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Prospettive visive della morte: Dal lamento rituale all'oblio culturale del lutto
Prospettive visive della morte: Dal lamento rituale all'oblio culturale del lutto
Prospettive visive della morte: Dal lamento rituale all'oblio culturale del lutto
E-book262 pagine3 ore

Prospettive visive della morte: Dal lamento rituale all'oblio culturale del lutto

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Info su questo ebook

Per mezzo dello sguardo l'uomo si difende dalla morte, incognita della vita per antonomasia.

Ripercorrendo gli studi su lutto e cordoglio, si esaminano le tradizioni di alcune comunità del meridione d'Italia oggi pressoché scomparse. Con alcuni documentari etnografici di stampo demartiniano, sono stati studiati la morte, il lutto e il cordoglio in alcune culture "subalterne", prestando particolare attenzione al lavoro di Luigi Di Gianni, regista che in varie occasioni collaborò con l'antropologo Ernesto De Martino. Attraverso questi documenti si studia il lamento rituale, importante forma terapeutica canonizzata, con cui la comunità si rende partecipe del dolore dei luttuati, aiutandoli ad elaborare l'accaduto.
La contemporaneità dell'oblio del lutto viene invece esaminata attraverso alcuni film fiction, che diversi nelle loro sottotematiche, propongono situazioni a noi più comuni, in cui l'uomo di oggi non riesce ad affrontare adeguatamente la perdita di un proprio simile.
Altri documentari, tra cui un'intervista filmata ad un'anziana zia dell'autore, costituiscono il ponte tra un passato marcato da espedienti "tradizionali" e un presente caratterizzato da un allontanamento del dolore, sempre più veloce, che porta - attraverso l'oblio - un maggiore senso di smarrimento e solitudine.

Il fulcro del presente lavoro costituisce la tesi di ricerca in antropologia visiva dell'autore. Si ritiene di poterla riproporre oggi come possibile strumento di pensiero, dati gli anni concitati che tutti stiamo vivendo. Anche se quanto accaduto alla nostra società negli ultimissimi tempi, non viene qui affrontato - poiché si tratterebbe di un'autonoma complessa ricerca - si intende comunque offrire utili spunti di riflessione, atti alla difesa del pluralismo delle idee, delle tradizioni, delle culture, e degli infiniti modi di vivere e morire.
LinguaItaliano
Data di uscita27 lug 2023
ISBN9791222430348
Prospettive visive della morte: Dal lamento rituale all'oblio culturale del lutto

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    Anteprima del libro

    Prospettive visive della morte - Alessio Papalia

    AVVERTENZA

    Il seguente testo costituisce la tesi di laurea in antropologia culturale dell’autore, discussa nell’apparentemente lontano duemilacinque. Nello specifico si è trattato di una tesi di ricerca in antropologia visiva, che ha affrontato il tema della morte attraverso lo studio di documentari e film che ci portano dall’antico lamento rituale fino al contemporaneo oblio del lutto.

    Si ritiene di poter riproporre oggi questa tesi, come testo divulgativo, alla luce dei fenomeni accorsi alla società negli ultimi anni.

    Nell’opera non si tiene conto di quanto sta accadendo nel nostro paese a causa dello stato di emergenza decretato dai governi a partire dal gennaio duemilaventi. Quindi non viene affrontato nessun discorso esplicito relativo alla morte e alla sua gestione nell’ultimo biennio. Questa scelta parrebbe essere in netta contraddizione con quanto affermato poco sopra, ma qui si vuole soltanto riportare ai lettori questa riflessione sulla morte e sui modi di affrontare il lutto e il cordoglio che hanno caratterizzato - e forse caratterizzano ancora - la nostra società.

    Nella presente sintesi non si esaminano gli ultimi sconvolgimenti accaduti, poiché richiederanno una cospicua, ulteriore, autonoma ricerca.

    Si ritiene però di poter proporre adesso questo studio, anche se il suo nucleo è stato redatto qualche anno fa, poiché si vuole riportare l’attenzione a ciò che costituisce il fondamento di un essere umano. Si vuole in altre parole continuare a riflettere su cosa è un uomo e su cosa è la vita. Pertanto proporre oggi questa dissertazione è sembrata operazione lecita e utile, alla luce dello snaturamento degli individui e del loro vivere sociale, reso ogni giorno più complesso e spersonalizzante.

    La vita è da sempre intrisa di morte; o meglio … la morte fa parte della vita; i nostri avi lo sapevano bene e lo accettavano. Da molti punti di vista riuscivano a condurre esistenze più gioiose e vitali, magari senza gli agi della contemporaneità, ma la loro esperienza del mondo aveva al centro l’essere umano. Questo è fondamentale ricordarlo, davanti al presente tormentato che stiamo vivendo.

    Un presente sempre più labile, che ha cancellato il passato e non sembra contemplare il futuro. Un presente dove le persone sono diventate isole frammentate alla deriva, in assenza di uno stato sociale e di ogni forma di vera, umana aggregazione.

    Tra le righe appariranno suggestioni, ricordi, testimonianze che intendono rivendicare la libertà di mantenere vivo lo spirito critico che ci caratterizza, attraverso la nostra cultura e le nostre culture, perché da sempre … il mondo è bello perché è vario e si ritiene di dover resistere, oggi più che mai, per preservare le diversità culturali, di pensiero e di scelta; per difendere ed arricchire la vita opponendosi con forza a un pensiero unico omologante e disumanizzante, che ci vuole privare – tra le altre cose – di quella dimensione spirituale e misteriosa che ci ha sempre caratterizzato.

    Pertanto il seguente lavoro vuole essere un personale contributo alla possibilità di fare un necessario passo indietro, fermarsi e riflettere su cosa siamo diventati e cosa vogliamo essere.

    Si vuole aggiungere una voce che - in nome della libertà di espressione e di pensiero – intende, in maniera semplice e fruibile da tutti, mantenere vivi il dibattito e lo spirito critico, a proposito della maniera di vivere e di morire, di affrontare il dolore, il cordoglio, il lutto; di gestire liberamente del proprio corpo.

    Sono intervenuto minimamente sul testo originario, per necessarie piccole correzioni dovute alla contingenza delle persone coinvolte, o laddove fosse doveroso un aggiustamento della narrazione.

    Luigi Di Gianni e Angela Papalia, protagonisti di due capitoli, sono deceduti nel 2019. Non mancheranno note di precisazione se necessario, anche se l’impianto delle pagine che li riguardano è stato lasciato pressoché inalterato.

    Il segno sotto il quale si propone questo spunto riflessivo, non è quello della nostalgia di un remoto passato, né quello dell’ingenuità di un mondo utopico: si ritiene necessario affermare che oggi - come sempre - i modi di vivere, pensare, agire e morire sono molteplici e diversificati, come le culture che abbiamo il diritto ( e dovere) di difendere (e risvegliare) da un opprimente appiattimento del pensiero e da una preoccupante compressione dei diritti civili.

    Troppe persone , in questi anni, hanno perso il contatto con la realtà, distratte dai media mainstream che ne hanno creato un’altra, parallela e finto-distopica che ha irretito le menti, inaridito i cuori e separato gli uomini.

    Veritas filia temporis, ma nel frattempo occorre pensare - a mio avviso - che forse non è troppo tardi per riprendere in mano le nostre vite e smettere di avere paura.

    PREMESSA

    Per mezzo dello sguardo l’uomo si difende dalla morte, ma si tratta di quello stesso sguardo che informa in maniera primaria sulle conseguenze che la morte fa subire, ad esempio, al corpo delle persone. La morte, quindi, spaventa tanto perché ne possiamo vedere gli effetti di corruzione e distruzione in tutto ciò che essa incontra. Allora gettare uno sguardo sul fenomeno della morte servendosi dei mezzi visuali - che detto in questi termini parrebbe una ripetizione o una tautologia - è sembrata operazione lecita. Utilizzando diverse tipologie di documento visivo è stato osservato il comportamento delle persone di fronte alla più grande incognita umana.

    I documentari demartiniani di Luigi Di Gianni, Cecilia Mangini e Nino Del Frà, Giuseppe Ferrara e Michele Gandin hanno fornito importanti testimonianze su aspetti appartenenti ad alcune comunità subalterne del sud Italia. Certo è difficile generalizzare e soprattutto ritenere che sia lecito farlo, ma i documenti citati possono considerarsi autorevoli esempi di forme culturali oramai pressoché scomparse.

    I comportamenti legati al lutto, mostrati in questi documentari, appartengono ad un passato del quale permangono, seppure modificate, alcune forme culturali.

    Il documentario di Demetrio Salvi ed il documento autoprodotto si sono costituiti come ponte verso la contemporaneità: La festa dei morti (documentario del 1990) e la testimonianza di Angela (documento autoprodotto nel 2005) hanno sollecitato una riflessione proiettata sui temi contemporanei della morte, ma, allo stesso tempo, testimoniano la sopravvivenza di un patrimonio vivo, di tradizioni culturali e di memorie. Demetrio Salvi mostra come, a ridosso dei giorni nostri, fossero ancora vive tradizioni dalle origini antiche; Angela rappresenta invece la condizione, non infrequente, di chi conserva - attraverso la propria persona, memoria e vita sociale - aspetti fondamentali appartenenti alla cultura orale e tradizionale di provenienza, mescolati alle omologanti consuetudini di una globalizzazione in continua espansione.

    In questo senso, tali documenti vanno a collocarsi in una posizione intermedia, tra l’arcaico tradizionale ed il contemporaneo. Gli abitanti di San Demetrio Corone, protagonisti de La festa dei morti, mantenevano vive le loro tradizioni più antiche, accanto alla vita moderna di tutti i giorni. Sarebbe interessante sapere che cosa è cambiato là, dal 1990 ad oggi. Angela, in maniera diversa, manteneva il tutto all’interno della propria persona, a livello di ricordi, di proiezioni e, forse ancora, di condizionamenti nella vita col prossimo. La formazione di un individuo, infatti, accompagna quest’ultimo per l’esistenza intera. Così è accaduto ad Angela, ma le tradizioni culturali vere e proprie sono state da lei perdute col passare del tempo e con l’adattamento ad una differente maniera di vivere, in un’altro contesto, diverso da quello di provenienza.

    Lo sguardo è stato proiettato in seguito sull’orizzonte contemporaneo europeo ed extraeuropeo. Attraverso quattro documenti filmici, si sono osservati i comportamenti di chi affronta la morte nella società odierna, con i suoi molteplici aspetti.

    La prospettiva è stata questa volta cinematografica, piuttosto che antropologico - visiva, ma, i quattro film fiction discussi, al pari dei documentari esaminati, costituiscono testi visuali rappresentativi ed autorevoli; spunti utili alla riflessione su temi contemporanei a cui l’uomo non sempre pare avvezzo.

    I diversi registi hanno costruito storie, personaggi ed azioni affatto verosimili ed aderenti a possibili e probabili realtà. Ogni spettatore continua il film nella propria mente aggiungendovi la propria esperienza e cercandovi le aderenze al proprio vissuto personale. Anche per tale ragione in questi documenti contemporanei si possono osservare plausibili maniere di morire e di affrontare un lutto.

    Abbiamo tutti comportamenti che ci accomunano, nel fronteggiare la morte così come in altri campi del nostro vivere quotidiano. L’uniformità che si fa strada nelle nostre città non ha ancora eliminato completamente le nostre origini, le nostre sopravvivenze culturali, i nostri saperi tradizionali. Pertanto per ritornare ad amare la vita, i vari personaggi delle Invasioni Barbariche, così come quelli di Film Blu , devono ricorrere ai loro sentimenti più primordiali, alla riscoperta della solidarietà.

    Ciò che manca al protagonista de La Camera Verde è la possibilità di vivere il lutto, ma dovrà comunque costruirsi la propria maniera di uscirne, trovando il gusto di condividere almeno un aspetto della propria vita con gli altri. Sempre è necessaria la presenza dell’altro, senza il quale difficilmente si potrà reagire alla morte.

    Il percorso tracciato si è avvalso quindi di documenti di diversa natura (documentari, intervista filmata, film fiction), realizzati in periodi di tempo diversi e restituenti diversi contenuti.

    Da Lamento funebre a Film Blu, da Magia lucana a Nick’s Movie, l’uomo muore e soffre la perdita del proprio simile attraverso le costanti del dolore, della paura, dell’incertezza, della sofferenza più acuta e dello sgomento davanti alla più ingestibile delle situazioni.

    La nostra società conserva alcune forme del modo di soffrire appartenenti alle culture tradizionali, ma non ne ha ereditato gli espedienti terapeutici.

    ATTORNO ALLA MORTE. UN’INTRODUZIONE

    Costruire un discorso attorno al fenomeno della morte, in qualsiasi angolo prospettico si decida di porsi, non è semplice.

    L’uomo conosce la propria finitezza e, con dolore, affronta la perdita dei propri simili.

    La morte si colloca esattamente nello snodo che tiene assieme il mondo biologico e quello antropologico, poiché rappresenta l’aspetto più umano, più culturale dell’ anthropos [1] .

    La sconvolgente realtà della morte può suscitare, in colui che si appresta a morire, un’energia tale da salvarlo o causare, in persone sane, emozioni violentissime e distruttive [2].

    Abiti neri, pianti ritualizzati, specchi, porte e finestre delle case listati a lutto, digiuni alimentari o veri e propri banchetti funebri. La persona che sopravvive alla morte altrui soffre, si autopunisce e solo quando l’ultimo rituale di un iter stabilito sarà stato assolto, allora sarà libera dal dolore e, al contempo, la persona che gli è mancata avrà raggiunto definitivamente il nuovo status di spirito, in un mondo altro.

    Le culture tradizionali, ovunque e sempre, hanno quindi creato un universo di piccoli grandi espedienti grazie ai quali l’uomo, convinto della loro efficacia, potesse superare il dolore e la morte per rientrare nella comunità sociale di appartenenza e stabilire che, nonostante tutto, la vittoria spetta sempre alla vita.

    Edgar Morin sostiene che:

    I principi antropologici come quelli biologici continuano ad agire lungo lo spazio e tempo, e le strutture arcaiche permangono sotto le strutture evolute [3].

    Ciò sembra tanto più vero se messo in relazione con le attitudini umane nei confronti della morte.

    Di fronte al tabù di quest’ultima, tra i pochi rimasti nella nostra società, s’interrogano antropologi, filosofi, psicologi e sociologi. Ogni disciplina, non sottraendosi all’incontro con le altre, si impegna costantemente nella riflessione su questo tema, apportando, di volta in volta, nuove considerazioni sulla strada intrapresa dall’uomo dedicato all’interpretazione di un evento di cui, in fondo, non si può dire molto.

    Ciò che questa dissertazione propone, è di gettare uno sguardo sulla morte e su alcune, tra le molteplici, maniere di affrontare e oltrepassare questa ed il dolore che suscita in chi rimane. Uno sguardo che quindi si affaccia, con cautela, su uno schermo proiettante documenti di diverso tipo collegati, ovviamente, dal senso della vista. Il visuale [4] coinvolge le diverse forme riproducibili del vedere e veicola diversi tipi di linguaggio.

    I soggetti della comunicazione visuale sono tre ed hanno uguale diritto di soggettività: autore, attore-informatore, spettatore sono protagonisti del processo comunicativo, nel duplice ruolo di osservatori e osservati. Per tale motivo i significati messi in gioco non sono statici, né definitivi, ma variabili al variare dei soggetti, del tempo e dello spazio. L’approccio antropologico al visuale riguarda l’uso diretto delle tecniche audiovisive da parte del ricercatore, ma anche un’analisi culturale applicata ai prodotti della comunicazione visuale.

    Film etnografici, film cinematografici ed un breve filmato autoprodotto saranno esempi di questo discorso su di una prospettiva visuale, ma non unicamente, che intende servirsi di un’ottica d’approccio antropologica non dimenticando quella cinematografica e senza escludere, all’occorrenza, stimoli e suggerimenti provenienti da altre discipline.

    I documenti più prettamente etnografici sono stati realizzati da autori italiani e questo indurrà a soffermare le riflessioni, connesse ad essi, su un’area d’interesse locale e regionale, comunque nazionale. Diversamente, i film fiction presi in esame portano la firma di registi europei ed extraeuropei ed in relazione ad essi si rifletterà su tematiche di carattere generale, legate alla morte e presenti nella nostra società contemporanea.

    Nei diversi casi si cercherà di fornire suggestioni legate agli aspetti antropologico - visivi e cinematografico - antropologici della morte e del lutto, osservando documenti di diversa cronologia e tentando, alla luce di quanto detto da insigni studiosi, il disegno di possibili traiettorie intraprese dagli uomini dei nostri giorni che si accingono ad affrontare il dolore della perdita di una persona.

    Oggigiorno il rapporto tra cinema e antropologia si sta modificando e le influenze reciproche continuano a crescere. Il cinema si sta dilatando verso una nuova totalità di temi e di tecnologie, mentre l’antropologia si apre alla riflessione sulla globalità dell’essere uomo, uscendo dallo studio circoscritto delle culture altre. Entrambi cambiano al mutare della cultura globale e s’incontrano nell’attenzione al locale delle differenti situazioni. Infine, se i film cinematografici possono considerarsi documenti di una cultura, quelli documentari riguardano una cultura, o, più spesso, una parte di essa [5]. In questa dissertazione si cercherà di osservare, attraverso l’adozione di una tale prospettiva, alcuni comportamenti umani in relazione al fenomeno della morte, alla luce dei mutamenti culturali osservati dall’antropologia e dal cinema.

    Ma come si scopre l’esistenza della morte? Quando si intuisce che prima o poi toccherà anche a noi morire? Come si può dare una definizione precisa della morte?

    Queste ed altre domande che in maniera caotica rinviano ad altre ancora, serviranno da punto di partenza per la presente riflessione e, come si può facilmente intuire, non hanno una risposta chiara e definitiva, nonostante le opinioni di autorevoli studiosi.

    La coscienza di morte può presentarsi all’individuo molto precocemente. A volte può essere percepita già dall’infanzia; più spesso si comincia ad avvertirla negli anni della pubertà. Durante l’adolescenza [6], infatti, entrerebbe in gioco la noia di vivere: il passato è una imprescindibile fonte di ricordi e rimpianti; il presente si manifesta con responsabilità spesso inaccettabili e sentimenti difficili da gestire; il futuro è una vera e propria incognita di cui non si percepisce l’orizzonte.

    Quindi l’adolescente [7] si annoia e attraverso il disagio esistenziale avverte il tempo, che non passa mai o che passa invano e senza una precisa direzione e, in tale maniera, intuisce che vi è un nesso tra il tempo, la morte e la propria identità. Individuarsi significa in qualche modo anche rapportarsi con la morte, poiché se l’adolescente non scopre chi è, pensa di non essere nessuno, ma una volta interpretatosi e compresosi potrebbe perdersi nuovamente [8]. Con il passare del tempo e crescendo, la coscienza di essere ed esistere si rafforza, nutrendosi d’esperienze e di significati personali; il tempo assume significato e direzione mentre il nostro io si salda al mondo ed alla nostra storia. Tutto funziona finché interviene la morte di una persona in cui avevamo depositato i sensi ed i valori dell’esistenza. Sopravviene l’angoscia, poiché percepiamo che quanto avevamo acquisito, spesso con non poca fatica, è incerto, instabile ed insicuro. Scopriamo di poterci perdere e non ritrovarci e soprattutto di essere mortali, poiché conteniamo già nella nostra finitezza una morte parziale, che può manifestarsi in mille modi diversi come noia, assenza di sé o follia, ma che rimanda inoltre, attraverso l’angoscia, alla morte vera. Scopriamo quindi che ciò che trasmette il senso della morte è la cultura, senza la quale avremmo ovviamente la scomparsa dei singoli individui, ma non il lutto per le loro morti. Ed è dal punto di vista della cultura, o delle culture, che la morte diventa una grande incognita difficile da valutare, poiché se razionalmente sappiamo che dopo di essa non vi è più vita per la nostra persona, empiricamente preferiamo lasciare aperto ogni tipo di interrogativo relativo al dopo morte.

    Curiosamente, afferma Enzo Melandri [9] la gente si chiede dove saremo dopo morti, piuttosto che dove eravamo prima di nascere. L’eternità non ha un solo senso, ma due: o, meglio ancora, nessuno. Per tale motivo rimuovere la morte equivale a concepire un impossibile sogno di non nascita [10].

    La morte appare anche come separazione [11]all’interno della persona: non sappiamo se la voce, il sorriso, lo sguardo, il modo di camminare e di ridere facevano parte del corpo o dello spirito. Molti credono alla permanenza di quest’ultimo, o dell’anima, che dall’aldilà aiuterebbe i sopravvissuti, ma dimenticano probabilmente che per questo dovrebbe restare pienamente cosciente.

    Della morte si possono considerare almeno tre tipologie di definizione: biologica, filosofica e psicologica. I tre livelli si intrecciano inevitabilmente in ogni discorso sulla morte e incidono in egual misura sull’unità fisica e psicologica dell’individuo, che diventerà cadavere, che ha una propria concezione dell’esistenza e che percepisce la morte in maniera esclusiva e soggettiva.

    Sorvolando sulle definizioni medico legali della morte, che fanno coincidere la fine della vita con la cessazione dell’attività cerebrale, o cardiaca, o respiratoria, volgiamo lo sguardo ad alcune concezioni di importanti pensatori.

    Ad esempio per Epicuro [12] la morte non è nulla, poiché quando esistiamo essa non c’è, e quando questa giunge noi non ci siamo.

    La morte così non riguarderebbe né i vivi, né i morti. Per Epicuro, l’uomo dovrebbe quindi preoccuparsi di soddisfare le necessità del corpo e dell’anima, anziché pensare alla morte, poiché da morti non sentiremo nulla.

    Thomas Macho ricorda

    Contro l’argomentazione epicurea

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