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Potere H: I disabili che hanno fatto la storia
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E-book301 pagine4 ore

Potere H: I disabili che hanno fatto la storia

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Il concetto ispiratore di questo libro è raccontare le vite dei disabili che hanno fatto la Storia con la maiuscola, quella che resta scolpita negli annali o nell’immaginario collettivo. Non quelli che hanno battuto record o dimostrato “di potercela fare”, ma uomini e donne che, nonostante i propri handicap, sono arrivati ai vertici assoluti nelle rispettive discipline o arti. Dalla politica allo sport, dalla musica alla fisica. Una carrellata di vite eccezionali articolata in una quarantina di ritratti: personaggi celebri - Omero o Beethoven, Roosevelt o Hawking, Ray Charles o Alex Zanardi – come pure meno noti al grande pubblico, ma per questo più sorprendenti: dal Re Pescatore custode del Graal, al rivoluzionario francese in carrozzina, ai “mezzi uomini” del cinema americano. Senza dimenticare coloro che, con il loro lavoro o il loro esempio, attraverso i secoli hanno contribuito in modo decisivo alla progressiva accettazione, integrazione e, infine, inclusione sociale dei disabili: da Braille o De L’Èpée a indimenticabili testimonial come Christopher Reeve o Muhammed Alì.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita13 gen 2020
ISBN9788863365160
Potere H: I disabili che hanno fatto la storia

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    Anteprima del libro

    Potere H - Roberto Zucchi

    PREMESSA

    CHI, COME, PERCHÉ

    Il concetto ispiratore di queste pagine è semplice: raccontare brevemente le vite di disabili che hanno fatto la Storia con la maiuscola, quella che resta scolpita negli annali o nell’immaginario collettivo. Tranne alcune motivate eccezioni, non scriverò quindi di quelli che hanno battuto record o dimostrato che anche noi ce la possiamo fare, ma di disabili che si sono dimostrati bravi in assoluto – anzi, molto bravi – nelle rispettive discipline o arti.

    Attenzione: milioni di disabili (e le rispettive famiglie) compiono ogni giorno sforzi eccezionali per vivere normalmente – un diritto peraltro sancito anche dalle Nazioni Unite – ma, a questa battaglia quotidiana, le donne e gli uomini che incontreremo hanno aggiunto il loro genio specifico. Volontà di acciaio coniugata a creatività, intelligenza, coraggio, perseveranza e passione, ma anche brama di potere e perfino violenza: scopriremo nella quasi totalità dei casi personalità eccezionali, tanto da non poter stilare una classifica, che lasciamo semmai alla sensibilità personale del lettore.

    Naturalmente mi assumo la piena responsabilità della scelta, certamente opinabile e parziale. Per la gran parte dei casi, il criterio è stato che si trattasse di veri disabili, sia nell’accezione attuale che rispetto al proprio tempo. Vale a dire menomati da un grave handicap (dovuto a malattia, trauma o altro) mentre realizzavano ciò per cui sono divenuti famosi.

    A parte un paio di necessarie deviazioni, la rassegna è organizzata cronologicamente per periodi storici e date di nascita: dagli eroi leggendari ai protagonisti delle cronache contemporanee.

    Questo orientamento temporale disegna indirettamente anche il profilo di una vera e propria Storia dell’integrazione dei disabili: dall’accettazione all’inserimento e alla progressiva normalizzazione sociale. Infatti alcuni personaggi sono stati inseriti, più che per le glorie personali, per i salti in avanti che hanno impresso alla coscienza collettiva con il loro esempio di eccezionali testimonial.

    Parliamo di un processo storico drammatico, costato davvero secoli di sangue, sudore e lacrime. Studi recenti mettono in dubbio che gli Spartani abbandonassero sul monte Taigeto i neonati deformi, ma in realtà quella era una pratica tristemente diffusa nelle civiltà arcaiche. Come spesso accade, per ragioni banalmente economiche: quando le risorse sono scarse, è sbagliato dividerle con chi non è utile alla comunità.

    Il problema etico non si poneva, né se lo posero le antiche religioni. Dall’Oriente induista all’Occidente cristiano, deformità, malattie o traumi invalidanti erano semplicemente considerati punizioni divine. Per le colpe commesse in questa o in una vita precedente. Ciò ha provocato la dannazione sociale di intere comunità – lebbrosi e nani, ad esempio – ma, soprattutto, ha provocato ritardi nello sviluppo delle cure mediche, sicuramente costati milioni di vite innocenti.

    Quasi indifferente alla diversità dei tempi è invece un altro filo rosso che si evidenzia scorrendo le biografie di personalità così diverse: la fondamentale importanza della famiglia, soprattutto se facoltosa. Sembra banale, ma dietro a molti di questi personaggi ci sono spesso stati una madre, un padre o un educatore che si sono presi cura con grande amore di quel bimbo diverso, senza badare a spese, tempo e sacrifici. Un altro modo per dire che chissà quanti potenziali geni l’umanità s’è persa solo perché nati nei posti sbagliati.

    Ho accennato ai testimonial dell’integrazione: è il momento quindi di ricordare l’amico Franco Bomprezzi, giornalista, scrittore e primo grande demolitore dei muri che nascondevano il mondo della disabilità italiano. Prima dal palcoscenico del Maurizio Costanzo Show, poi dalle pagine e dai siti del Corriere della Sera e di molte altre testate, con la sua intelligenza, sensibilità, ironia e simpatia, senza pietismi, Bomprezzi fin dagli anni ’80 ha fatto scoprire agli italiani che un disabile è semplicemente una persona come le altre, con gli stessi diritti e doveri, ma che ha più problemi per campare. Ebbene, Bomprezzi scrisse un romanzo (La contea dei rotanti) in cui i disabili imponevano le loro leggi ai normodotati, e allora scherzammo sulla costituzione di un movimento per l’Handicap power, il potere ai disabili. Ecco, il Potere H del titolo vuol essere un omaggio a questo pioniere della società inclusiva.

    E, a proposito di handicap, una precisazione sulla terminologia usata (su cui concordava anche Bomprezzi). Da paraplegico di lungo corso e giornalista, considero perifrasi abbastanza inutili (e ipocrite) allocuzioni ritenute politicamente corrette tipo diversamente abili, portatori di deficit uditivo o sensorialmente deprivati. Chi le preferisce faccia pure, ma ritengo che il livello di civiltà di una società si misuri su quanto integra le persone, non per come le definisce: piuttosto, se qualcuno viene apostrofato come handicappato, mongoloide, negro, ebreo, ecc... è il disprezzo razzista dell’insulto che va politicamente corretto. Personalmente, essere classificato un disabile non l’ho mai considerato dispregiativo, e per questo ho usato anche termini oggi svalutati, come cieco e sordo. Perché non li ritengo offensivi, ma solo più immediati.

    Oltre agli appartenenti alle categorie appena citate, incontreremo para-tetraplegici, malati di Sla, sclerosi multipla, lebbra, osteogenesi imperfetta, paralisi cerebrale, spina bifida, sindrome di Down, agenesia sacrale e altre malattie genetiche. Non troveremo invece quei personaggi che si dice fossero affetti da patologie invalidanti: ad esempio Leonardo da Vinci malato del morbo di Parkinson oppure i presunti epilettici Napoleone, Giulio Cesare e Alessandro Magno... Né compaiono coloro per i quali la malattia è stata creativamente ininfluente: dalla sindrome di Meniere di Van Gogh a quella di Asperger attribuita a Mozart, Kant e Joyce, dall’asma di Che Guevara, alla dislessia giovanile di Einstein.

    Quindi un cenno bibliografico. Dato il carattere enciclopedico della rassegna, i testi da citare sarebbero troppi e la scelta potrebbe facilmente rivelarsi lacunosa. Ho preferito così fornire la maggior parte dei riferimenti a pagine web, dalle quali i lettori possono approfondire e/o allargare le ricerche a proprio piacimento. Intendo comunque sottolineare la sensibilità civile di Wikipedia Italia, che alla disabilità dedica un portale con ben 52 sezioni.

    Infine, la domanda da cento pistole: perché questo libro? Perché non c’era, sarebbe la risposta più facile. Oppure per una sana rivalsa del tipo facciamola vedere ai normali che senza di noi la Storia sarebbe piena di buchi... Presuntuosamente, spero qualcosa in più. Cioè che dall’esempio di tante vite eccezionali, almeno un lettore – disabile o meno – riceva lo spunto per migliorare la propria.

    Roberto Zucchi

    1

    L’ANTICHITÀ: VEGGENTI E CANTORI CIECHI

    "La Musa lo amò molto, ma un bene e un male gli diede: degli occhi lo fece privo e gli donò il dolce canto"¹.

    Così, nell’Odissea, Ulisse descrive l’origine della cecità di Demodoco, cantore alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, sottolineando la stretta correlazione tra la sua disabilità e le straordinarie capacità narrative.

    Una relazione, personificata dallo stesso Omero, che risale a culture antichissime, dall’Egitto all’antico Oriente, secondo cui i non vedenti erano spesso dotati di memoria prodigiosa. Aristotele, nel IV secolo a.C., fu il primo a sostenere che le maggiori capacità mnemoniche fossero diretta conseguenza della cecità, mentre una sentenza dell’oracolo di Delfi aveva già definito la memoria come la vista del cieco, che vede nel tempo invece che nello spazio.

    Profezia o capacità di recitare/cantare interi poemi erano considerate compensazioni alla cecità, così come la cecità a volte era una punizione per coloro che rivelavano agli uomini quanto non era permesso. Ne sono celebri esempi Fineo re di Tracia, accecato per aver dato consigli troppo giusti agli Argonauti, o Tiresia, grande figura tragica dell’Iliade, veggente cui l’arte profetica era stata concessa in cambio della cecità inflitta per aver... visto Atena nuda.

    La perdita della vista come espiazione di una colpa (anche veniale) è un tema mitologico ricorrente e spesso legato alla gelosia. Per questo il bel pastore Dafni finisce accecato dalla ninfa Nais, sua moglie, e il cacciatore Orione dal re Enopio, mentre Tamiri, poeta tracio, per aver osato lanciare una sfida alle Muse, e Licurgo, re degli Edoni, per avere maltrattato le ninfe nutrici di Dionisio. Edipo, poi, si acceca da sé quando capisce di aver compiuto inconsapevolmente un incesto e un parricidio.

    Il meccanismo di compensazione tra cecità e altre capacità intellettive è oggi scientificamente provato da ricerche come quella effettuata dall’equipe del prof. Adam Ockelford, dell’Institute of Education di Londra, sulla percezione musicale dei non vedenti². Dopo aver preso in esame oltre quaranta bambini ciechi dalla nascita (nonché le loro famiglie, maestri e terapisti), ha constatato che essi sono quattromila volte (!) più portati dei loro omologhi vedenti al cosiddetto orecchio assoluto, cioè la capacità di identificare l’altezza delle note musicali senza l’ausilio di un suono di riferimento, come ad esempio quello del diapason. Solo una persona normale su diecimila e il 20 per cento dei musicisti ne è dotato.) Inoltre quasi un bimbo non vedente ogni due (contro il 13 per cento degli altri dimostra un grande interesse ai suoni della vita quotidiana, classificandoli subito come utili o meno.

    Per Ockelford il motivo è ovvio: Nei bimbi piccoli il cervello è molto plasmabile, nascono e crescono continuamente sinapsi e connessioni. In quelli ciechi le aree del cervello coinvolte dalla vista non sono usate, ma le altre, incluse quelle destinate all’udito, divengono molto più importanti... e quindi il cervello si sviluppa in modo differente.

    2

    OMERO

    Quali stimoli abbiano indirizzato lo sviluppo del cervello di Omero resta un mistero, ma se c’è un nome da cui iniziare la nostra rassegna, non può essere che il suo.

    Un nome che incute timore reverenziale, perché significa alzare lo sguardo verso il sole, verso l’autore che ha impresso un segno iniziale indelebile alla cultura occidentale, definendone tematiche e valori in due poemi che sono l’alba e lo zenit della letteratura epica, l’Iliade e l’Odissea. Che Omero, nonostante fosse cieco, dicevano scrivesse e recitasse a memoria: la bellezza di 48 libri in esametri dattilici.

    Superfluo riassumerne le trame o le migliaia di spunti disseminati nei versi che narrano gli ultimi giorni di Troia e il viaggio straordinario di Odisseo. Perché materialmente impossibile e perché il nostro bagaglio culturale collettivo è talmente impregnato da quell’epopea da aver determinato modi di dire (cavallo di Troia, tela di Penelope, tallone d’Achille...) e codificato nomi in simboli (Ulisse uguale avventurosa sete di conoscenza, Cassandra e le profezie di sventura, Circe l’ammaliatrice...).

    Quelle pagine immortali ci hanno inoltre insegnato come vivevano i nostri antenati: non solo i re e gli eroi, ma anche come i contadini aravano i campi o i marinai armavano le barche; ci hanno rivelato un mondo brulicante di sorprese e insidie infinite, ma in realtà racchiuso nel Mediterraneo. Hanno condotto un archeologo dilettante ma imbevuto dei versi di Omero, Heinrich Schliemann, a ritrovare i resti di Troia e le sue imprendibili mura ancora annerite dal fuoco tra gli scheletri di nove strati di città.

    O almeno, questo ci hanno insegnato a scuola, per generazioni.

    Ora non più. Perché, mentre per duemila anni gli studenti – come del resto gli dei dell’Olimpo – facevano il tifo per Achille o Ettore, linguisti, filologi e archeologi a partire dal ’600 si sono accapigliati per sviscerare quella che è stata definita la questione omerica, quasi una branca di studio interdisciplinare a sé. Una questione che consiste fondamentalmente nel sapere:

    1. se Omero è realmente esistito;

    2. se così non è stato, chi ha davvero scritto i due poemi omerici;

    3. da dove provengono i loro contenuti storici e morali.

    Da Giambattista Vico in poi si è messo in discussione tutto ciò che riguarda Omero, col risultato che ora sembra ne sappiamo meno di prima... Quindi, tralasciando i numerosi binari morti in cui negli anni la ricerca s’é infilata, vediamo qual è lo stato dell’arte a proposito delle tre domande cruciali. Partendo dall’ultima.

    3. A tutt’oggi gli studiosi hanno convenuto che i contenuti di Iliade e Odissea fossero patrimonio non di una persona o un gruppo, ma della cultura di un’intera fase della civiltà ionica, cioè quella che si sviluppò tra le attuali Grecia e Turchia dall’XI secolo avanti Cristo. Qualcosa definito come un’enciclopedia tribale³ o un conglomerato ereditario⁴ che incorporava religione, storia, costumi, tradizioni ed etica.

    2. Per lungo tempo la narrazione omerica fu diffusa oralmente: cantori-attori detti aedi recitavano l’Iliade e l’Odissea di corte in corte nei regni e nelle cittàstato attorno al Mar Egeo. Alcuni erano ciechi ed erano considerati sacri, poiché tramite la loro bocca si riteneva parlassero anche gli dei⁵, ed erano perciò accolti come i più benvenuti tra gli ospiti.

    Quando in Asia Minore venne introdotta la scrittura (750 a.C. circa) gli aedi la usarono inizialmente per fissare come appunti le varie fasi delle lunghe narrazioni. Dagli appunti ai brani compiuti e poi alla scrittura dell’opera intera i passi furono consequenziali e così agli aedi si affiancarono i rapsodi, che leggevano il testo, con o senza accompagnamento musicale.

    Però, vuoi per personali licenze poetiche, difformità interpretative o convenienze partigiane, circolavano troppe versioni diverse dell’Iliade e dell’Odissea e ci vollero quattro secoli di diatribe per scegliere quelle giuste. La decisione fu presa dai grammatici (esperti letterari) di Alessandria d’Egitto attorno al 150 a.C.

    Il manoscritto dell’Iliade più antico pervenutoci, e ritenuto il più fedele all’originale, è il cosiddetto Venetus A, religiosamente conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia. Risale al 950 d.C. circa, è scritto in greco e l’avrebbe portato in Italia da Costantinopoli nel 1420 il poeta-mercante Giovanni Aurispa. In seguito fu comprato dal famoso cardinale Bessarione – un umanista bizantino con l’enorme merito di aver fatto riscoprire la classicità greca nel Rinascimento – che lo donò alla Serenissima assieme a gran parte della sua immensa biblioteca.

    1. Non sappiamo dove Omero sia davvero sia nato e quando. Nell’antichità almeno sette città ne vantavano i natali: Atene, naturalmente, ma anche Argo, Rodi, Salamina, Smirne, Colofone e Chio. Gran parte di questi centri erano situati nella Ionia, la zona delle progredite colonie greche in Asia Minore di cui faceva parte anche Troia, e ionico è il dialetto in cui l’Iliade fu scritta. Naturalmente ognuna di queste città esibisce elementi per rivendicare Omero, ma alla fine la più accreditata è Chio, un’isola a pochi metri dalle coste turche, nell’Egeo meridionale. Oltre che per la congruenza linguistica, per due motivi: in un inno ad Apollo attribuito allo stesso Omero l’autore si definisce uomo cieco che abita nella rocciosa Chio e perché nell’isola sorse una scuola di aedi detta degli Omeridi (figli di Omero) che sostenevano di esserne i discendenti diretti e furono molto attivi nella diffusione rigorosamente orale dei poemi.

    Pure a sostegno della cecità di Omero ci sono numerosi indizi, in primis il nome stesso, che in greco antico significa colui che non vede, e poi, tra gli altri, il brano dell’Odissea citato inizialmente in cui l’accoglienza all’aedo Demodoco ricalca quella che egli stesso riceveva: "Intanto l’araldo arrivò guidando il gradito cantore... per lui Pontònoo mise un trono a borchie d’argento nel centro dei convitati, a un’alta colonna appoggiandolo; e appesa a un chiodo la cetra sonora, sulla sua testa, gli insegnò a prenderla con le sue mani, l’araldo"⁶.

    Tuttavia, anche di questo ufficioso Omero di concreto sappiamo ben poco, perché i biografi hanno esagerato, cucendogli addosso almeno sette-otto vite diverse, ma purtroppo nessuna credibile: dall’essere figlio della ninfa Creteide alla discendenza da Orfeo, il mitico poeta che col suo magico canto ammansiva bestie feroci e signori degli inferi. C’è anche chi ha raccontato una gara di poesia testa-a-testa tra Omero ed Esiodo, l’altro padre nobile della letteratura ellenica: allora le competizioni tra poeti, a corte, erano consuete, ma anche questa è l’ennesima leggenda, perché i tempi non collimano.

    Così come è di pura fantasia l’iconografia delle sembianze di Omero tramandata in busti, sculture e monete, che però ha il merito di aver fornito al nostro immaginario una forma di riferimento: criniera di capelli scomposti, fascia sulla fronte, barba fluente, volto severo e occhi aperti.

    Dando in fondo ragione all’intuizione di Giambattista Vico, nelle scuole oggi si insegna che Omero "... non è tanto l’autore di due opere letterarie, ma il nome dato a un codice di comportamento morale, religioso, politico e sociale, che appartiene a una certa fase della civiltà greca⁷".

    Scientificamente crudele e inesorabile come suo dovere, la ricerca storica ha quindi ucciso il mito originario del disabile più celebre della letteratura mondiale, ma siamo sicuri che averlo trasformato in una specie di copyright collettivo o marchio D’Origine Controllata dell’epica sia la soluzione migliore? Non sarà, piuttosto, che i ciechi siamo noi, che crediamo di poter cristallizzare un pensiero creatore di mondi, ostinandoci a voler inscatolare in umane categorie "... la materia con cui sono fatti i sogni"?

    3

    IL RE PESCATORE

    Esistono figure di disabili che, esattamente al contrario di Omero, hanno oltrepassato la Storia per restare cristallizzate nel mondo delle leggende? E perché l’esercito di Sua Maestà Britannica ha arruolato dei corvi?

    Un sentiero affascinante, in bilico tra storia e mitologia, realtà e magia, ci darà le risposte.

    Miti e tradizioni popolari pullulano di ibridi tra esseri umani e animali più o meno mostruosi: dall’arpia al minotauro, dal centauro al satiro, dal vampiro alla sirena, e solo per restare nell’ambito della cultura occidentale. Ma più che di persone vittime di deformità causate da tare, malattie o traumi, si tratta quasi sempre di figure simboliche, personificazioni delle fobie collettive che si verificano nei passaggi da uno stadio di civiltà al successivo – dalla fase pastorale a quella agricola o dall’età del bronzo a quella del ferro – fino ai mutanti o ai cyborg dell’attuale trapasso tra era industriale e informatico-genetica.

    Più unica che rara appare così la figura del Re Pescatore, comparsa quasi un millennio fa nella Francia medievale, nel pieno del fiorire della letteratura cortese. Quando cioè cominciarono a essere messe per iscritto le gesta di guerra, d’amore e di corte della società feudale, codificando in questo modo i valori e le regole della cavalleria: onore e fedeltà, abnegazione e sprezzo del pericolo, difesa dei deboli (e delle belle dame) e ricerca della purezza spirituale. Regole che peraltro, nella quotidianità, si traducevano in frequenti combattimenti – tornei, duelli per il proprio signore, per lavare un’onta o anche solo per un diritto di passaggio – salvataggi di pulzelle in pericolo e perigliose missioni a caccia di presunti draghi o alla ricerca di reliquie miracolose⁸.

    Il Re Pescatore (o Re Ferito) è al centro proprio della più famosa delle queste (ricerche), quella del Sacro Graal. Egli appare per la prima volta nell’opera incompiuta di Chretien de Troyes Le roman de Perceval ou la conte du Graal. Chretien era un poeta francese vissuto tra il 1135 e il 1190 presso le corti feudali di Maria di Champagne e Filippo d’Alsazia, conte di Fiandra. A lui si deve la prima stesura articolata del cosiddetto ciclo arturiano, cioè le concatenate leggende di origine bretone e celtica sorte attorno alla figura mitica di re Artù e alle imprese dei suoi cavalieri.

    Il protagonista del libro è Parsifal, un ragazzo cresciuto nella foresta che, grazie alle capacità cavalleresche, riesce a entrare a far parte della Tavola Rotonda e, per la purezza del suo cuore, sembra essere il predestinato a trovare il Graal. Va sottolineato che nella versione originaria di Chretien de Troyes il Graal non è ancora Santo e non ne è del tutto chiara neppure la forma, se una coppa (o grolla) o un bacile; l’autore scrive che una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Lo descrive fatto dell’oro più puro e incastonato con le pietre più ricche e preziose che vi siano in mare e sulla terra e che al suo apparire si diffuse una luce sì grande che le candele persero chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna.

    Forma a parte, di certo si sa che il Graal ha la facoltà di allungare la vita, guarire ogni male e fornire ogni ben di Dio (un po’ come la cornucopia della tradizione greco-latina) e che solo un cavaliere perfettamente puro d’animo potrà trovarlo e porre fine alla desolazione che flagella il mondo.

    Ebbene, il custode del Graal è proprio il Re Pescatore, in cui Parsifal s’imbatte durante le sue peregrinazioni. Un sovrano il cui regno è triste e desolato perché egli non può camminare, il nostro disabile leggendario.

    L’incontro avviene lungo un fiume: il cavaliere, non riuscendo a guadarlo, chiede indicazioni a due uomini su una barca ancorata in mezzo alla corrente. Uno dei due, che sta pescando, gli risponde che là attorno non ci sono guadi né alloggi per molte leghe e gli promette che, se prenderà un certo sentiero, vedrà un castello in cui la sera stessa lo avrà suo ospite.

    Così accade e la scena si sposta nel sontuoso salone del castello, dove il pescatore si presenta ufficialmente come un re. Chretien racconta che è "un valent’uomo di bell’aspetto, i capelli quasi bianchi. Il capo è coperto da un cappuccio di zibellino nero come le more, intorno al quale s’avvolge un tessuto di porpora. Della stessa stoffa e colore è fatta la veste"⁹. E sottolinea che è seduto e si appoggia a un gomito. È il re stesso a spiegare questa posizione all’ospite e a confessare il proprio disagio: Amico, non me ne vorrete se per rendervi onore non mi alzerò: farlo non mi è agevole. Poi lo chiama a

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