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I Guardiani di Roma. La saga della Legione occulta
I Guardiani di Roma. La saga della Legione occulta
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E-book483 pagine6 ore

I Guardiani di Roma. La saga della Legione occulta

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Info su questo ebook

I nomi dei più coraggiosi riecheggiano nella storia dell’impero

Un patto per la vita. È quello che stringono tre ragazzi in una bettola di Apollonia, dove Giulio Cesare li ha spediti per studiare la diplomazia e la guerra: vuole fare di loro dei valenti generali o degli abili politici. Obnubilati dal vino e dalla musica, Gaio Ottavio Turino, Gaio Cilnio Mecenate e Marco Vipsanio Agrippa si giurano fedeltà, senza sapere che il destino sta viaggiando per mare con la notizia dell’assassinio del loro mentore. La strada che porterà i tre amici alla gloria sarà costellata di ostacoli, eserciti, traditori e sicari. Cesare lo aveva previsto e, ancor prima che l’astrologo Teogene scorgesse la scintilla dell’imperium negli occhi di Ottavio, aveva incaricato il suo soldato più fedele di vegliare a qualunque costo sulla vita dell’erede designato: un prefetto muto, in grado di ascoltare le voci dei suoi simili e di raccoglierli attorno al vessillo della legione più temuta di tutto l’esercito romano. I soldati della Legio Occulta diventeranno il braccio armato di Augusto e saranno l’arma più letale contro cui i nemici dell’Urbe si siano mai confrontati. La leggenda li ricorderà per sempre come i Guardiani di Roma.

Un’affascinante saga storica
La Legione Occulta è tornata

Hanno scritto dei suoi libri:

«Roberto Genovesi è un maestro.»
Andrea Frediani

«Un avvincente romanzo storico.»
Il Sole 24 ore

«Genovesi ha tutte le carte in regola per soddisfare chi ha bisogno della dose quotidiana di adrenalina.»
Panorama

«Un romanzo assai originale, ad ampio respiro, pieno di personaggi, ricco di descrizioni e di invenzioni narrative.»
Il Giornale
Roberto Genovesi
È giornalista, scrittore, sceneggiatore e autore televisivo. Ha collaborato con i più importanti periodici e quotidiani italiani tra cui «L’Espresso», «Panorama», «TV Sorrisi e Canzoni», «la Repubblica». Insegna Teoria e Tecnica dei linguaggi interattivi e crossmediali in diverse università. Con la Newton Compton, oltre ai primi cinque volumi della saga della Legione occulta (La legione occulta dell’impero romano; Il comandante della Legione occulta; Il ritorno della Legione occulta. Il re dei Giudei, I due imperatori e I guardiani di Roma), ha pubblicato La mano sinistra di Satana; Il Templare nero e la trilogia La legione maledetta (Il generale dei dannati, La fortezza dei dannati e L’invasione dei dannati). I suoi romanzi sono pubblicati anche in Spagna, Portogallo e Inghilterra.
LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2020
ISBN9788822744104
I Guardiani di Roma. La saga della Legione occulta

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    Anteprima del libro

    I Guardiani di Roma. La saga della Legione occulta - Roberto Genovesi

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    Indice

    Atto primo. Il figlio di Victor Iorus

    Atto secondo. Il figlio della profezia

    Atto terzo. Il figlio di Cesare

    Atto quarto. La battaglia per Roma

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    2793

    La saga La Legione occulta dell’impero romano comprende:

    La Legione occulta dell’impero romano

    Il comandante della Legione occulta

    Il ritorno della Legione occulta. Il re dei giudei

    I due imperatori

    I Guardiani di Roma


    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Prima edizione ebook: novembre 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4410-4

    www.newtoncompton.com

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Roberto Genovesi

    I Guardiani di Roma

    La saga della Legione occulta

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    We were born under blood built skies

    Black and blue in the wraith of the night.

    Fear gets forced in our tired eyes

    Spoon fed war machine

    And you walk in this alone

    Flying Colors

    ATTO PRIMO

    Il Figlio di Victor Iorus

    CALAGURRIS IULIA NASICA

    Hispania Tarraconensis,

    Confine con le terre dei Cantabri, 50 a.C.

    Calagurris Iulia Nasica ansimava sfinita dalla calura. Le alte mura fortificate del presidio settentrionale delle truppe cesariane nella Spagna occupata trasudavano nebbia arsa che stentava ad arrampicarsi sui grossi mattoni di tufo provati dalla resistenza della malta. Il campus arroccato sulle colline orientali in vista delle torri di guardia era un catino infernale. Il sole a picco del mezzodì ringhiava sulle sagome di addestramento che ne segnavano il perimetro. Il legno in cui erano state intagliate in forma umana avrebbe potuto prendere fuoco in qualunque momento se ogni tanto qualche piccola nube votata al martirio non si fosse frapposta tra gli strali di Giove e i suoi trastulli terreni. Si poteva vedere la sabbia vomitare calore che saliva lentamente per formare il sudore della terra, umido, appiccicoso. Si attaccava alla pelle dei tirones che continuavano a correre piegati dal peso aggiuntivo di oltre cinquanta libbre a cui erano stati obbligati dagli istruttori. Saltavano ostacoli, affrontavano pozzanghere di fango sempre più rarefatto, inciampavano, cadevano ma si rialzavano quasi subito. Perché perfino esalare l’ultimo respiro in quella latrina a cielo aperto era una fine migliore di quella che avrebbe potuto concedere loro la sentenza di Caretzio Vullo.

    «Avanti, branco di idioti!», urlò per l’ennesima volta il centurione. «Sembrate una mandria di buoi che si muovono con un palo nel culo!». Nonostante l’afa opprimente, l’inseparabile lorica muscolare di cuoio lucida di grasso spiccava tra i subarmalis con i quali gli altri istruttori giravano per l’arena. Lo sapeva benissimo, e le occhiatacce che incrociava ogni tanto glielo ricordavano continuamente, che c’era una ampia e attrezzata palaestra in cui era possibile addestrare anche una intera coorte disposta in assetto di battaglia. Ma lasciava volentieri l’ombra e il ristoro agli istruttori delle femminucce. Voleva che i suoi allievi assaggiassero subito ciò che li aspettava al di fuori delle mura di quella fortezza di confine.

    Vullo si piazzò al centro del campus di addestramento e portò il pugno sinistro al fianco mentre il moncherino della mano destra frustava l’aria inferocito. Con ciò che restava del polso sollevò a un tratto la benda che gli copriva l’occhio offeso e una piaga rossa, gonfia e purulenta come una mora andata a male cominciò a danzare nell’orbita dai contorni ammaccati. «Perfino gli spadones saprebbero fare meglio di voi!».

    Le reclute continuarono a correre senza badare alle sue parole ma il centurione sapeva che ogni movimento delle sue labbra aveva per ognuno di loro lo stesso effetto della punta di uno stilo arroventato tra le costole. Era considerato il migliore addestratore di reclute dell’esercito romano ma non gli importava che lo ammettessero gli alti ranghi, per i quali nutriva la stessa stima che avrebbe potuto avere per gli scarafaggi delle fogne. Ciò che contava davvero era il giudizio dei suoi commilitoni, dall’ultimo degli immunes al primo degli optiones. Non si poteva trovare nemmeno un soldato che, perfino per il gusto di mentire, affermasse diversamente. Per questo, come in quell’occasione, ai suoi allenamenti assistevano ausiliari, legionari, graduati e di tanto in tanto perfino ufficiali. Nonostante il sole cocente non c’era soldato del castrum che non rinunciasse con piacere ai pochi momenti di riposo e libertà per godere dello spettacolo che ogni mattina offriva Caretzio Vullo.

    «Fermi! Basta!», disse alla fine il centurione sputando l’aria bollente che aveva caricato nei polmoni. Le reclute rallentarono e si fermarono quasi per inerzia. Alcune si piegarono sulle ginocchia. Una crollò a terra con la faccia nella polvere.

    Vullo scosse il capo e si avvicinò. «Mi state facendo venire voglia di vomitare». Con l’unica mano che aveva a disposizione prese il soldato svenuto per i capelli e gli sollevò la testa. Gli occhi della recluta vagavano senza meta, un velo traslucido davanti a uno sguardo inerte. «A sole due giornate di marcia da qui», cominciò il centurione fissando quegli occhi che non lo stavano vedendo, «ci sono animali a due zampe che darebbero volentieri le teste dei loro figli pur di averti per qualche istante tra le mani. E sai cosa ti farebbero se gli dèi concedessero loro tale fortuna?». Sputò a terra. «Ti staccherebbero la pelle con un coltello affilato. Lentamente, come si sfiletta un pesce fresco di rete. E mentre gridi per il dolore, ti infilerebbero in gola una manciata di scorpioni incazzati, prima di chiuderti la testa dentro a un sacco in modo che, qualora riuscissi a gridare per sputare quei simpatici animaletti, essi possano comunque rivalersi sui tuoi bei lineamenti da femminuccia. A quel punto tu cominceresti a pregare gli dèi di farti morire ma loro, come sempre, non ti ascolterebbero e lascerebbero che ti appendano per i piedi all’albero più alto in modo che il sole possa continuare a divertirsi con la tua carne viva e gli aculei a disegnare tatuaggi meravigliosi sulla tua faccia».

    Vullo tacque e si accorse che ancora una volta la sua reprimenda era stata ascoltata da tutti nel più religioso silenzio. Per questo le sue labbra si incresparono in un soddisfatto sorriso. Preludio al gran finale. «Ogni volta che i tuoi impedimenta ti sembreranno troppo pesanti per continuare, ogni volta che la fatica avrà il sopravvento su di te, ogni volta che ti lascerai cadere, ogni volta che correrai il rischio di restare indietro o solo in quei maledetti boschi dove nascondono le loro tane quei bastardi… è allora che sarà la tua fine. E io ho il compito di impedire che ciò accada». Fece due passi indietro. «E adesso alzati, soldato!».

    La recluta non si mosse. Tutte le altre trattenevano il fiato. Sapevano che se non avesse reagito sarebbe stata la fine ingloriosa della sua già breve carriera militare. Ma Vullo non si scompose e tornò a sorridere perché sapeva che non sarebbe accaduto. Aveva lavorato per settimane affinché ciò non accadesse. Come era successo centinaia, migliaia di volte in passato. E non aveva mai fallito.

    Due immunes entrarono di corsa nell’arena intenzionati a raccogliere l’uomo svenuto. Ma Vullo li fermò con un gesto della mano. E contemporaneamente voltò le spalle alla recluta a terra per poterne sentire il respiro affannato che lentamente si regolarizzava.

    La recluta tossì violentemente e un rivolo di saliva mista a polvere gli uscì dalla bocca. Piegò le braccia e mise le mani a terra in modo da fare leva e, finalmente, cominciò a rialzarsi. Prima tornò in ginocchio e poi, ancora barcollando, si mise in piedi.

    «E-eccomi, comandante… S-sono pronto», sussurrò alla fine con lo sguardo che vagava ancora senza meta.

    Vullo ridacchiò e si voltò a guardarlo. «Molto bene», disse guardandosi intorno per passare in rassegna le centinaia di occhi che lo stavano osservando. «E adesso veniamo alla prova finale della giornata. Quella per la quale immagino che sia qui tutta questa… gente». Distese il braccio monco. «La protesi», ordinò.

    Gli stessi immunes che avrebbero voluto aiutare il soldato svenuto si avvicinarono al centurione e, con un sapiente giro di legacci di cuoio, gli fissarono all’estremità dell’avambraccio una placca che terminava con una mano di ferro. Il centurione la osservò con una certa soddisfazione. E poi con la mano sana cominciò a giocare con le dita che si strinsero quasi a pugno con pochi scatti che sapevano di metallo. Qualcuno gli passò un gladio di legno. L’istruttore inserì l’elsa nel pertugio tra le dita e le strinse ancora. Poi saggiò la resistenza della presa menando una serie di fendenti al vuoto. Sogghignò soddisfatto e annuì. «Bene, possiamo cominciare. Il primo di voi che mi disarmerà o mi butterà a terra avrà una settimana di licenza premio e tre sesterzi che gli verserò di tasca mia da spendere allo spaccio del castrum».

    Le reclute si guardarono tra loro mentre lasciavano a terra i pesi con i quali avevano marciato fino a quel momento. Gli immunes consegnarono rapidamente anche a loro le daghe da allenamento.

    «C-comincio io, comandante?», azzardò la recluta che si era appena rialzata.

    «Cominciare?», fece Vullo soppesando il gladio. «Non c’è una fila. Non siamo mica alla mensa del castrum o di fronte alla tana di una puttana della Suburra!». Sollevò la testa e strinse le palpebre. «Tutti insieme, maledizione», sentenziò allargando le gambe. «Non vorrete privarmi del divertimento?».

    ALTOPIANO DI MIKALITZI

    Valle del Louros, 31 a.C.

    Marco Vipsanio Agrippa era un uomo abbastanza freddo. Soprattutto quando si trattava di prendere decisioni che coinvolgessero le sorti di una battaglia e il conseguente destino dei suoi uomini. Con il tempo e l’esperienza aveva imparato che non sarebbero state mai l’empatia nei confronti dei suoi soldati o la prudenza a non causare spreco di vite umane ma esclusivamente la conoscenza puntuale di tutti gli strumenti utili ad affrontare una battaglia. Per questo era da ore che non staccava lo sguardo dalle navi che Marco Antonio aveva portato alla fonda nel golfo di Ambracia. Il sole aveva percorso quasi tutto l’arco del cielo cambiando la luce alle acque e alla terra ma gli occhi di Agrippa non avevano smesso mai di scrutare quelle forme così enigmatiche eppure così familiari. In silenzio.

    Il comandante della flotta di Ottaviano aveva sempre subordinato lealmente le sue ambizioni personali alla necessità di contribuire al successo dell’amico di infanzia. Poco importava ciò che era accaduto nel frattempo. Agrippa aveva navigato fino a Mikalitzi sulla scorta di successi eclatanti. Il suo nome era ormai sulla bocca di tutti. Egli era l’audace architetto dei monumenta agrippae che avevano ridato al popolo i templi, le statue e la gloria di Roma. Era colui che aveva trasformato una città di mattoni nella urbem marmoream. Era l’artista dell’innovativo cammino delle acque della città di Romolo che da qualche tempo poteva fare finalmente affidamento su una fitta rete di acquedotti che riuscivano a raggiungere perfino i pascoli più lontani dal Tempio di Giove.

    Uomo di popolo, politico scaltro e integerrimo, generale impavido. E adesso anche ammiraglio della flotta che sfidava Antonio per la conquista di un impero.

    Era stato proprio Ottaviano poco più di sei anni prima a consegnare per la prima volta nelle mani di Agrippa le sue navi. Era accaduto in occasione della contesa con Sestio Pompeo e già in quella occasione il suo amico aveva dato prova di affidabilità, acume tattico e competenza. Perché non ripetere l’esperienza?

    Già. Perché non farlo? Magari regalandogli l’ennesima, nuova responsabilità. Renderlo l’unico, vero custode del suo destino.

    Agrippa assaporò il profumo che l’acqua di mare sprigionava ogni volta che andava a schiaffeggiare gli scogli sottostanti con le sue onde nervose.

    Marco Antonio e la sua puttana egiziana avevano lasciato nell’autunno appena passato il Pireo con l’intenzione di dirigersi verso il mare Ionio per sfidare direttamente Roma. Ma Agrippa li aveva preceduti intuendone le mosse e aveva fatto trovare di fronte ai due amanti le navi con i simboli delle legioni di Ottaviano. Antonio e Cleopatra avevano così desistito dalle intenzioni originarie e da Corfù avevano fatto rotta verso Azio. Un luogo sicuro per morfologia e collocazione geografica. Ideale per far svernare una flotta appesantita dalla tensione e dalle malattie. Ma Agrippa non li aveva mollati nemmeno quella volta. Dopo averli inseguiti, li aveva praticamente bloccati dentro al golfo costringendoli a una lunga sosta forzata durante la quale lo sfidante di Augusto aveva visto bene di fortificare il porto.

    Ma mentre Antonio segnava il passo, Agrippa non si fermava. Ogni sua mossa, ogni sua decisione, ogni sua iniziativa era impegnata a erodere lentamente, sistematicamente ed efficacemente lo spazio vitale del suo avversario.

    E adesso il principale ostacolo all’ascesa di Ottaviano si trovava proprio a poche miglia dalla terrazza naturale dove il generale di Arpino scrutava l’orizzonte. Sarebbe bastato solo spingere, come si fa con una porta precaria martoriata dalle tarme, per vederlo crollare.

    «No, non farlo. Non ancora».

    Il richiamo che proveniva alle sue spalle suscitò appena una rapida contrazione dei muscoli della schiena. Ma riuscì a farlo voltare.

    Aveva riconosciuto la voce di donna. Squillante, sicura. Non si sarebbe aspettato invece di trovarsi di fronte poco più di una bambina. Anche se incredibilmente bella.

    Marco Vipsanio Agrippa era la quintessenza di ciò che le matrone dell’Urbe avrebbero senza indugio definito un uomo bello e affascinante. Viso pieno, mascella forte. Naso importante. Grandi occhi sormontati da due folte sopracciglia prostrate che gli conferivano uno sguardo magnetico di fronte al quale era difficile non abbassare gli occhi. Uno spettacolo estetico che sapeva suscitare sempre una reazione inequivocabile da parte di qualunque rappresentante del genere femminile. Una reazione a cui Agrippa era abituato e che si aspettava ogni volta pur non facendoci più caso.

    Eppure quella ragazzina sembrava non essersi nemmeno accorta di chi avesse di fronte. I suoi occhi, verdi come il mare e nervosi come la tempesta, lo trapassavano come uno stilo affilatissimo per guardare oltre. Tanto che Agrippa, istintivamente, si voltò verso l’orizzonte.

    «E tu chi sei?», chiese tornando a osservare la nuova arrivata. Poi, facendo vagare lo sguardo intorno: «Che ci fai qui? E come sei arrivata?».

    Una domanda a cui la ragazzina non rispose, attirata dal sopraggiungere di un ufficiale accompagnato da un civile avvolto da un lungo mantello con cappuccio che lasciava trapelare solo un affilato profilo aquilino, e seguiti da un pugno di guardie trafelate capeggiate da un optio.

    Agrippa accolse la piccola delegazione aggrottando le sopracciglia. L’optio approfittò del silenzio generato dall’improvviso incontro. «Comandante, sono arrivati con una liburna senza insegne e si sono fatti riconoscere solo qualche attimo prima che gli scaricassimo addosso i dardi di tutti gli scorpioni a difesa del porto», disse il sottufficiale che pareva calzare un elmo di una misura più piccola del suo capoccione sudato. «Ho detto loro di aspettare che terminassimo di controllare con il trierarchus le credenziali della nave e poi li avremmo scortati al tuo cospetto ma non ci hanno dato retta».

    «Taci, soldato. Farò i conti più tardi con la tua negligenza», lo redarguì Agrippa.

    L’uomo incappucciato riservò solo un’occhiataccia all’optio e poi si rivolse all’ammiraglio. «Non avevamo intenzione di mancarti di rispetto ignorando il lavoro dei tuoi soldati. Anzi, ci auguriamo vivamente che tu non voglia punirli per la nostra iniziativa. Ma stavamo cercando proprio lei», aggiunse additando la bambina. «Come avrai potuto notare tu stesso, non è un monumento alla disciplina». Il suo era un evidente rimprovero ma espresso con un tono insolitamente paterno.

    Agrippa accettò le scuse con un cenno del capo e incrociò lo sguardo con quello dell’ufficiale. Indossava una uniforme particolare, dai colori insoliti che non permetteva di individuare l’appartenenza a una determinata legione. Lorica di lino martellato, tunica nera, elmo con cresta trasversa fatta di lunghe piume di struzzo bianche e nere, stivaletti corti di cuoio intrecciato. Un prefetto.

    La figura avvolta da un ampio mantello verde scuro si fermò a pochi passi della bambina mentre il suo accompagnatore sfilava silenziosamente al suo fianco. Agrippa si lasciò attrarre dalla collana che portava al collo. Una corta catena d’oro che terminava con una piccola coppa che custodiva un solitario nero.

    «Adesso, posso sapere chi siete e cosa ci fate qui?», chiese senza staccare gli occhi dal monile. Si preparò ad ascoltare ma il nuovo arrivato, invece di presentarsi, iniziò a muovere le mani e a parlare fu il suo accompagnatore.

    «Siamo coloro che attendevi», disse questi mentre l’altro fendeva l’aria con le dita. «Quattro scolari. Scortati da un manipolo di fanti di marina e trasportati da una liburna in incognito. Esattamente quanto richiesto», fece l’accompagnatore dell’ufficiale muto. E si fece lentamente da parte per rivelare la presenza di altri tre ragazzini che fino a quel momento erano rimasti al riparo dietro all’ampio mantello del prefetto. Il più grande era di pelle scura e già mostrava una corporatura da adolescente. Il più piccolo era calvo e si puntellava su un bastone ritorto muovendo in continuazione le due sfere bianche che aveva al posto degli occhi. Nel mezzo un altro bambino in preda a lievi scatti nervosi che facevano fluttuare in continuazione la zazzera rossiccia come se fosse un vessillo di coorte scosso dal vento.

    «Io non aspettavo quattro piccoli schiavi ma altre navi da guerra, maledizione».

    «No», proseguirono i segni del muto ribattuti dal suo accompagnatore. «Tu aspettavi i rinforzi promessi da Ottaviano per vincere la guerra. E noi siamo quei rinforzi».

    Agrippa si passò una mano sul mento irsuto. Li studiò incuriosito e poi si voltò di nuovo verso la bambina affacciata a scrutare il golfo. Indifferente al dialogo degli adulti. «Ditemi che è uno scherzo», fece sospirando.

    CALAGURRIS IULIA NASICA

    Hispania Tarraconensis

    Confine con le terre dei Cantabri, 50 a.C.

    Il cavallo di Marco Lucrezio si fermò ancora una volta. Sbuffò, scavò un po’ con uno zoccolo e piegò il muso di lato mostrando una mezzaluna bianca nell’occhio sinistro.

    «Lo so che sei stanco. E che sei anche arrabbiato con me perché non ti faccio riposare da stamattina. Ma ti assicuro che siamo quasi arrivati». Il giovane beneficiarius alzò la testa cogliendo il rapido movimento di qualcosa che tagliava l’aria dove il suo sguardo non poteva arrivare. «E tu non mi parlare alle spalle». Si voltò di scatto e si ritrovò a guardare un ragazzino a braccia ancora aperte. «Volevo dire, non ti muovere alle mie spalle… sì, insomma… lo sai che se non vedo i gesti che fai, non riesco a capire quello che vuoi… dire». Sbuffò e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Dèi, non ce la farò mai».

    Il ragazzino smise di gesticolare e spronò il suo cavallo in modo da affiancare quello dell’uomo. I suoi occhi verdi brillarono di divertimento mentre la zazzera bionda si agitava ribelle sulla fronte.

    Marco Lucrezio fece per dire qualcosa ma preferì restare in silenzio per continuare a osservare il suo giovane accompagnatore: era cresciuto molto negli ultimi tempi e mostrava qualcosa in più dei dodici anni che, a occhio e croce, doveva avere. Veramente era difficile dire con certezza che età avesse. Quando il centurione Victor Iorus lo aveva trovato in quel villaggio celta in fiamme, aveva tra le braccia il corpo esanime del fratellino morto con ancora il cordone ombelicale attaccato al cadavere della madre sventrata. Con tutto quel sangue, quella cenere e quelle lacrime era stato davvero complicato immaginare quanto tempo passasse tra i due. Il centurione aveva deciso di dargli un’età approssimativa. Ma da quando Victor Iorus era morto, il suo giovane beneficiarius aveva dovuto tenere il conto al posto suo e si era trasformato senza rendersene nemmeno conto in una sorta di padre adottivo.

    Solo quando si rese conto di aver taciuto per troppo tempo, Marco Lucrezio capì di aver commesso un errore. Perché quel silenzio preludeva sempre alla stessa conclusione. E infatti il ragazzino mosse le mani nel modo in cui egli si aspettava, lasciando che fosse come sempre il maniloquio a disegnare pensieri e parole. Come accadeva da quella maledetta notte, in quel bosco ormai lontano, dove la morte dell’unico uomo di cui aveva imparato ad aver fiducia gli aveva tolto la parola.

    Perché non mi hai mai chiesto cosa avevo visto in quel bosco? Perché non mi hai mai chiesto come è morto mio padre? Perché hai lasciato che fossero altri a farlo? Io, a te lo avrei detto.

    Marco Lucrezio abbassò lo sguardo ma non poté fare a meno di lanciare un’occhiata fugace alla pietra nera che oscillava all’estremità del pendente che il ragazzino portava sempre al collo. La testimonianza concreta della solidità degli incubi che lo accompagnavano.

    «Quella notte Victor Iorus mi chiese di prendermi cura di te. Non si trattò di una discussione. Il centurione… tuo padre non ebbe il tempo di aprirla. E nemmeno io di obiettare. Accadde e basta». Gli occhi azzurri del beneficiarius erano diventati lucidi. «A cosa sarebbe servito chiederti come era morto e cosa avessi visto di tanto terribile da farti perdere la parola? Se ci avessi creduto o meno, avrebbe forse cambiato le cose? Victor Iorus sarebbe tornato in vita e tu avresti ripreso a parlare?». Deglutì a fatica per ricacciare indietro i singhiozzi. «Io rammento benissimo com’era la tua voce. Squillante come il cinguettio di un passero, luminosa come un’alba senza nubi. La sento ogni volta che muovi le mani. Ho sempre pensato che tu un giorno possa tornare a parlare. E allora mi dirai cosa è successo. Con quella stessa voce che non ho mai dimenticato. Nel frattempo mi fido del terrore che ho visto nei tuoi occhi quella notte. E di tutto ciò che è accaduto sotto le mura di Alesia. Fino a quel momento non ho intenzione di affrontare l’argomento. Quello che vedo capitarti intorno da quella sciagurata notte mi fa credere che Victor Iorus non sia morto per nulla. Anche se non lo capisco. E questo, fino a quel momento che sono sicuro per gli dèi che arriverà, mi basta». Diede una pacca sul collo del cavallo che riprese a trotterellare evidentemente dimentico della fatica. «E adesso muoviamoci, il tuo istruttore ci attende».

    Marco Lucrezio nascose la sua espressione incerta con la scusa di togliersi la polvere dagli occhi. La verità era che non voleva sapere. Era convinto che l’ignoranza lo avrebbe aiutato a fronteggiare la situazione. Conoscere quanto sarebbe stato lungo il suo peregrinare avrebbe forse aiutato Odisseo ad affrontare meglio il suo viaggio? Saper quanto fosse preponderante l’esercito persiano avrebbe fatto cambiare idea a Leonida alle Termopili? Il beneficiarius sputò a terra. Già il solo fatto di paragonarsi a figure di quella statura lo faceva sembrare ridicolo. Ma si trattava della contagiosa follia che il suo amato comandante gli aveva lasciato in eredità. Oltre a quel fardello in carne e ossa di dodici anni.

    Il ragazzino spronò il proprio cavallo in modo da non perdere l’andatura dell’adulto e riprese a muovere le mani. Ci aveva messo davvero pochissimo a imparare come restare in equilibrio in sella e a gesticolare nello stesso tempo. Così come aveva imparato in un batter d’occhio tante altre cose. A parte tutte quelle che, testardamente, si era rifiutato di apprendere.

    Io non ho bisogno di un istruttore.

    Marco Lucrezio scosse la testa e portò una mano alla bisaccia legata alla sella del cavallo. «Non dirlo a me. Sono gli ordini di Cesare e valgono più delle tue proteste».

    I movimenti delle mani del ragazzino si fecero più rapidi e agitati.

    So usare la fionda. Non c’è bisogno che impari a usare anche il gladio o i dardi o…

    «Madron», esclamò allora indispettito Marco Lucrezio «hai sempre detto che vuoi diventare un buon soldato. E per esserlo non basta saper lanciare qualche sasso. Devi imparare a usare ogni tipo di arma e ogni tipo di scudo. Devi imparare a combattere in gruppo, a colpire mentre cavalchi, a schivare mentre difendi. E io non sono in grado di aiutarti poiché riesco ormai a malapena a ricordarmi come si indossa una lorica visto che ho passato gli ultimi tempi a farti da badante».

    Il ragazzino si bloccò. Abbassò gli occhi e smise di agitare le mani.

    «Per gli dèi, scusa», continuò il beneficiarius «ma sono molto stanco per questo viaggio che sembra non finire mai. E dico cose che nemmeno penso. Sono molto contento di essere diventato il tuo… fratello maggiore».

    Il ragazzino restò a testa china ma alzò lo sguardo. Riprese esitante il maniloquio.

    Non mi sono offeso per quello che hai detto ma per come mi hai chiamato. Io non sono più Madron. Devi imparare una buona volta a chiamarmi con il mio nuovo nome.

    ALTOPIANO DI MIKALITZI

    Valle del Louros, 31 a.C.

    «Victor Iulius Felix».

    Agrippa restò a guardare le mani dell’ufficiale senza ribattere.

    «È il mio nome», insistette l’altro aiutato dall’accompagnatore incappucciato. «Qualcosa non va?».

    L’ammiraglio di Ottaviano parve ridestarsi da un sogno a occhi aperti. Grazie alla voce di un uomo raccontata da quella di un altro.

    «Non c’è nulla che non vada nel tuo nome. È solo che mi chiedevo se avessi condotto con te anche qualche legionario oltre a…», indicò con lo sguardo la ragazzina che non aveva mai smesso di fissare le sagome lontane delle navi di Antonio.

    «Ottaviano non ti ha detto nulla?», disegnarono le mani dell’ufficiale muto. Si rivolse al pedissequo che trasse dalle pieghe del mantello una pergamena chiusa da un legaccio di cuoio.

    Agrippa si impossessò della pergamena. Riconobbe il sigillo, il profilo di una sfinge, lo spezzò e cominciò a leggere.

    «Le nostre credenziali sono di tuo gradimento?», gesticolò l’ufficiale muto.

    Agrippa continuò a seguire le parole vergate sulla superficie di budello pressato. «Come avete fatto ad avvicinarvi così tanto senza essere visti dalla costa?»

    «Siamo abituati a non essere visti».

    «E come avete fatto ad arrivare fino a qui senza che nessuno vi fermasse? Ho disposto posti di blocco navale attraverso le cui reti non passerebbe nemmeno una sardina».

    «Siamo abituati anche a quello».

    Agrippa fece una smorfia. «Mi aspettavo rinforzi e infatti questo documento parla di rinforzi».

    «Quel documento afferma il vero e Ottaviano lo conferma con la sua firma».

    «Qui si fa cenno a due centurie di classiarii. Non possono rappresentare un… rinforzo di fronte alle navi di Marco Antonio».

    «Non sono loro i rinforzi. Quei soldati servono a proteggere i bambini. Sono la loro scorta».

    «I bambini? Ma che follia è mai questa?», insistette Agrippa arrotolando nervosamente la pergamena prima di restituirla al pedissequo.

    Victor Felix sorrise. «Dunque avevo ragione. Ottaviano non ti ha detto nulla», fece l’ufficiale muto. «Allora permettimi di ovviare a questo inconveniente». Le sue mani si fermarono a mezz’aria e poi ripresero con pochi gesti sicuri.

    «Dryantilla». Il pedissequo richiamò l’attenzione della ragazzina. Lei si voltò. Lanciò uno sguardo all’uomo senza parola che annuì. Così inghiottì e indicò le vele lontane.

    «Le navi del tuo nemico si sono schierate a difesa del golfo e i tuoi frumentari ti hanno fatto un resoconto rassicurante», cominciò con tono impassibile. «Tutte le vele sono state spiegate e sembrano pronte a uno scontro diretto. Le tue navi sono maggiori in numero e in dimensioni e l’inverno ha decimato e indebolito il loro equipaggio. Ti appare come un gioco da ragazzi e dunque sei pronto a quella che immagini come una facile e risolutiva vittoria».

    «E così sarà», la interruppe Agrippa, «domani all’alba la mia flotta farà irruzione nel golfo e…».

    «E verrà completamente distrutta», riprese la bambina come se stesse pronunciando un’ovvietà.

    «Ma che sciocchezze», riprese l’ammiraglio spostando più volte lo sguardo dalla ragazzina agli adulti che l’avevano accompagnata. «Marco Antonio è allo stremo delle forze e si prepara al peggio. Non potrà fare altro che sottoporsi a una cocente sconfitta. I rinforzi che ho chiesto a Ottaviano mi sarebbero stati molto utili per inseguire la sua rotta fino alla fine del mondo e per spazzare via lui e la sua sgualdrina. Vorrà dire che mi accontenterò di vederlo darsela a gambe tra le onde».

    Dryantilla sospirò. Lanciò uno sguardo all’ufficiale muto che annuì ricambiandolo con un’occhiata complice. Così la bambina lasciò il belvedere della postazione di guardia e andò a cercare tra i suoi piccoli compagni. Distese il braccio per raccogliere la mano di uno di loro. «Giuba, fagli vedere cosa accadrà».

    Il ragazzino dai capelli rossi, che fino a quel momento non aveva smesso di tremare, si irrigidì. «È proprio necessario?», balbettò. «Poi vomito. E vomitare non mi piace».

    «Giuba!», fece perentoria la bambina.

    Il ragazzino ci pensò per qualche istante, poi sbuffò e si fece avanti. Si fermò davanti ad Agrippa e gli mostrò il palmo della mano destra. «Mettici la tua sopra e chiudi gli occhi», scandì.

    L’ammiraglio si lasciò sfuggire una risata nervosa. «Non ci penso nemmeno».

    «Fallo», ordinò la bambina.

    Agrippa portò istintivamente la mano sinistra al pomo della spatha che pendeva dalla cintola.

    «Ti prego, comandante», fece allora con tono più conciliante il pedissequo dell’ufficiale muto seguendo il movimento lento ed elegante delle sue dita. «Fai come ti chiede».

    Agrippa sputò a terra e imprecò sommessamente. Evitando lo sguardo dei suoi uomini mise la mano aperta su quella del bambino.

    L’odore dell’acqua salmastra strizzata dal vento. Lo sciabordio delle onde sulla chiglia. Il rumore dei remi che tagliano i flutti guidati dagli ordini impartiti sottocoperta al ritmo dei tamburi. Le voci concitate degli ufficiali.

    Agrippa ritirò istintivamente la mano e tutto tornò come prima.

    «Ma che razza di sortilegio è questo?», imprecò facendo un passo indietro.

    Il ragazzino dai capelli rossi reclinò il capo all’indietro come se avesse ricevuto un pugno in faccia. Un rivolo di sangue cominciò a scivolargli lentamente da una delle narici.

    «Non lasciarlo!», esclamò Dryantilla. «Non puoi lasciarlo proprio adesso!».

    Agrippa era frastornato e lottava disperatamente per non darlo a vedere. Quando aveva toccato la mano del bambino gli era sembrato di vivere un sogno a occhi aperti da cui si era risvegliato con una forte nausea. Un attimo prima stava sul ponte di una nave e un attimo dopo era di nuovo in cima alla postazione di vista della fortezza.

    «Voglio sapere che cosa mi state facendo», disse rivolto all’ufficiale muto.

    Giuba approfittò della momentanea confusione e gli riafferrò la mano.

    Così Agrippa si ritrovò di nuovo sul ponte di una quinqueremi alla testa della flotta che puntava decisamente alla roccaforte di Marco Antonio. Nelle orecchie una voce lontanissima di bambino che balbettava il suo futuro.

    CALAGURRIS IULIA NASICA

    Hispania Tarraconensis

    Confine con le terre dei Cantabri, 50 a.C.

    «Che ti dicevo?», esclamò Marco Lucrezio con l’entusiasmo che la fatica gli aveva lasciato. Indicò qualcosa davanti al muso del suo cavallo senza nemmeno rendersi conto che riusciva a vederne appena i contorni sfocati. Si passò un braccio sugli occhi per spazzare via sudore e polvere e finalmente la sagoma della fortezza romana di Calagurris gli si parò davanti in tutta la sua singolare maestosità. Sorta per scommessa ai confini delle terre civilizzate, la fortezza si affacciava su quello che i soldati romani chiamavano l’ade in terra. Una landa sconfinata, di cui si sapeva solo che finiva sulla costa di un mare in cui galleggiavano ancora i cadaveri dei legionari sacrificati da Cesare per tentare di bussare alla porta dei Britanni. Una terra in cui danzavano insieme boschi lussureggianti e montagne dalle cime taglienti come lame, fiumi impetuosi e sabbie mobili. Ma soprattutto nelle quali perfino le bestie più feroci avevano riconosciuto senza nemmeno combattere il predominio di una razza di predoni feroci e indomiti che avevano deciso di piantare le loro insegne in faccia ai vessilli delle legioni romane che non erano più riuscite a fare un passo in avanti. C’era un solo linguaggio che i Cantabri riconoscevano ed era quello della guerra. Feroce, sanguinosa e senza regole o esclusione di colpi. Non risparmiavano i feriti, non facevano prigionieri, non distinguevano tra civili e soldati, tra uomini, donne, vecchi o bambini. Non predavano le vettovaglie che trovavano sul loro cammino, le distruggevano. Adoravano le fiamme, le urla dei moribondi, il terrore negli occhi degli avversari disarmati. Insomma, un po’ come i loro nemici, ma vestiti peggio. Ed era forse questo, più di ogni altra cosa, che indispettiva i satolli senatori che prendevano il sole sulle scalinate dei Fori. A tutto si può rinunciare tranne che all’eleganza della ferocia. Nonostante la poca dimestichezza con le armature e le tattiche di battaglia, i Cantabri avevano opposto alle legioni di Cesare una sfacciata tattica di guerriglia che aveva fino a quel momento disorientato tutti i generali spediti dalle loro parti. Ma una Roma scossa dalla guerra civile, fiaccata per la tensione dell’incertezza politica, in cui le legioni passavano dal giorno alla notte da una parte all’altra della barricata, non era in grado di fare la voce grossa sul tavolo delle pretese. Ma soprattutto di parlare di etichetta.

    Così i Romani si erano dovuti fermare e avevano messo il segno al capolinea della loro marcia trionfale con una cittadella fortificata che presto era diventata il monumento ai sogni di conquista irrealizzati e, al momento, irrealizzabili. Ma se c’era una cosa di cui Cesare non difettava era proprio la cocciutaggine. Per questo aveva spedito a Calagurris i suoi migliori addestratori. Affinché i soldati delle sue legioni di confine si trasformassero in pochi mesi in macchine assassine. E proprio per sgombrare il campo sull’incertezza delle sue convinzioni, aveva lasciato alla città fortificata un pezzo del suo nome.

    Marco Lucrezio si voltò per lanciare uno sguardo di soddisfazione al ragazzino. «Se proprio non vuoi dirmi che sono stato bravo a guidarti fino a qui», disse con un’alzata di spalle, «almeno potresti disegnare con quelle tue manine sapienti un, diciamo, avevi ragione».

    Madron strinse le labbra. Marco Lucrezio portò i pugni ai fianchi indispettito e il ragazzino rispose a quel punto indicando qualcosa alle spalle del suo accompagnatore. L’uomo allora si voltò e si ritrovò la lama di una daga appoggiata con vigore sul pomo d’adamo.

    Completamente sovrastato dall’eccitazione di aver raggiunto finalmente la meta tanto agognata non si era accorto del sopraggiungere dei cavalli della pattuglia perimetrale. Gli ausiliari lo avevano circondato in modo che non potesse né avanzare né fuggire ma avevano ignorato il ragazzino, evidentemente immaginando che non rappresentasse un pericolo.

    «Il tuo nome», fece il comandante della pattuglia poco discosto, accarezzando la criniera di uno splendido pezzato.

    Marco Lucrezio deglutì a fatica per impedire che la fredda striscia d’acciaio che gli premeva la gola lacerasse la carne. Si presentò formalmente. «Sono un soldato come te, che non lo vedi?», disse alla fine toccandosi l’elmo.

    «Siamo tutti soldati ma di questi tempi non tutti combattiamo dalla stessa parte», ribatté il comandante. «Forse non te ne sei accorto». Articolò le dita della mano destra in una sorta di ventaglio danzante. «A quale legione appartieni?».

    Marco Lucrezio socchiuse le labbra. «Veramente non… non appartengo più ad alcuna legione. Il mio centurione è morto e la sua unità operativa sciolta. Sono in missione per conto di…».

    «Tutti noi apparteniamo a una legione e a una coorte», disse e sollevò la testa

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