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Pandemia - Il mondo sta cambiando
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E-book145 pagine1 ora

Pandemia - Il mondo sta cambiando

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Info su questo ebook

L'Italia diventa il laboratorio di prova della pandemia mondiale, scivolando nell'ora più buia della sua storia repubblicana: si vive confinati in casa, le strade e le piazze rimangono vuote. Il contagio continua a propagarsi in tutta Europa, sfiorando il collasso sanitario nelle regioni più colpite. Come si è diffuso il virus? Quale è stata la sua origine? Diffidiamo sempre di coloro che hanno soluzioni facili e risposte per tutto. Riponiamo la nostra fiducia nella ricerca scientifica e nelle ricostruzioni attendibili. Il nostro spirito critico deve, tuttavia, essere libero di spaziare e di considerare tutti gli interessi in gioco, sforzandoci di comprendere quali siano i “segni dei tempi”, proprio per assicurare alle nuove generazioni un futuro migliore.
LinguaItaliano
EditoreCavinato
Data di uscita20 mar 2020
ISBN9788869827792
Pandemia - Il mondo sta cambiando

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    Anteprima del libro

    Pandemia - Il mondo sta cambiando - Luigi Angelino

    (AL)

    Prefazione

    PER UNA RICOSTITUZIONE ITALIANA

    di Rodrigo Boggero

    I fenomeni naturali.

    Quale silenzio li avvolge. Ci ammutoliscono.

    E quando tentiamo dirli, è poi di noi stessi che finiamo col parlare.

    L’inondazione è indicibile, puro sgomento. L’argine ci resta. Che ceda o che resista. E i soccorsi, anche, sappiamo: tardivi o tempestivi. E i rimedi, efficaci o inefficaci. Tutto e solo un parlare di noi stessi, un ritagliare al naturale un campo nostro, umano, in cui tentare d’ordire un senso, uno spazio di dicibilità. Perfino le spiegazioni, soddisfacenti o insoddisfacenti, esistono in funzione di questa tessitura del senso, funzionalmente al nostro poter essere qualcosa di diverso, poi, in sostanza, dal fenomeno naturale.

    La civiltà ci difende. Esiste per questo, forse: per difenderci da un processo cieco e senza scopo che trascina con sé ogni cosa; vivente o meno ch’essa sia.

    E adesso? Ci sta difendendo? Se sì, a quale prezzo?

    Perché questa calamità – questa epidemia, questa pandemia – e la sola risposta che abbiamo, per ora, da contrapporle hanno qualcosa di particolare, di contradditorio. Per salvare la civiltà, pare la si debba sospendere! Il virus sembra sfruttare a suo vantaggio precisamente ciò su cui poggia qualunque sistema sociale: la socialità. Così che si rivela ai nostri occhi come il perfetto equivalente biologico di quegli altri enzimi sociali che ben conosciamo: le idee e le ideologie. E non so dire quale dei due generi di contagio sia poi più pericoloso o abbia fatto più morti nella storia.

    Ma la storia non si ripete mai uguale a sé stessa. Così, nel nostro tempo – si può dire per la prima volta – la socialità esula in parte (e ormai in una sua non piccola parte) dalla presenza e dal contatto fisici. In questi giorni del mese di marzo 2020, in Italia… in questa Italia semi-paralizzata, Italia da confino, da quarantena… in quest’Italia segregata e contingentata, ridotta al minimo metabolico e quasi in animazione sospesa, la socialità ha tutt’altro che smesso di esserci e di esercitarsi. Il web, perlopiù, ne è stato il supporto. (Tanto per i rapporti umani che, in molti casi, anche per quelli lavorativi, con l’introduzione forzata del tanto a lungo bistrattato smart-working).

    Benvenuti nel futuro, dunque! Eccolo qua, il mondo virtuale, l’universo digitale dagli atomi d’uni e zeri. Perfino quel residuo di fisicità imposto dalla necessità di rifornirsi di cibo e medicinali potrebbe essere ovviato, in caso di pandemia permanente, con appositi sistemi di circolazione asettica e ‘anti-epidermica’ delle merci. Perché no? Ché c’è questo di mostruoso in quello che stiamo vivendo: l’uomo sta dimostrando che la civiltà tecnologica, post-industriale e digitale che ha creato può fare a meno di quello che sembrava essere il fondamento di qualsivoglia civiltà: l’aggregarsi, lo stare insieme.

    Si dirà: non è lo stare insieme ad essere stato abolito, ma solo lo stare fisicamente insieme; esistono nuove forme dello stare insieme, che fanno a meno della presenza fisica. Anche questa, si dirà, è socialità.

    Già. Anche questa lo è, senza dubbio. E, dopo essere stata osannata e mitizzata come nostro fulgido futuro, da qualcuno perfino come evoluzione della socialità, finalmente ci si rivela – e platealmente – per quello che è: mero palliativo, surrogato squisitamente pratico, funzionale, inconsistente fantasma di una realtà sociale irriducibile a un (tutto sommato autoreferenziale) comuni-care.

    Non c’era bisogno di veder moltiplicarsi i flash mob dai balconi di tutto il Paese per accorgersene. Stanno ad attestarlo ancor prima e ancor più semplicemente il brivido che ci ha colti nel vedere decine di luci oscillanti di là della strada, alle finestre; l’emozione nell’udire voci, musica e canti d’ogni genere dal palazzo di fronte o, inaspettatamente, appena da sopra il nostro balcone. Come anche – all’opposto – lo attestano l’imbarazzo che ci ha colto all’atto di evitare il passante che ci si fa incontro sul marciapiede; e lo shock, un istante dopo, nel vederlo compiere la stessa incerta, circospetta parabola.

    Quanto vale di più, oggi, un buongiorno, una stretta di mano? Perché non lo aveva già prima? Quand’è che l’hanno perduto?

    Forze dell’ordine ci chiedono dove stiamo andando e perché. L’analisi delle celle telefoniche mostra troppi, ancora troppi spostamenti. A centinaia, a migliaia muoiono nella solitudine dei reparti di terapia intensiva. Chi non ha una casa, si trova in un deserto, senza risorse e senza quasi più possibilità di chiederne; deserto di ordine e cemento. Guanti e mascherine ci uniformano. Quanto è vuoto un volto privato della sua fisionomia! Ce l’ha l’autocertificazione? Campi magnetici di paura mantengono i corpi a debita distanza. Le file fuori dei supermercati sono in bianco e nero e senza tempo. Ogni esistenza s’è fatta esistenziale.

    E questo non dovrebbe forse farci scrosciare in una sonora risata?! Ma non siamo abbastanza amletici per farlo, direbbe un Laforgue. Lo fossimo, avremmo il coraggio di ridere così come siamo: da soli. Ma non l’abbiamo. Ci serve sempre qualcuno o qualcosa fuori di noi per ridere, per rinunciare a noi stessi quel tanto che basta a vedere la pantomima in tutta la sua esilaranza anche tragica. E il surrogato digitale alla nostra socialità non è che cenere nelle nostre mani: non si fa stringere. Questa nuova frontiera del sociale, scopriamo, era interna al nostro territorio: circoscrive una regione talmente primitiva che, nella storia, se n’era persa la memoria. Nelle caverne, probabilmente, o ancor prima, costretti nelle gerarchie del branco: solo lì, forse, si è cercata socialità rimanendo tanto chiusi in sé stessi, limitandoci a segnali lanciati a distanza, nell’etere. E non è sciocca quella vignetta che, come ultimo anello della catena evolutiva, ha pensato sarcasticamente di raffigurare l’homo informaticus; non più eretto, ma chino sul suo apparecchio.

    Non so quante migliaia di anni ci vollero a uscirne, da quella regione, ma certo esserci tornati, carichi del bagaglio cumulato, ne ha messo in luce potenzialità inattese e dev’essere sembrato davvero nuovo ai nostri occhi ammaliati. Perfino quando vedevamo intorno a noi i rapporti più consolidati messi in crisi magari da un messaggio o un post fuori luogo o da un’emoticon frainteso. La rudimentalità del mezzo passava inosservata, dissimulata dietro la patina ai cristalli liquidi che l’ammantava di avvenire. Ed è certo un valido rifugio, protetti come siamo dietro uno schermo. Nonché uno strumento eccellente, quest’amplificazione prodigiosa della quantità di comunicazione. Così che, per tutto ciò che ha a che fare con la quantità (dunque, soprattutto in ambito lavorativo), è davvero un toccasana, un potenziamento imprescindibile. Ma per tutto ciò che trova il suo maggior senso nella qualità (e l’amicizia dovrebbe essere uno di questi ambiti), l’impoverimento che ne deriva è plateale e rimarchevole.

    Da questo punto di vista, quello della qualità, l’invenzione della piazza non trova paragoni in alcuna invenzione puramente tecnica. Nemmeno la ruota (e men che meno l’I-phone) può competere con la portata culturale e sociale di uno strumento architettonico, urbanistico e spirituale come la piazza. Dall’agorà greco al foro romano, per arrivare, nel medioevo, col riconoscimento dei Comuni, alla piazza civica del Palazzo municipale, a quella sacralizzata in fronte la Chiesa o la Cattedrale, a quella del mercato. E se fu nell’area mediterranea, per ragioni evidentemente climatiche, che ebbe maggiore sviluppo, è in Italia, nel Rinascimento, che la piazza assurse senz’altro a emblema e scenografia di una nuova dimensione dell’uomo.

    L’Italia questa dimensione l’ha donata al mondo. Come non guardare con orrore le piazze deserte di questi giorni? Le sue piazze. Le piazze che, come uteri, hanno portato in gestazione l’umanesimo e molte tra le più alte espressioni artistiche di ogni tempo. Il brulicare dei discorsi e dei comizi di Piazza Maggiore, a Bologna; la celebrazione simultanea di conflitto e identità nella valva parabolica di Piazza del Campo, a Siena; la vita irrefrenabile dei vicoli di Napoli; l’inno alla vita dei mercati di Palermo; il confluire delle genti da ogni angolo del mondo in Piazza San Pietro, a Roma; il Carnevale invero perenne di Piazza San Marco, a Venezia. Gli spazi, le piazze

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