suggestive e amate dai padovani. Restaurata di recente, incanta con la potente semplicità della sua facciata romanica, ed è ancora più bella la sera, quando l’illuminazione le restituisce la sua affascinante aura leggendaria. Un’ultima curiosità: proprio qui si trovava la prima pala d’altare firmata dal diciassettenne Andrea Mantegna nel 1448, raffigurante la Madonna col bambino. Dispersa nel Seicento, ne resta solo la trascrizione della scritta di cui era fregiata, grazie alla quale sappiamo che Mantegna era nato nel 1431 in un piccolo paese veneto di nome Isola di Carturo proprio sul confine tra Vicenza e Padova.

    14. Quattro passi sottoterra,

    alla scoperta della Padova sommersa

    Mentre passeggiate per il centro storico, provate a immaginare che sotto i vostri piedi giacciono i resti di antiche città che secolo dopo secolo si sono sovrapposte, fino ad arrivare alla nostra, destinata forse un giorno anche lei a eclissarsi, chi lo sa.

    Se siete a corto di fantasia non vi preoccupate: da qualche anno a questa parte è possibile visitare i sotterranei di palazzo della Ragione, che nel corso dei recenti restauri ha rivelato il piccolo tesoro custodito per secoli sotto di sé.

    Cospicui resti di epoche precedenti, da quella romana al primo Medioevo, consentono di ricostruire la crescita stratigrafica della città, in un affascinante e insolito viaggio indietro nel tempo a sette metri sotto il livello del suolo. È quanto è stato risparmiato dalle demolizioni e dal successivo livellamento del terreno per la costruzione del palazzo: nella galleria sud sono visibili uno spigolo di una casa-forte con un muro perimetrale lungo quasi nove metri, i resti di un pozzo e di un cantinone, buona parte di un pavimento musivo con tessere bianche e nere appartenente a una domus romana risalente al periodo fra il i e il II secolo d.C. e, infine, i resti di un edificio a torre, caratterizzato dalla presenza di una cantina con la volta a botte. Nella galleria nord ancora resti di case-torri, l’inizio di una strada senza manto di copertura che procedeva in direzione nord-sud e, in fondo alla galleria, la stratigrafia di un fossato, forse proprio quello descritto da Giovanni da Nono nelle sue cronache, che voleva il palazzo della Ragione costruito su di uno stagno paludoso, usato per la pesca. Infine, nella galleria trasversale si trovano i resti di una struttura con mura in laterizio e parti lignee.

    15. Lo strano caso della Madonna

    dei Noli e della colonna romana

    Un ultimo reperto dell’antica Patavium si trova in piazza Garibaldi ed è la colonna che, in un bizzarro collage di storia, tradizioni e casualità, si trova ora a reggere la cosiddetta Madonna dei Noli, opera della metà del Settecento attribuita ad Antonio Bonazza. Un collage, a dire la verità, è la stessa colonna, risultato di una ricostruzione operata nel 1954 mettendo insieme tutti i pezzi migliori allora conservati nel Museo Civico, venuti alla luce in luoghi e tempi diversi ma tutti in pietra di Aurisina, un calcare chiaro e compatto molto usato all’epoca, che proveniva dal Carso triestino. Il luogo della collocazione non è stato scelto a caso: qui si trovava in epoca romana il foro, che si estendeva dall’attuale liston di piazza Garibaldi a piazza Cavour. Una costruzione enorme, impensabile nello spazio cittadino odierno, e la colonna aiuta a immaginare quale potesse esserne l’altezza.

    Resta però da capire cosa c’entri la statua della Madonna. Bisogna tornare ancora un po’ indietro nel tempo, a quando la piazza non si chiamava Garibaldi ma del Fieno, perché vi si teneva il mercato del fieno, e dei Noli, perché un tempo qui giungevano le carrozze della posta, le diligenze e vi sostavano i vetturini (o nolesini perché effettuavano un servizio a nolo). Pare che questi ultimi non avessero un eloquio propriamente elegante e si lasciassero molto spesso scappare qualche bestemmia, a tal punto che i pii parrocchiani di San Matteo si stancarono e decisero di collocare qui la santa effigie, in un angolo della piazza, sperando che frenasse le lingue dei vetturini. La piazza conservò anche negli anni successivi la sua funzione di snodo per il transito cittadino: fino all’apertura della stazione ferroviaria da qui partivano i mezzi che portavano fuori Padova e oggi, in una sorta di curioso passaggio del testimone, sono i taxi a sostarvi, in attesa dei clienti. Nel frattempo, da severa ammonitrice, la statua diventò la Madonna dei Noli, ossia la patrona dei nolesini. Quando la piazza fu intitolata a Garibaldi, nel 1886, il manufatto fu spostato nella chiesa di Sant’Andrea e qui venne collocato il busto dell’Eroe dei due Mondi, ma i cittadini non erano convinti della soluzione: la Madonna doveva tornare nella piazza, a vegliare sui vetturini di oggi, i tassisti. Ecco spiegato cosa ci faccia lassù, appollaiata sopra la colonna romana. E ancora oggi come un tempo, l’8 dicembre i tassisti rendono omaggio alla loro patrona con una solenne cerimonia presso la chiesa di San’Andrea e una processione lungo le vie cittadine, con termine, naturalmente, in piazza Garibaldi.

    16. Pontecorvo e le ginocchia

    di Giustina

    Non ha un nome particolarmente rassicurante questo ponte che risale al 120-130 d.C. e che, anche se ristrutturato, presenta ancora la struttura a tre arcate originaria. Sarà per la pessima reputazione di cui godono i corvi nell’immaginario collettivo – per dirne una, nel poema di Edgar Allan Poe il sinistro uccello non solo parla, ma dice anche Nevermore ossia mai più, una specie di condanna eterna – ma viene da chiedersi quale inquietante origine abbia questo toponimo.

    Invece, proprio dove ci si aspetterebbe qualche leggenda a sfondo horror, si scopre che questo ponte non ha mai avuto a che fare con i corvi: l’etimologia del nome è invece pontem curvum, cioè ponte curvo, perché al centro si inarcava notevolmente per non essere sepolto dall’acqua del fiume, poi storpiato in corbus e infine corvus.

    Lo so, siete un po’ delusi, però, a ben vedere, una storia da raccontare su questo luogo c’è eccome.

    Secondo la tradizione, ai piedi del ponte il 7 ottobre del 304 fu catturata dai soldati dell’imperatore Diocleziano una giovanissima patrizia, accusata di aver abbracciato la fede cristiana. Era Giustina, la futura patrona di Padova. All’ordine di abiura dei soldati la giovane si inginocchiò e iniziò a pregare, e si narra che la pietra sulla quale si inginocchiò divenne morbida, tanto che vi rimase impressa la forma del suo corpo. Oggi le impronte delle ginocchia della santa non ci sono più, ma c’è un’edicola che ricorda il miracoloso evento.

    17. L’alba del cristianesimo padovano:

    il sacello di San Prosdocimo

    Se dovessimo trovare un luogo da cui partire per raccontare la storia del cristianesimo padovano questo sarebbe di sicuro il sacello di San Prosdocimo, nella chiesa di Santa Giustina. È il nucleo più antico della basilica dedicata alla santa patrona della città, quel che resta dell’edificio originario, eretto dal patrizio Opilione nel vi secolo per onorare la memoria della giovanissima martire. Secondo la tradizione fu proprio Prosdocimo, primo vescovo di Padova, a battezzare e convertire la sedicenne figlia di un patrizio padovano, catturata nel 304 e giustiziata nel Campo Marzio, nella zona dell’attuale Prato della Valle (o, secondo altre versioni di una vicenda che sfuma nella leggenda, a Pontecorvo).

    Il sacello era un tempio votivo che faceva parte della più ampia basilica in stile bizantino, luogo di preghiera per il popolo. Nel vi secolo non si presentava come lo vediamo attualmente, lo sappiamo perché lo descrisse, con dovizia di particolari, il poeta Venanzio Fortunato nella sua Vita Sancti Martini (565). Il patrizio Opilione non aveva badato a spese per decorare questo luogo sacro con preziosi pavimenti musivi, rivestimenti in marmo fatti arrivare dalla Grecia e finestre in alabastro. Oggi le pareti sono decorate con affreschi cinquecenteschi, della stessa epoca dell’altare dedicato al vescovo Prosdocimo.

    Originali sono invece l’immagine, in marmo greco, di Prosdocimo (v-vi secolo), posta sopra l’altare, che rappresenta il santo nell’eterna giovinezza del paradiso, simboleggiata dai due palmizi laterali e, a sinistra, davanti all’altare principale, la preziosa pergula o iconostasi, l’unica del vi secolo che ci sia pervenuta integra.

    Per giungere al sacello bisogna attraversare il Corridoio dei Martiri: l’ambiente è cinquecentesco, anche se vi si possono vedere lacerti di antichi mosaici, ma molto antico è il contenuto del pozzo. Sono qui raccolte le spoglie dei santi che il popolo, durante le invasioni barbariche, aveva nascosto nel sottosuolo per impedire che venissero profanate. La basilica non subì danni in quel frangente, verrà distrutta nel 1117 da un terribile terremoto. Passarono gli eoni, e i padovani si dimenticarono di lasciar detto dove avevano nascosto i preziosi resti. Vennero ritrovati secoli più tardi, il 2 agosto 1052, quando dal sottosuolo riemersero le spoglie di san Massimo, secondo vescovo di Padova secondo la tradizione, san Giuliano, santa Felicita Vergine e dei santi Innocenti; il 26 dicembre del 1075 tornò alla luce san Daniele, diacono e martire, nel 1174 santa Giustina e nel 1177 san Luca evangelista.

    18. Le ossa giuste, per una volta:

    la tomba di san Luca evangelista

    Dopo tutte le storie di falsi ritrovamenti, di identificazioni sbagliate se non fantasiose, di ossa distrutte o trafugate, finalmente un’illustre eccezione dimostra che a volte la scienza può anche dare qualche conferma, oltre a smontare tradizioni centenarie o declassarle a leggende.

    I padovani spesso se lo dimenticano, ma tra le mura della basilica di Santa Giustina sono conservate le spoglie di un santo molto importante, uno dei quattro evangelisti, san Luca. I suoi resti sono custoditi in un prezioso sarcofago trecentesco di scuola pisana, un manufatto realizzato con materiali pregiati quali marmo greco, granito orientale, porfido e alabastro.

    Memore delle passate bufale, in vista del giubileo del 2000 il vescovo ha pensato di assicurarsi che dentro quell’antico gioiello ci fossero proprio le spoglie del santo, e ha nominato una commissione scientifica che nel 1998 ha aperto il sarcofago, dando inizio a una lunga serie di studi ed esami che sono durati circa due anni. Si era già preparati al peggio, e invece gli indizi emersi dalle analisi non hanno fatto che confermare la tradizione in ogni sua parte.

    Tanto per cominciare, il signore nel sarcofago aveva all’incirca ottant’anni, come san Luca quando morì. Anche la datazione al radiocarbonio ha dato l’esito sperato – come l’evangelista, sarebbe morto all’incirca intorno al 130 d.C. – e il dna sembrerebbe proprio quello di un siriano. Ma la cosa più curiosa è che a determinare la data in cui le spoglie sarebbero arrivate a Padova, trafugati dalla basilica degli Apostoli di Costantinopoli, sono stati i resti di una colonia nostrana di bisce, morte all’incirca nel IV secolo d.C. (nel periodo in cui anche secondo la tradizione il santo doveva essere qui), soffocate nella bara di piombo a seguito di un’alluvione nell’area di Santa Giustina. La prova decisiva è stata però quella del cranio: san Luca non ce l’hanno tutto i padovani, la testa è finita nel 1354 nelle mani dell’imperatore Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia, che l’ha portato a Praga dove si trova ancora oggi, nella cattedrale di San Vito. In occasione dello studio il cranio è stato fatto arrivare a Padova e si è potuto verificare che combacia con il resto del corpo.

    Adesso che la conferma ufficiale è arrivata, avvicinandoci al sarcofago di san Luca possiamo essere sicuri che là dentro c’è davvero uno dei quattro evangelisti.

    19. La Madonna miracolosa in fuga da Costantinopoli

    Tra le molte meraviglie conservate nella basilica di Santa Giustina, tuttora una delle chiese più grandi al mondo con i sui 122 metri di lunghezza, c’è un’immagine sacra molto antica, e molto venerata nei secoli dai padovani, che affascina ancora per il mistero che la avvolge e per le leggende fiorite sulle sue origini. È la Madonna costantinopolitana, secondo molti studiosi la più antica effige della Vergine presente in città. Si trova sopra il sarcofago di san Luca e non per nulla: secondo la tradizione, sarebbe proprio lui l’autore dell’antichissima icona e insieme alle sue spoglie l’icona avrebbe fatto il viaggio che l’ha condotta dalla basilica dei Dodici Apostoli a Costantinopoli sino a Padova. Nella lontana capitale orientale imperversava tra l’vIII e il IX secolo la furia iconoclasta, perciò insieme ad altre effigi religiose anche la Madonna padovana era finita tra le fiamme, ma da queste volò, miracolosamente, nelle mani di una donna che la consegnò al prete Urio. Fu quest’ultimo a trarla in salvo e a portarla a Padova.

    L’icona, dunque, arrivava a Santa Giustina già molto danneggiata, ma il primo tentativo di ripristinarne l’antica bellezza non va in porto: a raccontarcelo è, alla fine del Quattrocento, il vescovo Pietro Barozzi, che narra come l’effigie tornasse da sola al suo posto dopo essere stata affidata al pittore per il restauro. Si vede che aveva capito che quelli non ci sapevano fare, meglio aspettare qualche secolo...

    Si trovò allora un’altra soluzione per renderla presentabile: nel Cinquecento un pittore dipinse il volto della Madonna e del bambino su una tela sottilissima che fu poi sovrapposta all’originale e rivestita da una riza (un rivestimento che lasciava scoperti solo volti e mani) d’argento dorato. Per secoli, fino cioè al 1959, l’effigie originale fu celata agli occhi dei cittadini, che continuarono comunque a venerarla. È sempre il vescovo Barozzi a raccontarci che la specialità della Madonna erano le siccità: dopo tre giorni di digiuno, veniva portata in processione intorno a Prato della Valle e quasi sempre la pioggia arrivava. Così si meritò l’epiteto di Salus populi patavini.

    Il 23 maggio 1909 monsignor Andrea Panzoni promosse l’incoronazione solenne dell’icona costantinopolitana e ancora oggi nell’anniversario si rinnova la tradizione delle processioni in suo onore a Prato della Valle.

    E ora la parte meno affascinante, quella dello scienziato guastafeste. Dopo il 1959 l’immagine cinquecentesca fu staccata e collocata sopra il sarcofago di san Luca, mentre quella antica fu fatta restaurare. Questa volta, nelle mani esperte di un qualificato studioso, lasciò fare, ma venne fuori che la storia della fuga da Costantinopoli non reggeva: alcune caratteristiche stilistiche portavano la datazione molto più in là dell’epoca iconoclasta, almeno al XII secolo. Attualmente la preziosa tavola si trova all’interno della cappella del Monastero.

    20. Le fatiche di san Daniele,

    patrono dimenticato

    Non tutti i santi a Padova sono stati subito incensati e onorati come sant’Antonio. C’è chi ha dovuto penare anche dopo la morte per avere il giusto riconoscimento. Tra questi sicuramente il povero san Daniele, che – non molti se lo ricordano – è uno dei quattro patroni, insieme a Giustina, Prosdocimo e naturalmente Antonio. Le notizie sulla sua vita terrena si perdono nella notte dei tempi: fu forse diacono e morì molto probabilmente sotto le persecuzioni di Diocleziano, nel IV secolo. Le sue spoglie giacevano insieme a molte altre nel sottosuolo della basilica di Santa Giustina, ma, come le altre, furono nascoste durante le incursioni barbariche e poi dimenticate.

    E qui, per san Daniele, inizia la sfacchinata. Siccome nessuno sembrava ricordarsi delle sue ossa che giacevano sottoterra ignorate, pensò di manifestarsi a un cieco della Tuscia (cioè l’Etruria) dicendogli di andare a pregare nell’oratorio padovano di San Prosdocimo, dove si trovavano le sue spoglie, e lui gli avrebbe ridato la vista. Il miracolo avvenne e allora iniziarono, frenetiche, le ricerche, che portarono ben presto alla luce l’arca dove il santo giaceva così com’era stato ucciso: il corpo, disteso supino sopra una tavola di legno e coperto da una lastra di marmo, era trapassato da molti lunghi chiodi. Pensate un po’, tutte queste sofferenze per poi essere pure dimenticati: chiunque se la prenderebbe.

    Ma non è finita qui. A questo punto, direte voi, si decise finalmente di erigere una chiesa in suo onore. Invece no: il 30 gennaio del 1076 il vescovo Ulderico decise di far portare le reliquie alla cattedrale, già dedicata all’Assunta. San Daniele andò proprio su tutte le furie e all’altezza dell’attuale via Umberto i fece scurire il cielo, che diventò cupo e minaccioso, e fece sì che l’arca che conteneva le sue spoglie divenisse talmente pesante da non poterla trasportare. A quel punto Ulderico capì l’antifona e fondò la chiesa di San Daniele. Il patrono però è sepolto nel duomo.

    Chi invece è sepolto qui, perché in questa zona, l’antica contrada delle Torricelle, abitava, è un certo Angelo Beolco, meglio conosciuto con il nomignolo di Ruzante, il commediografo che ha regalato con le sue commedie eterna gloria al pavano, l’antico idioma del popolo padovano.

    Per finire, un aneddoto curioso. Nelle cronache cittadine, e in particolare in quelle riportate da Francesco Liguori in Crimini e fattacci in baùtta nella Padova del Settecento, si narra di un fatto che rimase per un bel po’ sulla bocca di tutti, che ricorda da lontano le vicende manzoniane di Renzo e Lucia: nella sera del 13 gennaio 1736 don Giobba Grassi, cappellano di San Daniele, ricevette alla porta un bresciano mascherato che intendeva sposarsi subito con la donna che gli si celava alle spalle, anch’essa mascherata. Il matrimonio non si celebrò ma il fatto provocò chiacchiere per mesi. Si scoprì poi che il pretendente era studente all’ateneo patavino e che dopo il matrimonio negato fuggì frettolosamente abbandonando la fidanzata Cecilia allo scandalo. Si sa gli studenti padovani come sono fatti...

    21. Quando san Violin faceva

    i favori a santa Giustina

    C’è un vecchio detto, ormai caduto da tempo in disuso, che si usava quando qualcuno di molto importante o facoltoso si trovava a dover chiedere aiuto a un altro di rango inferiore o più povero. Si diceva allora san Violin fa i piasseri a santa Giustina. Ma chi era questo san Violin?

    Innanzitutto non si chiamava davvero Violino ma Leonino, ma i padovani, si sa, avevano l’abitudine di tradurre nel loro idioma persino i nomi dei santi. San Leonino fu l’undicesimo vescovo di Padova, nel III secolo d.C. Della sua vita, però non sappiamo praticamente nulla, le cronache ci dicono soltanto che era un «patavus pauper sed virtutibus radians», cioè un padovano povero ma pieno di virtù. In suo onore esisteva un’antichissima chiesetta a Prato della Valle, sul lato orientale, ossia dove oggi ha inizio via Briosco, distrutta nel 1454, ricostruita dai monaci di Santa Giustina e sopravvissuta fino all’Ottocento, quando fu dapprima chiusa e poi demolita. Aveva anche un ospedale annesso, affidato alla confraternita del Buon Gesù, dove la Repubblica veneta istituì la Scuola delle Comari, che non era una sorta di congrega di pettegole (non solo, almeno), ma un istituto dedicato all’istruzione delle ostetriche.

    Ancora non abbiamo spiegato, però, da dove viene il curioso detto. Ebbene la tradizione vuole che i ricchi e potenti monaci di Santa Giustina, in occasione di una certa celebrazione liturgica, si siano trovati a corto di paramenti sacri e abbiano dovuto chiederli in prestito ai loro vicini di casa, decisamente più modesti.

    Nella chiesa di San Leonino erano conservate le spoglie del vescovo padovano, poi traslate dapprima a Santa Giustina e in seguito al duomo, dove riposano tuttora. Secondo la tradizione, nel 1420 vi trovò sepoltura un altro personaggio molto venerato dai padovani, il beato Marco Boato, monaco dell’ordine soppresso dei gesuati. Pare che costui fosse straordinariamente obbediente: il suo superiore un giorno gli chiese di raccogliere le braci con le mani e lui, senza battere ciglio, le prese a mani nude senza ferirsi. Fatto sta che adesso le spoglie del Beato Marco ce le siamo perse. Già al tempo di Angelo Portenari, autore nel Seicento del celeberrimo Della felicità di Padova, non si era sicuri di dove fossero: lui sosteneva che si trovassero nell’antica chiesa dei gesuati, poi paolotti. Anche i paolotti, però, dopo essere stati adibiti a carcere per anni, sono stati rasi al suolo nel 1966, e al loro posto sorgono edifici universitari.

    Al posto del convento e della chiesetta di San Leonino oggi c’è il celebre ristorante Zairo, già aperto nel 1904 con il nome di Trattoria e birreria al Giardinetto. Dell’antico edificio originale sono visibili all’interno del ristorante l’ingresso principale e le tre navate sostenute da colonne. Altro particolare di notevole valore storico è l’affresco del 1673 raffigurante uno scudo con ai lati due grifoni rampanti.

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    1 Virgilio, Eneide, Newton Compton, Roma 2012, i, 296-306.

    Padova medievale

    22. La Padova delle contrade:

    le fraglie

    Il volto della Padova medievale era fortemente condizionato

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