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Sentire le immagini. percezioni della realtà nelle esperienze dei non vedenti
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E-book208 pagine3 ore

Sentire le immagini. percezioni della realtà nelle esperienze dei non vedenti

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Info su questo ebook

Mai come oggi le immagini hanno ricoperto un ruolo così centrale nella vita delle persone.
Esse sono presenti in ogni ambiente e in ogni situazione e sono di ogni tipo: artistiche, pubblicitarie, informative, analogiche e digitali, pubbliche e private.
Si muovono sugli schermi televisivi e sui display dei computer, degli smartphone, dei tablet, si afferrano con due dita, si spostano, si ingrandiscono, si eliminano quando non sono più gradite.
Delle immagini non si può fare a meno e, d’altra parte, noi stessi abbiamo un’immagine, unica, diversa per ciascuno di noi, e viaggiamo in un universo fatto di immagini, dipinte dalla natura o create dalla mano dell’uomo.
Come può una persona non vedente avere un approccio significativo con una qualsiasi immagine, dato che non ha la possibilità di vederla?
Questo è l’interrogativo e le risposte vanno ricercate in più ambiti, da quello della vita intima, privata, a quello dei rapporti con gli altri, dall’ambito artistico a quello tecnologico.
In primo luogo un’educazione adeguata, attenta alle problematiche legate alla disabilità visiva, in secondo luogo un ambiente favorevole, accogliente, facilitante, sono le condizioni necessarie affinché un non vedente possa godere di tutti i vantaggi sia pratici che culturali che può offrire il mondo contemporaneo.
La scoperta è che il non vedente vede molte più cose di quanto un vedente possa credere o immaginare, e non si tratta di una sorta di miracolo, ma solo di un modo diverso di accostarsi alla realtà e di comprenderla, usando appieno, con attenzione e consapevolezza, i sensi che ha a disposizione.
LinguaItaliano
Data di uscita20 giu 2013
ISBN9788868550813
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    Anteprima del libro

    Sentire le immagini. percezioni della realtà nelle esperienze dei non vedenti - Grazia Morra

    Seconda di copertina

    Il testo 

    Sentire le immagini. Il non vedente vede molte più cose di quanto non si creda. Sogna, va al cinema, visita musei. Come fa? La ricetta è molto semplice e vale per tutti, anche e soprattutto per i vedenti. Semplicemente, investe sul carattere globale e multisensoriale della percezione visiva: vede tramite altri sensi, vede tramite altri individui, vede tramite le molte protesi che gli garantisce l’attuale tecnologia digitale e di rete. Insomma, l’abilità che gli è negata se la riconquista sul terreno più ampio della corporeità e della socialità: è così che diventa diversamente abile. Delicatamente, Grazia Morra ci conduce in questo affascinante percorso.

    L’autore

    Grazia Morra. Nata a Napoli nel 1961, insegno nella scuola primaria dal 1988. Laureata in Scienze dell’Educazione degli adulti e della Formazione continua, sono specializzata per l’insegnamento ai bambini diversamente abili. Ho sempre amato scrivere, soprattutto filastrocche e poesie per i più piccoli, e ho sempre sognato di poter un giorno pubblicare un mio lavoro. Per chi volesse scrivermi, il mio indirizzo email è gra.morra16@gmail.com

    La collana

    #graffi è la sigla che contraddistingue una serie di prodotti digitali per la formazione, pensati e realizzati dal gruppo di ricercatori e docenti che fa capo al Laboratorio di Tecnologie Audiovisive (Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma Tre). Perché #graffi? Perché i graffi lasciano dei segni. Noi che ci occupiamo di comunicazione e formazione, in particolare delle divergenze e delle convergenze tra tecnologie digitali e non digitali, intendiamo, con questi nostri prodotti, far agire e far pensare. Lanciando e lasciando, appunto, dei segni. Che, a volte, fanno male.

    Presentazione

    di Roberto MaraglianoSe c’è qualcuno che pensa (e certo c’è, se non altri io stesso, per ciò che ho creduto fino a qualche tempo fa) che nella dizione diversamente abile ci sia un po’ di ipocrisia, bene: quel qualcuno deve leggere (o ascoltare) il libro di Grazia Morra. Si renderà conto, allora, del fatto che certe domande apparentemente assurde e senza risposta, non lo sono per niente, in quanto di risposte ne trovano, e pure in abbondanza, e pure convincenti. Domande che ruotano attorno ad un unico interrogativo: cosa vede un non vedente? E che vanno in molte e insospettabili direzioni: chi non vede possiede comunque delle immagini interne, e se sì di che cosa queste sono fatte? sogna e cosa e come vede nel sogno? com’è che gli capita di andare al cinema e vedere un film? cosa gli è dato di percepire, di un quadro esposto in un museo? Sono interrogativi importanti, lo diventano ancora di più man mano che, pagina dopo pagina, trovano risposte. Importanti non solo perché è doveroso, eticamente e politicamente, mettersi nelle condizioni di chi incontra ostacoli nel suo rapporto con la realtà, ma anche perché dalla sua condizione e dal prendervi parte possiamo imparare qualcosa di prezioso, e di valido in assoluto: utile, insomma, a noi tutti, non solo a chi soffre di questa o quella limitazione. Il non vedente vede, di questo dobbiamo convincerci. Vede in un modo globale, facendo ricorso a tutte le risorse fisiche e relazionali di cui l’uomo, se davvero intende essere tale, può dotarsi. Vede dunque per interposta persona, vede dunque tramite il concorso degli altri sensi. Questo è il succo del discorso proposto da Grazia Morra e qui sta il suo significato generale, valido per tutti: il vedere non è soltanto pratica degli occhi, è materia di tutto il nostro corpo, di quello fisico come di quello sociale. Insomma, siamo tutti diversamente abili. Capirlo farà cadere tante barriere, tra di noi e dentro di noi. 

    Introduzione

    Negli anni Ottanta ho scelto di specializzarmi nell’insegnamento dei bambini non vedenti, di addentrarmi in un mondo di cui non avevo alcuna esperienza e che per questo mi sembrava diverso e impensabile. Sono entrata nell’universo dei ciechi frequentando l’Istituto Statale Augusto Romagnoli di Roma e l’Istituto Sant’Alessio, presso il quale ho fatto il mio tirocinio. È stata un’esperienza ricca, formativa, utile per crescere culturalmente e umanamente. In particolare sono rimasta legata al ricordo del prof. Mario Mazzeo, non vedente assoluto dall’età di circa trentacinque anni (prima di quell’epoca conservava un minimo residuo visivo ad un occhio), purtroppo scomparso precocemente, che è stato capace di farci riflettere su alcuni aspetti della vita di un non vedente che vanno molto al di là dei luoghi comuni, come ad esempio i ciechi sono particolarmente portati per la musica oppure "i ciechi sono buoni e pazienti. 

    Mario Mazzeo sfatava i miti che per anni avevano accompagnato la figura del cieco e ce lo presentava esattamente per quello che era: un essere umano come gli altri, con un problema in più, quello di dover stare attento a non sbattere contro gli stipiti delle porte. 

    Un tema a lui caro era quello dei sogni: spesso ci raccontava dei suoi, ancora ricchi di immagini visive e di colori che conservava dalla sua precedente vita di vedente, e ci riferiva di come spesso al mattino fosse arrabbiato col mondo perché al risveglio tutto sfumava e si ritrovava nella sua condizione di cieco assoluto. Questo ci veniva raccontato con autoironia, non prendendosi troppo sul serio, com’era nel suo stile.

    Le sue lezioni di pragmatica della comunicazione umana poi erano illuminanti; attraverso simulazioni delle più svariate situazioni di interazione, ci portava a riflettere su quanto, nei rapporti con gli altri, potesse essere compreso semplicemente ponendosi da un punto di vista diverso dal proprio o, meglio ancora, adottando atteggiamenti di empatia.

    Dopo circa venticinque anni di insegnamento nella scuola primaria, di cui otto dedicati agli alunni diversamente abili, con problemi di natura psicofisica o sensoriale, ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire come, soprattutto nel mondo contemporaneo, così centrato su tutto ciò che è visivo, cinema, televisione, cartelloni pubblicitari con immagini fisse o in movimento, computer, internet, cellulari, i ragazzi non vedenti nativi digitali riuscissero a fruire appunto delle immagini, trasponendole in sensazioni non visive. 

    L’argomento è vasto, non facile da svolgere. I punti di vista sono molteplici, coinvolgono l’immagine di sé e dell’altro, l’immagine onirica, l’immagine artistica, quella pubblicitaria, quella informativa, quella analogica e quella digitale, insomma un universo variegato, dalle molteplici sfaccettature; per non parlare degli aspetti filosofico, sociologico, psicologico che stanno alla base di tutto. 

    All’interno del testo parole calde consentono di affacciarsi nella rete per approfondire alcuni degli argomenti trattati o per ascoltare brani musicali che accompagnano la visione e la descrizione delle immagini. 

    Ho cercato di fare del mio meglio, servendomi non solo di letture specifiche sull’argomento, ma anche (e forse soprattutto) dell’esperienza di persone che da anni studiano le problematiche concernenti le persone prive della vista, e delle storie di vita di chi si è reso disponibile a raccontarmi di sé, facilitando il mio lavoro.

    Premessa: Immagini e non vedenti Il mondo c’è anche se non lo vedo

    "[…] grazie alla sua plasticità la mano sopperisce alla sprovvedutezza del proprio corpo modificando ciò che la circonda, 

    costruendo utensili, producendo figure. 

    È perché siamo nudi che, con le mani, ci copriamo di immagini" 

    (Marco Mazzeo, 2003, p. 180) 

    Forse è fin troppo banale affermare che oggi viviamo nel mondo delle immagini. Banalmente riteniamo che le immagini abbiano invaso la nostra esistenza con internet e la tecnologia digitale. Il nostro egocentrismo di uomini della post-modernità ci induce a credere che le immagini siano principalmente, se non esclusivamente, quelle che scorrono in internet, quelle che riproduciamo con le nostre macchine fotografiche digitali, quelle che afferriamo e spostiamo con le dita sui touch screen dei vari telefoni cellulari, iPhone, iPod, iPad, e quant’altro. 

    Ma negli anni Cinquanta, quando la televisione entrò nelle case, già allora si iniziava a pensare che le immagini stessero invadendo la vita delle persone, e ancora prima quando il cinema mosse le sue prime pellicole, per dirla in modo originale, e quando i dagherrotipi cominciarono a sostituire i ritratti. Ogni cambiamento, ogni piccola (o grande) avanzata della tecnologia, dapprima crea una sorta di destabilizzazione, fa addirittura gridare allo scandalo, poi entra a far parte del DNA della società civile, e fatalmente ci si dimentica che prima non c’era e non se ne può più fare a meno. Per fortuna. Altrimenti nemmeno la stampa avrebbe preso piede. 

    Tuttavia l’arte aveva già fatto suo l’universo delle immagini: dipinti, affreschi, sculture, bassorilievi, riproducevano il mondo, rappresentavano la realtà di ogni epoca eternizzandola sui muri dei palazzi e delle chiese, sulle tele, nelle piazze, ovunque. L’esigenza dell’uomo di esprimersi attraverso l’arte è datata appena qualche minuto dopo la sua comparsa sulla terra, e i graffiti sulla roccia lo testimoniano. 

    Allora perché oggi pensiamo di essere stati noi a scoprire le immagini? Perché spesso le demonizziamo come se fossero un attentato alla nostra vita intelligente? Perché le identifichiamo con delle specie di mostri che ci mangeranno tutta la carta stampata, lasciandoci inermi alla mercé dei nostri schermi luminosi?

    Forse perché abbiamo dimenticato la loro origine, abbiamo perso di vista da dove vengono e abbiamo paura di dove ci porteranno (non tutti, ben inteso, ma nemmeno pochi). 

    Allora credo che bisognerebbe ricominciare a riflettere sulla vera essenza dell’immagine, su cosa è, e su cosa rappresenta. Bisogna cominciare dal principio, dall’immagine di sé e dell’altro. Io sono un’immagine, io con il mio viso e con il mio corpo, con la mia mimica, con le mie espressioni, con la mia gestualità; e l’altro è un’immagine, diversa da me ma che nello stesso tempo mi riflette, perché è viso e corpo, esattamente come me. E poi c’è l’immagine della terra, proprio della terra intesa come natura, alberi, montagne, fiumi, laghi, mari, paesaggi in lontananza. E ancora, c’è l’immagine della terra colonizzata dall’uomo, che a volte è capace di armonizzarsi con essa, di mettere le mani per fare ordine, per ricamare campi, terrazze sulle colline, tetti, campanili, vera arte nell’arte della natura. E le città, alcune magnifiche, altre vere brutture, strade, piazze, palazzi, monumenti, ponti, grigiore, colori, disordine. 

    Abbiamo sempre vissuto dentro le immagini, siamo noi stessi immagine. Solo che ora ce le portiamo in tasca: in un primo tempo erano ferme, istantanee dei nostri figli, cartoline come segnalibri, oggi si muovono ad un nostro comando, si spostano, ci sorridono, ci chiamano, ci impegnano, non ci permettono di trascurarle. A volte, è vero, ci distraggono da quelle reali, da quelle in cui siamo immersi senza rendercene conto, ma quelle sono più pazienti, non ci chiedono attenzione, ci avvolgono, ci contengono, esistono con noi, prima o poi avremo occhi e orecchie anche per loro, e magari le cattureremo e ce le porteremo in tasca, e diventeranno anch’esse esigenti. 

    Occhi e orecchie, ripartiamo da qui, da come godiamo o patiamo al cospetto delle immagini. Abbiamo occhi, prima di tutto. Non possiamo immaginare un altro modo di fruire delle immagini se non attraverso la vista che, immediatamente, ce le porge; solo in seconda battuta facciamo caso al fatto che spesso esse hanno un sonoro di cui fruire, non tutte certo, non le foto o i dipinti o i cartelloni pubblicitari, ma le immagini televisive, cinematografiche, di rete, quelle sì. 

    E le immagini del mondo? Se ci riflettiamo esse sono visive ma anche inevitabilmente sonore. Uno stormo di uccelli che passa sulla nostra testa è accompagnato da un assordante frullo d’ali, un’automobile che sfreccia porta con sé il rombo del motore, una cascata il suo scroscio d’acqua, i bambini che escono da scuola sono una macchia colorata e frastornante. Tuttavia non prestiamo molta attenzione al sonoro, lo diamo per scontato, raggiunge le nostre orecchie e quasi non ce ne accorgiamo. Ma se proviamo a chiudere gli occhi, allora diventa prepotente: se sentiamo un frullo d’ali immaginiamo lo stormo di uccelli, se sentiamo un motore immaginiamo l’automobile che sfreccia. E così via. L’abbaiare di un cane ci rimanda l’immagine del cane, il suono di una chitarra l’immagine dello strumento. Le immagini sono dentro di noi e possiamo evocarle sentendole, o annusandole, o toccandole. Abbiamo cinque sensi, ma viviamo principalmente di uno, la vista, il più immediato, il più comodo, il più presente dei sensi. 

    E se non vedessimo? Se fossimo ciechi? Allora gli altri sensi interverrebbero a farci conoscere il mondo, con tutte le sue immagini. Cos’è l’immagine per un non vedente? Come può un individuo privo della vista conoscere l’universo nella sua pienezza e varietà, nelle sue forme e nei suoi colori? 

    Prima di tutto è una questione di educazione: il bambino non vedente viene educato a conoscere il mondo, muovendosi in esso, toccando tutto ciò che è possibile toccare, ascoltando tutto ciò che è possibile ascoltare, annusando e/o gustando tutto ciò che si può annusare e/o gustare.

     La vita sociale rivela un fondo sonoro incessante (Le Breton, 2007, p. 22) e questo può essere un vantaggio per un non vedente, a condizione che tale fondo non sia confuso o assordante, poiché ciò comprometterebbe la comprensione del contesto e genererebbe disorientamento. 

    La moltiplicazione olfattiva ricopre il nostro universo sensoriale senza che se ne abbia coscienza. L’effetto degli odori si attenua rapidamente […] Per sentire gli odori della vita quotidiana […] c’è bisogno infatti del contrasto, della differenza. Basta qualche minuto perché l’uomo si adatti velocemente a un ambiente olfattivo. […] Il cieco dalla nascita è portato anche lui a sviluppare, oltre l’udito e il tatto, un olfatto ipersensibile per identificare i propri interlocutori […] Helen Keller, avendo solo due sensi a sua disposizione, il tatto e l’olfatto, riesce a riconoscere i suoi visitatori dal loro odore personale. Lei sviluppa, a questo proposito, perfino una caratterologia che si fonda unicamente sulle informazioni olfattive (pp. 126-127). Qui si sottolinea quanto sia importante l’olfatto nella costruzione delle esperienze e nella conoscenza dell’ambiente e degli altri per un non vedente. 

    Il tiflologo Pierre Henri, nella sua opera Les aveugles et la société del 1958, rileva l’importanza, per il non vedente, del touche-à-tout, espressione che in lingua francese individua le persone e, in particolare, i bambini, i quali per conoscere la realtà devono toccare tutto, comprese le altre persone. E, in effetti, la scoperta dell’altro non si limita certo all’odorato o all’udito, l’altro si identifica attraverso il suo personale odore, il timbro della sua voce, ma anche per le fattezze fisiche e, soprattutto, per i tratti del viso, che un non vedente può conoscere solo attraverso il tatto.

    Il Prof. Mario Mazzeo, la cui opera è consultabile sul sito a lui dedicato fa riferimento ad un insieme di sensazioni, compresa quella riconducibile alla vista, che chiama esperienza del bello multimediale. Egli descrive il parco dell’Istituto Romagnoli la prima volta che vi mette piede, nel 1965, (quando la sua vista era già quasi del tutto compromessa) come un ambiente armonico, curato, pieno di piante e fiori colorati; quasi gli sembrano inopportuni tutta quell’eleganza e quel tripudio di colori e forme, in un luogo dedicato a bambini e adulti non vedenti, dunque condannati a non fruire di tanta bellezza. Un luogo tutto da vedere, afferma, ma poi osservando i bambini giocare nel parco, con disinvoltura e con garbo, si rende conto che la bellezza del giardino non è solamente da vedere, ma da vivere sfruttando l’intero patrimonio sensoriale, percettivo e motorio dei piccoli non vedenti. Per questo la definisce un’opera d’arte multimediale:

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