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L'ultimo guerriero
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E-book522 pagine7 ore

L'ultimo guerriero

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Info su questo ebook

L’unica legge rimasta è quella del più forte

Uno, anche detto “Giaguaro”, è il capo di un gruppo di Esclusi, la fetta di popolazione tornata allo stato primitivo in un pianeta devastato da epidemie, crisi economiche ed energetiche, cambiamenti climatici. In un mondo in cui la legge del più forte sembra essere l’unica in vigore, il suo viaggio verso un nuovo accampamento sarà un susseguirsi di scontri con uomini e animali selvaggi, di violenze, avventure e incontri con realtà quasi fiabesche come le Guerriere o i Bambini Assassini. 
Clara è una volontaria della Croce Rossa, compagna di un ufficiale dell’Esercito. Vive nel mondo dei Regolari, i pochi privilegiati protetti da guardie armate nelle loro ville blindate, dotate di computer, telefoni, elettrodomestici. 
I destini dei due protagonisti, incomparabilmente diversi, finiranno per incrociarsi dopo una serie di peripezie e colpi di scena. 

Un romanzo che immagina un fu­turo cupo, desolato e decisamente spaventoso, forse, perché non così lontano dal nostro presente.

Un autore da oltre 150.000 copie

Il nuovo, avvincente romanzo dall’autore finalista al Premio Strega

Hanno scritto dei suoi libri:

«L’autore è uno dei migliori cronisti-segugi al lavoro a Roma.»
Corrado Augias

«Con uno stile narrativo crudo, cinematografico, realistico, che viene dal giornalismo, l’autore mette a nudo una Roma oscura, livida, sinistra, ostile e pericolosa.»
Il Messaggero

«Massimo Lugli conosce bene il volto oscuro della Capitale, già emerso in altri suoi romanzi di successo.»
la Repubblica

«Lugli ha un suo modo diretto di catturare il lettore.»
Corriere della Sera
Massimo Lugli
si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per «la Repubblica» per 40 anni. La Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo (finalista al Premio Strega), Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, la trilogia Stazione omicidi, Il giallo Pasolini e L'ultimo guerriero. Insieme ad Antonio Del Greco ha scritto Città a mano armata, Il Canaro della Magliana, Quelli cattivi, Il giallo di via Poma e Inferno Capitale; insieme ad Andrea Frediani Lo chiamavano Gladiatore.
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2021
ISBN9788822755278
L'ultimo guerriero

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    Anteprima del libro

    L'ultimo guerriero - Massimo Lugli

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    PARTE I. BRAHMA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    PARTE II. VISHNU

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    PARTE III. SHIVA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Epilogo

    narrativa_fmt.png

    2914

    Dello stesso autore:

    Inferno Capitale (con Antonio Del Greco)

    Il giallo di via Poma (con Antonio Del Greco)

    Il giallo Pasolini

    Quelli cattivi (con Antonio Del Greco)

    Il Canaro della Magliana (con Antonio Del Greco)

    Stazione omicidi

    Lo chiamavano Gladiatore (con Andrea Frediani)

    Il criminale

    Città a mano armata (con Antonio Del Greco)

    Indagini senza indizi (L’istinto del Lupo – La legge di Lupo solitario – La lama del rasoio – Sangue color ruggine – Non tornerete a casa – Mutt & Jeff – Spari di mezzanotte)

    La strada dei delitti

    Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale

    Gioco perverso

    Crimini imperfetti. Tutte le indagini di Marco Corvino


    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Prima edizione ebook: luglio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5527-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Massimo Lugli

    L’ultimo guerriero

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Alla memoria di Andrea Majoli,

    una luce spenta troppo presto

    Ecco come il mondo finì. Non con una bomba

    atomica ma con merda merda merda.

    Charles Bukowski, A sud di nessun nord

    Prologo

    I colpi sulla porta. Le urla. Le risate.

    Sentì il cuore che le si schiantava nel petto. Stava succedendo. Il suo peggiore incubo, l’orrore che aveva immaginato, sognato, temuto per anni era lì. La stavano venendo a prendere.

    Controllò il paletto della porta, gemendo e farfugliando. Stava per cedere. I colpi erano sempre più forti. La stavano prendendo a calci e a spallate. Sapeva che avrebbe ceduto entro pochi minuti. Con la testa obnubilata dal terrore si maledisse per aver sempre rimandato l’installazione di una porta blindata. Adesso era troppo tardi.

    Si guardò in giro disperatamente, cercando un mobile abbastanza massiccio da fare resistenza. La poltrona? Troppo leggera, non li avrebbe fermati. Il divano? Troppo pesante, non sarebbe mai riuscita a trascinarlo fino alla porta e appoggiarcelo contro. Ormai era questione di minuti.

    Nascondersi, trovarsi un buco, rannicchiarsi nella tana come un animaletto, diventare invisibile. Dove? Sotto il letto? In un armadio? Nello sgabuzzino?

    Singhiozzò, disperata. L’avrebbero trovata. Sapeva cosa succedeva quando entravano in una casa. La perquisivano da cima a fondo, la saccheggiavano, la distruggevano e prima di andarsene, quasi sempre, la davano alle fiamme.

    I colpi continuavano, sempre più forti. Sentì le voci. Rauche, stridule, agghiaccianti. Ridevano, minacciavano, bestemmiavano. Si mise le mani sulle orecchie per non sentirle.

    Fare qualcosa, fare qualcosa, subito. Prima che…

    Fuggire. Guardò dalla finestra al terzo piano. Erano lì, in strada. La aspettavano.

    Pensò di buttarsi. Un volo di dieci metri, poi il buio. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di…

    Pianse. Non ce la faceva. Non ce l’avrebbe mai fatta. Era una vigliacca. Voleva vivere. Vivere a tutti i costi, ma per quanto? Quanti giorni, quante ore sarebbe sopravvissuta dopo la cattura? Il suo cervello entrò in black out. Si rifiutava di immaginare quello che stava per succedere, quello che le avrebbero fatto.

    Mamma, aiutami. Papà, aiutami. Marco, dove sei? Ditemi che non è vero, che non sta succedendo, che sto sognando. Tra poco mi sveglio, mi stiro, do un bacio a Marco, preparo la colazione…

    Un cardine saltò.

    La porta cominciò a scricchiolare.

    I colpi divennero una gragnuola. Li sentiva nel corpo, come se stessero colpendo lei, al posto della porta.

    Urlò di puro terrore mentre, d’istinto, indietreggiava dal salone verso la cucina. Chiudersi dentro, spostare il frigorifero, la lavatrice, fare una barricata. Forse sarebbe riuscita a tenerli a bada, forse avrebbero preso quello che si trovavano sotto mano e se ne sarebbero andati, lasciandola in pace.

    Il fucile.

    Si rese conto di essersene completamente dimenticata e corse a prenderlo. Era un Fabarm calibro 12, già carico, cinque cartucce a pallettoni nel serbatoio. Mise un colpo in canna e lo impugnò, sentendosi un po’ più sicura. Li avrebbe respinti. In fondo erano solo dei vigliacchi. Erano bestie. Le bestie hanno paura delle armi da fuoco. Non ci sarebbe stato neanche bisogno di sparare.

    La porta stava cedendo.

    Arretrò col fucile spianato. Troppo tardi per chiudersi in cucina e barricarsi dentro. Aveva perso tempo, come sempre. Marco lo diceva spesso. Sei una perditempo, amore, lo sai vero?.

    Le lacrime le scesero lungo le guance. Marco. Dove sei? Proteggimi, cacciali via. Vieni, amore mio, salvami. Sono qui. Stanno per prendermi. Fai qualcosa, ti supplico.

    Addio Marco. Ti amo.

    La porta si schiantò.

    Entrarono come demoni, come furie. Li guardò come attraverso una nebbia. Erano loro. Quelli che aveva visto nei suoi incubi peggiori. Loro guardarono lei, immobile, col fucile in pugno.

    Restarono fermi per qualche istante. Qualche secolo. Sperò che se ne andassero, che avessero paura di lei, del suo fucile, di morire. Premette impercettibilmente il dito sul grilletto senza strappi, trattenendo il respiro, come le aveva insegnato Marco.

    Scattarono in avanti tutti insieme, ululando come lupi.

    Sparò un colpo…

    PARTE I

    Brahma

    Il Creatore

    Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza per cui non puoi sopportare i cattivi.

    Apocalisse di Giovanni

    Capitolo 1

    L’orma spiccava chiarissima sull’erba umida. Netta e profonda.

    Mi chinai a esaminarla con una stretta allo stomaco. Grosso. Almeno novanta chili. Quasi sicuramente un maschio.

    Annuii mentre mi rialzavo. L’escremento fresco, ancora fumante, a neanche mezzo metro dall’impronta, parlava chiaro. Strinsi forte l’impugnatura della lancia, soddisfatto di aver affilato la punta d’acciaio, consumata e arrugginita, fino al punto di farmi sanguinare il pollice semplicemente appoggiandocelo sopra, quasi senza pressione. La vecchia lama di coltello, inserita nell’asta di legno e trattenuta da un viluppo di colla e lacci di cuoio, era lunga quindici centimetri, tagliente come un rasoio, acuminata come un ago. Un’arma micidiale. L’arma che poteva salvarmi la vita.

    Mi rialzai e feci un cenno d’assenso a Gufo, che impugnava la sua mannaia. Mi guardò con un misto di aspettativa e paura: lo stesso che doveva leggere nei miei occhi.

    «È vicino», sussurrai indicando il cespuglio, una ventina di metri più avanti, da cui proveniva un raspare iroso, sempre più forte, di unghie che grattano la terra. Conoscevo quel rumore.

    Gufo si fece di lato, per lasciarmi spazio. Rimpiansi amaramente di non avere Billo con noi. In momenti come quelli, il suo aiuto sarebbe stato prezioso. Ma Billo, due giorni prima, si era spezzato una zampa chissà come e quando era tornato zoppicando e guaendo, con l’osso che fuoriusciva dalla zampa rotta, avevamo capito tutti che c’era solo una cosa da fare per lui: gli avevo preso la testa tra le mani, l’avevo accarezzato dietro le orecchie strappandogli il solito mugolio di soddisfazione, nonostante il dolore della frattura, gli avevo dato un bacio d’addio sulla testa e gli avevo tagliato la gola di netto. Il ricordo del suo sguardo addolorato, quasi offeso, m’aveva tolto l’appetito mentre lo mangiavamo.

    Il raspare divenne più forte, seguito da una specie di ringhio, sordo e feroce. Gufo, Scimmia e Vipera si allargarono a raggiera dietro di me, Gufo con la mannaia in pugno, Scimmia col suo giavellotto e Vipera che tendeva l’arco con la freccia incoccata. Una freccia sarebbe andata bene per finirlo, forse, ma non certo per fermarlo. Toccava a me. Ed ero io quello che, sicuramente, sarebbe stato attaccato. Quello che rischiava la vita.

    Uscì dal cespuglio di scatto, senza nessun preavviso: una massa di muscoli, zanne e furia cieca lanciata verso di me ad almeno cinquanta chilometri all’ora, diretta come una locomotiva e altrettanto micidiale.

    Non ebbi il tempo di avere paura.

    Flettei il braccio all’indietro tendendo tutti i muscoli del corpo e scagliai la lancia imprimendogli tutta la forza possibile con una leggera rotazione dell’anca, quel movimento che avevo provato e perfezionato centinaia di volte.

    La lancia volò dritta come un falco in picchiata con una traiettoria dall’alto verso il basso e si conficcò nella sagoma tozza, scura e grugnente che correva verso di me.

    Il cinghiale proseguì nella sua carica, senza accorgersi di essere già morto.

    Mi scansai con una mezza piroetta da ballerino, da torero, mentre l’animale mi sfiorava il polpaccio sinistro e si abbatteva su un fianco, la lancia conficcata al centro del petto, il sangue che eruttava dalla ferita, le zampe posteriori che scalciavano freneticamente, gli artigli, micidiali come quelli di un orso, che sferzavano l’aria.

    Non persi un attimo, sapendo che, anche in agonia, poteva avere la forza di rialzarsi e caricare di nuovo. Afferrai l’impugnatura sobbalzante della lancia e la spinsi dentro carne, muscoli e ossa più a fondo che potevo. Il grugnito divenne una sorta di urlo di dolore, stridente come il verso di un’aquila.

    Gli altri tre cacciatori entrarono in azione come una squadra bene affiatata. Gufo vibrò un colpo di mannaia sul muso del cinghiale, spaccandoglielo quasi in due. Scimmia gli conficcò nell’occhio il giavellotto, con una precisione da neurochirurgo mentre Vipera scagliava tre frecce in rapida successione, tutte nella parte morbida del ventre. Una penetrò in profondità nel grosso scroto che emergeva dal groviglio di peli, e la belva emise un lungo gemito.

    Le zampe continuavano a scalciare, anche se un po’ più debolmente. Ci tenemmo a distanza, consapevoli del pericolo: uno solo di quegli artigli poteva sventrarci, tagliarci la carne come un rasoio, infettarci di germi e batteri letali anche con un semplice graffio. Saltellando accanto al grosso corpo riverso a terra, continuammo a trafiggere, colpire, squarciare, conficcare, spaccare, perforare fino a quando la bestia non giacque immobile, con la lingua rosa e molle che fuoriusciva dalla bocca semiaperta. Solo allora ci allontanammo di qualche passo, esausti e completamente imbrattati di sangue e ci abbandonammo all’esultanza: lanciammo il nostro urlo di guerra e improvvisammo una breve danza di trionfo, ululando, gridando, ridendo e saltellando.

    Crollammo a terra, esausti e ancora spaventati: più di uno di noi era stato squarciato, maciullato, dilaniato da quei cinghiali sempre più feroci e aggressivi che, ormai, scorrazzavano liberamente in tutte le strade della città, talvolta addirittura in piccoli branchi. Nessuno era sopravvissuto. Anche quando le ferite non erano letali, le infezioni che ne derivavano e che non sapevamo come curare con i pochissimi mezzi a disposizione, significavano morte certa.

    Ma stavolta avevamo vinto noi. E ci eravamo assicurati cibo per parecchi giorni.

    Gufo si mise subito al lavoro usando la mannaia con la maestria di un cuoco professionista o di un macellaio. Spaccò in due, con qualche colpo preciso, la carcassa dell’animale, estrasse intestini, polmoni e organi interni che avrebbero potuto contaminare rapidamente la carne, li esaminò con aria critica e li buttò via. Lupi, gabbiani, ratti, cani inselvatichiti e gatti selvatici li avrebbero fatti sparire non appena avessimo abbandonato il campo. Poi, mentre io, Vipera e Scimmia ci riposavamo in panciolle, in vista della lunga marcia di ritorno, riuscì a decapitare il cinghiale e divise il corpo in sei o sette pezzi che ripose con cura nel grosso sacco di iuta che ci eravamo portati dietro.

    Vipera si alzò con un movimento fluido ed elegante, senza posare un braccio a terra, rovistò tra le interiora, estrasse un grumo color rosso scuro che grondava sangue e me lo porse con un gesto cerimonioso.

    «Vuoi il cuore? Ti spetta di diritto».

    «Grazie, non mi va».

    «Sicuro?»

    «Certo… Mangialo tu se vuoi, ma sai che…».

    Non mi ascoltò neanche e affondò i denti da belva nella carne molliccia, strappandone un grosso morso che masticò con soddisfazione.

    «Non sai quello che ti perdi, è squisito», gorgheggiò pulendosi il sangue che le colava sul mento.

    Sospirai. Avevo avvisato tutti dei rischi che si correvano con la carne cruda, specialmente quella di topo o di suino, ma nessuno mi stava a sentire. Quella di cibarsi del cuore o del fegato delle poche prede che riuscivamo a cacciare, o di mangiare la carne essiccata approssimativamente al sole o magari spruzzata di succo di limone per disinfettarla era diventata un’abitudine diffusa. Dissenteria, intossicazioni, gravissime malattie intestinali mietevano decine di vittime tra noi Esclusi, assieme alle epidemie ricorrenti di influenza Covid, alla leptospirosi, al tetano, a qualche focolaio di peste, lebbra e vaiolo ormai divenuti endemici. L’unica prevenzione era quella di isolare i malati e aspettare che guarissero. O che morissero, come succedeva la maggior parte delle volte.

    Guardai il sole che cominciava a tramontare e mi appoggiai alla lancia per tirarmi su e cominciare la lunga marcia verso l’accampamento, ma Vipera non aveva ancora finito con me.

    Me la trovai davanti all’improvviso, faccia a faccia: i capelli selvaggi lunghi fino alle spalle, il viso scarno e segnato, con un gran naso a becco, da predatrice, i liquidi, magnetici occhi verdeblu che scintillavano e che facevano dimenticare tutto il resto.

    «Sei stato bravo, Uno», si complimentò usando il titolo onorifico che mi avevano appioppato dal giorno in cui avevo assunto il comando del gruppo.

    «Solo un lancio fortunato… Non ce l’avrei mai fatta senza di voi», mi schermii. Uno il Modesto.

    «No, davvero… Ci sai fare con la lancia», ammiccò. Il suo sguardo insinuante alla patta dei miei vecchi jeans ormai sbrindellati sottolineò il doppio senso.

    «Io… Sono solo un vecchietto ma mi difendo come posso», farfugliai un po’ imbarazzato.

    «Lo vedremo stanotte, quando verrò da te… Tieni da parte un po’ di vino».

    Guardai il viso pieno di spigoli, i denti da predatrice, la lunga cicatrice che le solcava la guancia sinistra dalla tempia al mento, il seno che sembrava voler balzare fuori dal suo eterno gilet di cuoio da motociclista, i muscoli da ginnasta delle braccia, le unghie lunghe, sporche e spezzate come artigli e provai un fremito al basso ventre.

    Desiderio.

    Una cosa che avevo quasi dimenticato. Una delle tante.

    Capitolo 2

    Arrivammo al campo tre ore dopo, accolti dagli schiamazzi eccitati dei bambini, dai complimenti degli uomini, dall’esultanza delle donne che, per una volta, non avrebbero dovuto inventarsi una cena a base di topo, lucertola, talpa, scoiattolo, radici edibili o quei pochissimi uccelli che riuscivamo a catturare con le nostre trappole rudimentali. Un banchetto di cinghiale era un’occasione di festa per tutti. In teoria, come ricordava sempre Gufo, avremmo dovuto lasciar frollare la carne per almeno un giorno in modo che diventasse più morbida e commestibile ma nessuno se la sentiva di aspettare e, comunque, avere una riserva di cibo costituiva sempre un pericolo. In caso di attacco o fuga improvvisi avremmo corso il rischio di doverla abbandonare. Il cibo era tutto. Era la nostra speranza, la nostra sopravvivenza, quello per cui cacciavamo, combattevamo, morivamo.

    Un grande fuoco fu acceso immediatamente al centro dello spiazzo, circondato dalle nostre capanne e baracche fatte di rami, cartone, pezzi di lamiera, traballanti pareti di cartongesso e qualsiasi altro materiale riuscissimo a rimediare nelle nostre incursioni in città. Le donne più anziane ed esperte si misero subito al lavoro per scuoiare la carcassa divisa in pezzi, badando bene a non rovinare troppo la pelle che sarebbe servita per fare corde, indumenti o recipienti. Dalle ossa più grosse ricavavamo utensili, armi e, a volte, piccoli ornamenti da portare al collo o alle orecchie. Le zanne erano utilissime per scavare il terreno o per essere modellate a forma di falcetto. Qualche cacciatore ne faceva un ciondolo da ostentare con orgoglio o il manico di un pugnale o di una daga.

    Mi schiantai sulla porta della mia tenda, una piccola casetta di tela e paletti di vetroresina che avevo rimediato quando gli aiuti arrivavano ancora regolarmente, e perfezionato con una specie di veranda in legno retta da quattro pali pencolanti che sembravano sempre sul punto di crollare. Come carpentiere non ero un granché. Neanche come muratore, meccanico, infermiere, aggiustaossi, cercatore di tracce, cuoco e, insomma, tutto quello che serviva veramente nella nostra condizione. Avevo solo due abilità fondamentali: cacciare e combattere. Merito del pluridecennale allenamento nelle arti marziali asiatiche, armate e disarmate, a cui mi dedicavo PRIMA. Ripensandoci adesso, non avrei mai creduto che quella specie di gioco di calci, pugni e proiezioni, attacchi e parate simulate con i coltelli farfalla, la spada dritta, la sciabola, il nunchaku, la lancia, i doppi bastoni da Escrima e il palo lungo Wing Tsun, un giorno, avrebbero potuto salvarmi la vita e darmi da mangiare. Ricordai con nostalgia le ore trascorse al poligono di tiro, a sparare con pistole, revolver o carabine, altra passione della mia vita passata. Ora sì che le armi da fuoco avrebbero fatto la differenza, ma nessuno, tra noi Esclusi, aveva la possibilità di procurarsi una pistola o un fucile e comunque, visto che le munizioni erano tutte blindate nei depositi e nelle armerie sorvegliate a vista, al massimo li avremmo potuti usare come randelli.

    «È andata bene, oggi, grande Giagu».

    La voce di Orbo, il mio secondo in comando, mi distolse dalle mie nostalgiche rimembranze. Alla luce danzante del fuoco, vidi la sua figura alta e allampanata sedersi silenziosamente accanto a me. Come sempre non l’avevo neanche sentito arrivare. Quell’uomo era uno spettro.

    «Penso di essere vivo per miracolo», sospirai. «Quel cinghiale era fatto di acciaio. Mi sarebbe piaciuto averti con me, a coprirmi le spalle, anche se gli altri sono stati bravissimi».

    Orbo annuì senza commentare. La regola era che uno dei due restasse sempre di guardia all’accampamento, in assenza dell’altro, in modo da non lasciare mai il gruppo senza una guida.

    «Vuoi?», Orbo mi porse una tazza dell’immondo distillato di patate che producevamo artigianalmente. La sorsata di fuoco liquido mi fece attorcigliare le budella ma se non altro mi scaldò le ossa visto che, nonostante fossimo a settembre, la sera, nei boschi, il freddo aveva già iniziato a mordere forte.

    «Ti devo parlare, Giagu», annunciò con un sospiro. Orbo faceva sempre così: la prendeva alla larga, ponderava, meditava. Ed era uno dei pochi a chiamarmi con il mio vecchio soprannome di Giaguaro o Giagu. Il suo se l’era guadagnato in uno dei primi scontri territoriali, quando un bastone appuntito e indurito sul fuoco gli aveva fatto scoppiare l’occhio sinistro, ora sempre coperto da una benda nera da pirata. L’ascia di Orbo, ex vigile del fuoco nella vita precedente, l’aveva vendicato spaccando esattamente a metà la testa dell’Arabo che lo aveva reso, per sempre, un lontano cugino di Polifemo.

    «Li ho visti di nuovo», annunciò con aria stanca.

    «Sei sicuro?».

    Lo sguardo in tralice che mi lanciò era una risposta eloquente. Orbo era sempre sicuro di quello che diceva. In alternativa stava zitto.

    «Quanti?»

    «Due, forse tre… Si tenevano a distanza, tra i rami. Dovevano sentirsi molto furbi. Naturalmente gliel’ho lasciato credere. Ho fatto finta di niente. Dopo aver dato una bella sbirciata e averci preso le misure per bene, se ne sono andati».

    «Qualcun altro se n’è accorto, secondo te?»

    «Forse Muto… Sta sempre a guardarsi intorno. Ma lui non conta».

    Annuii. Muto non contava. Era muto. Nessuno aveva mai capito se non sapesse parlare o semplicemente non gli andasse di farlo. Dalla sua bocca sigillata in permanenza non era mai uscito neanche un suono.

    La zaghrouta delle donne vicine al fuoco annunciò che la cena era pronta. Quel suono a metà tra canto e ululato mi faceva sempre rizzare i capelli sulla testa. E il bello è che non era stata una Fatima o una Aisha a importarlo nel nostro gruppo ma Ape, una biondissima trentenne di origini norvegesi con un passato sulle navi delle Ong. Ormai tutte le componenti femminili del gruppo lo sapevano fare alla perfezione e lo usavano, con grande entusiasmo, in ogni occasione.

    «Che vuoi fare?», la domanda da un milione di dollari.

    «Pensi che siano tanti?», rispondere a una domanda con un’altra domanda, vecchio trucco da psicoanalista. Peccato che non lo fossi mai stato.

    «Non lo so, Giagu… Tre giorni fa sono stato io a spiare loro e, credimi, non mi sono fatto sgamare come quegli imbecilli. Ma non ho visto molto, forse il grosso era a caccia o in giro per qualche scorribanda. Ho contato una decina di donne, tutte piuttosto anziane, ma forse alcune, le più giovani, le tengono nascoste. In fondo sono caproni e caproni restano». Sputò per terra. Be’, quando ti hanno cavato un occhio con un bastone appuntito forse hai diritto di essere un po’ razzista.

    «… E noi abbiamo una dozzina di uomini in grado di combattere, facciamo tredici con Vipera, e sette donne, oltre a otto bambini troppo piccoli per impugnare un’arma, quindi dovremmo sloggiare prima che ci attacchino. È questo che pensi?»

    «Lo hai detto tu».

    «E tu lo pensi».

    «Sei il capo no?»

    «E se andassimo a parlarci? Potremmo offrirgli qualcosa per lasciarci in pace… Cibo, attrezzi, magari un po’ d’erba, che ne dici?»

    «Prenderebbero tutto, farebbero grandi profferte di pace e concordia e poi ci attaccherebbero lo stesso. Non lo fanno per il bottino, Giagu, lo fanno perché gli piace uccidere».

    Annuii. Non c’era bisogno di chiedere da cosa gli venisse quella certezza. Lo avevamo visto succedere troppe volte. L’unica tregua possibile era tra due gruppi della stessa forza, quando uno scontro sarebbe stato troppo rischioso per entrambi. Altrimenti c’erano solo sangue, violenza, stupri e saccheggio.

    «I volontari dovrebbero passare stanotte o domani», tergiversai.

    «Forse. O forse no. Forse non verranno mai più».

    Fino a qualche anno prima i volontari passavano a scadenze fisse. All’inizio scendevano dai furgoni della Croce Rossa, della Caritas o della Comunità di Sant’Egidio per distribuire pacchi, medicine o, quando c’era un medico nell’equipaggio, per qualche rapida visita e diagnosi. Poi, dopo che molti di loro erano stati sequestrati, torturati, violentati e uccisi (in alcuni casi si diceva perfino mangiati) avevano cambiato strategia: si muovevano solo con furgoni corazzati, con i vetri protetti da griglie di metallo e lanciavano i pacchi da una specie di oblò. Ma la puntualità e la regolarità delle visite li avevano traditi. Alcuni gruppi, particolarmente feroci, avevano preparato buche e trappole per bloccare i furgoni e, quando non erano riusciti ad aprirli, li avevano semplicemente dati alle fiamme con i volontari dentro. Completamente assorbiti dalla loro missione umanitaria, i volontari non avevano rinunciato ad aiutare chi voleva solo farli a pezzi. Adesso arrivavano all’improvviso, come ladri o rapinatori, depositavano alla svelta i pacchi con il solito sistema dell’oblò e se la filavano alla svelta. Niente più visite mediche, sorrisi, carezze ai bambini. Ma continuavano a distribuire viveri, indumenti e medicinali di base ogni dieci, quindici giorni al massimo. Erano due settimane che non passavano quindi li aspettavamo da un giorno all’altro.

    La zaghrouta finì.

    « Be’ andiamo a mangiare, ti stanno aspettando». Orbo si alzò lentamente come se avesse centocinquant’anni e mi tese la mano. La presi e mi alzai anche io con la stessa energia.

    «Facciamo così: se stanotte passano i volontari partiamo domani tutti insieme e cerchiamo una trattativa con gli Arabi. Se no domattina vado in ricognizione con Gufo, diamo una bell’occhiata a quei caproni, vediamo quanti sono veramente e se si stanno preparando a muoversi e organizziamo il trasferimento per i prossimi giorni. Nel frattempo raddoppia i turni di guardia. E controlla che le sentinelle siano sveglie e sobrie».

    «Non è meglio se andiamo insieme, io e te? Per una volta, potremmo lasciare Gufo e Scimmia qui, ormai se la cavano bene».

    «No. Se resti al campo sono più tranquillo. E se domani sera non sono tornato fai spostare tutti alla svelta, il più lontano possibile».

    Orbo annuì e mi precedette verso il fuoco.

    I volontari, quella notte, non vennero. Vipera sì.

    Capitolo 3

    Sentii la lama del rasoio appoggiata alla gola nel momento stesso in cui la mia mano si strinse sull’impugnatura della lancia, che tenevo sempre accanto a me mentre dormivo.

    «Sei lento, avrei potuto scannarti come un pollo, amore», sussurrò con la sua voce roca, inequivocabilmente maschile.

    «Sono un povero vecchierello, te l’ho già detto», bofonchiai di rimando. Aspettò qualche secondo prima di allontanare il suo micidiale rasoio a mano libera, lo stesso con cui si radeva accuratamente tutte le mattine, per poi chiuderlo con uno scatto del polso e metterlo via.

    «Non ti aspettavo più», risposi mentre tentavo di mettermi a sedere. Una mano forte e scarna mi spinse di nuovo giù.

    «Stai fermo, Uno, vediamo cosa sa fare questo povero vecchierello, allora».

    Armeggiò con i miei vecchi jeans (come tutti gli altri dormivo sempre completamente vestito) e si chinò sul mio pene, ancora floscio per il sonno e lo spavento.

    Le ci volle pochissimo per farmelo drizzare.

    Cominciò a pomparmi con la bocca, un lavoro da vera professionista, fino a quando dovetti bloccarla.

    «Basta, Vipera, se continui così mi fai godere».

    «Puoi venirmi in bocca se ti va».

    «No… voglio far godere anche te».

    Annuì. Si tolse i suoi pantaloni militari. Sotto aveva un minuscolo perizoma di pizzo che sfilò velocemente prima di girarsi e offrirmi una panoramica del suo lato B. Le natiche erano sode e tonde, muscolose come quelle di un atleta, senza traccia di ritocchi al silicone. Solo il seno era stato gonfiato.

    Mi sputai sulla mano e strofinai la saliva sul glande per lubrificarlo ma lei mi fermò con un gesto della mano, rovistò in uno dei tasconi dei pantaloni ed estrasse un tubetto di crema che si spalmò sull’ano infilando un dito in profondità. Poi mi sorprese allungandomi un piccolo involto di stagnola.

    «Dove l’hai trovato?»

    «Due mesi fa sono andata in città. C’era un distributore automatico ancora intatto, l’ho scassato con una pietra e ho preso tutto. Mettilo».

    Strappai l’involucro e infilai il preservativo con qualche difficoltà. Non ci avevo neanche pensato. Quando ogni giorno rischi di ammalarti di peste, leptospirosi, Covid 19, Covid 20, Covid 25 e 26 e tante altre pandemie non più classificate, o di infettarti di vaiolo, Ebola, influenza suina, TBC, amebiasi, colera e mille altri germi, batteri o virus sempre in agguato, l’Aids e le malattie veneree passano in secondo piano.

    Vipera si stava masturbando, come per farmi capire che non avrei dovuto farlo io.

    La penetrai lentamente e fui sorpreso di trovarla calda, morbida e accogliente come una vagina. Non ero mai stato con una transessuale prima di allora. Neanche con un uomo se è per questo.

    Iniziai a spingere lentamente, poi sempre più veloce cercando di trattenere l’orgasmo. Vipera assecondava il ritmo gemendo, mugolando, spingendo le anche snelle contro di me e sussurrando oscenità in italiano e in portoghese. Capii solo fottimi come una troia.

    Durò poco. Dopo anni di astinenza e di stenti, come amante ero decisamente fuori forma. Dopo qualche minuto sentii un’esplosione tellurica che sembrava partire dai piedi, raggiungere il cervello e concentrarsi sulla punta del mio pene.

    «Sborro, sborro non ce la faccio più», ringhiai artigliandole le schiena mentre sgorgavo nel rivestimento di lattice che mi inguainava il glande. Vipera ansimò, continuò a masturbarsi freneticamente mentre restavo dentro di lei, ancora in erezione e, dopo qualche istante, eiaculò nella mano con un sospiro voluttuoso.

    Mi staccai da lei e mi stesi sulla schiena. Vipera leccò lo sperma dal palmo come se fosse un gelato alla crema e ripulì quello che restava con un fazzolettino di carta, altra meraviglia inedita che aveva rimediato chissà dove. Poi giacque accanto a me.

    «Ce l’hai un po’ di vino?»

    «Se vogliamo chiamarlo così».

    «Meglio di niente. Dai, tiralo fuori, anche io ti ho portato un regalino».

    Dal tascone delle sorprese, estrasse un grosso cannone già rollato, un bombardino stile anni Settanta a forma di siluro. Non mi meravigliai. Imbattersi in una delle tante piantagioni di marijuana abbandonate da anni e mezzo inselvatichite era abbastanza frequente. L’erba veniva usata spesso anche come merce di scambio per i baratti.

    Versai l’immondo distillato che definivamo pomposamente vino in due bicchieri di legno mentre lei accendeva la canna. Per un po’ restammo a fumare e bere in silenzio.

    «Pensi che ci attaccheranno?», domandò farfugliando leggermente. Fumo e alcol accentuavano l’accento portoghese. Vipera si era unita a noi tre anni prima e nessuno sapeva da dove venisse e cosa avesse fatto in precedenza, come fosse sopravvissuta dopo la catastrofe principale seguita alle altre due o tre crisi globali precedenti. Donne e transessuali, da soli, di solito duravano poco: stuprati, uccisi o presi in schiavitù dal primo gruppo che li incontrava. Probabilmente l’infanzia in qualche favela, dove le uniche alternative erano fare la puttana o rovistare negli enormi immondezzai a cielo aperto del Brasile, le avevano insegnato parecchie cose sulla sopravvivenza in generale.

    La domanda comunque mi sorprese. Quello doveva essere un segreto tra me e Orbo, per evitare panico o fughe improvvise.

    «Come lo sai?».

    Fece un’aria furbetta. Capii. Probabilmente Orbo aveva beneficiato dello stesso trattamento che Vipera aveva appena riservato a me. A letto, anche se è solo una coperta su un pavimento di terra battuta o di stuoia, gli uomini parlano.

    «Non lo so, Vipera… Per adesso abbiamo solo visto qualche esploratore in avanscoperta. Orbo ha dato una sbirciata all’accampamento ma non ne ha ricavato granché. Se sono Arabi, probabilmente lo faranno».

    Vipera scatarrò e sputò con grande signorilità.

    «Caproni di merda… Peggio dei cinesi».

    Immaginai una battuta sui brasiliani ma, saggiamente, evitai.

    «Comunque non siamo sicuri che siano ostili», continuai. «Magari ci tengono solo d’occhio. Forse sono un piccolo gruppo e hanno più paura di noi che noi di loro… Domani vado a dare un’occhiata assieme a Gufo».

    «Posso venire anch’io?», domandò, entusiasta come una bambina.

    Feci per dire di no ma ci pensai su. Aveva una mira micidiale con l’arco e, nel caso di brutti incontri, le sue frecce avrebbero potuto salvarci la vita. Qualcuno diceva che quando non le usava per cacciare, ma per combattere, avvelenasse la punta con il succo di qualche pianta misteriosa.

    «Dai, Uno, posso venire? Se mi fai contenta faccio contento te», insistette. Tanto per essere esplicita prese in mano il mio pene ancora umidiccio e iniziò a masturbarmi. Gemetti.

    «A… una… condizione però… Non devi… parlarne… con nessuno», ansai. Mi stava praticando una fellatio da pornostar. Annuì senza smettere né perdere il ritmo mentre, come prima, si dava piacere da sola, con la mano. Stavolta raggiungemmo l’orgasmo insieme.

    «Vedi che non sei così vecchierello», mi stuzzicò mentre tirava fuori un secondo joint.

    «Erano anni che…», poi, al pensiero dell’ultima volta che avevo fatto sesso, ammutolii. Il ricordo di una capigliatura nera lucente acconciata in un delizioso taglio carré e di un paio di stupefacenti occhi grigi mi fece sanguinare il cuore.

    Vipera annuì e tacque. Tutti noi avevamo i nostri ricordi, i nostri fantasmi, i nostri incubi. Solo qualcuno riusciva a parlarne, ogni tanto.

    «Lo sai che sono pettegola e non so tenere un segreto, Uno», mi canzonò Vipera con una vocetta infantile.

    «Allora dovrò tagliarti la lingua, mi spiace».

    «Mmmhhh che peccato. Mi serve. Lo hai visto anche tu cosa posso fare con la lingua. Mi sembra che ti sia piaciuto, no?»

    «Le corde vocali, allora? O fai pompini anche con quelle?»

    «Senti, tesorino, c’è un modo meno sanguinoso per evitare che vada a dirlo a qualcuno appena esco da questo bel palazzo reale», insinuò.

    «Sarebbe?»

    «Dormo qui con te. Così non cado in tentazione… Poi domani partiamo insieme. Al ritorno, se scopriamo qualcosa, potrai decidere cosa tagliarmi per farmi stare zitta, va bene, amore?».

    Doveva essere il suo piano fin dall’inizio ma in fondo perché no?

    «Va bene ma tieni le mani a posto… E tutto il resto. Se mi distruggi a forza di sesso domani non avrò la forza per camminare».

    «E chi ti tocca? Dormi tranquillo, vecchietto».

    Ci sdraiammo fianco a fianco, finimmo la canna e coprii entrambi con la coperta sdrucita e lurida. Dormendo, senza neanche accorgermene, la attirai a me e la abbracciai. Quasi con tenerezza.

    Capitolo 4

    Mi svegliai prima dell’alba, con la testa che pulsava per il liquore e l’erba della sera prima, la bocca secca e impastata e un alito che doveva far concorrenza a quello del cinghiale che avevamo ucciso. Sedetti sul letto con la vaga idea di rimandare la spedizione al giorno successivo, la scartai, sospirai, mi tirai in piedi e solo in quel momento mi resi conto che Vipera era scomparsa.

    Imprecai tra me e me, pensando che probabilmente era andata a prostituirsi con qualcuno dei tanti uomini soli del gruppo e, ovviamente, gli aveva spiattellato tutta la storia, ma mentre uscivo dalla baracca a passo di carica, me la ritrovai davanti assieme a Gufo, entrambi armati, vestiti e pronti per mettersi in cammino. L’accampamento cominciava a svegliarsi, le donne accendevano il fuoco per la colazione, dovunque echeggiavano colpi di tosse, imprecazioni, scaracchi, gemiti, rumore di stoviglie.

    «Buongiorno Uno, dormito bene?», Vipera mi salutò con uno sguardo in tralice. Si era acconciata i capelli in una lunga treccia, rasata di fresco e dipinta le due strisce rosse sulle guance che sfoggiava come una sorta di pittura di guerra. Notai l’arco e la faretra a tracolla e un lungo coltello da scalco infilato direttamente nella cintura dei soliti pantaloni militari. Gufo, al suo fianco, alto, magro, solido, la mannaia legata a un laccio di cuoio e portata sulla schiena di traverso, mi rivolse un cenno di saluto. Era sui venticinque anni, silenzioso, affidabile e coraggioso, troppo giovane per avere un ricordo preciso del PRIMA, una qualità che lo rendeva prezioso. Le generazioni cresciute dopo le catastrofi erano più adattabili, resistenti e impavide rispetto a chi, come me, aveva dovuto adeguarsi a una realtà inimmaginabile fino a pochi anni prima che accadesse tutto. Quelli di noi tra i cinquanta e i sessanta anni che erano riusciti a sopravvivere, di solito, soffrivano di una serie di patologie fisiche e psicologiche: dai reumatismi alla dissenteria cronica, febbri ricorrenti, ansia, depressione, nostalgia, senso di perdita, allucinazioni, deliri. I suicidi, soprattutto nella fase iniziale, erano stati una vera ecatombe.

    Io ero un’eccezione, Vipera, probabilmente, era passata da un inferno all’altro senza soffrirne troppo e Gufo, in pratica, non conosceva altro. Un trio perfetto.

    «Ho preso qualche cosa da mangiare: pane, formaggio e un po’ di cinghiale avanzato». L’intraprendenza di Vipera mi fece quasi vergognare: avrei dovuto pensarci io ma l’unica cosa che ero riuscito a fare era starmene a poltrire cercando di farmi passare il mal di testa. Annuii regalmente come se fossi stato io a darle l’ordine. Gufo si limitò a guardarla con gratitudine. Parlava pochissimo, altra caratteristica di chi era nato DOPO: poche ciance e tanta azione.

    «Be’, allora muoviamoci, abbiamo almeno quattro ore di cammino», stabilii in un patetico tentativo di riprendere il mio ruolo di capo. Ci incamminammo con il passo lungo e regolare tipico di chi non ha altro mezzo di trasporto che i propri piedi: un’andatura che riuscivamo a tenere tutti per giornate intere.

    Dopo due ore arrivammo alle propaggini della città. Dovevamo attraversare un ex quartiere residenziale della vecchia zona Nord, dove resisteva ancora qualche villa isolata abitata da ricche famiglie di Regolari, e diventammo più guardinghi. Edifici abbandonati e diroccati, villette plurifamiliari ridotte a ruderi, lampioni caduti, tratti d’asfalto devastati e invasi dalle erbacce, montagne di rifiuti ormai putrefatti da tempo dove si aggirava qualche cane scheletrico, qualche grosso ratto e gli enormi gabbiani metropolitani aggressivi e pericolosi come aquile, divennero sempre più frequenti.

    Come al solito quando ero in marcia, mi guardavo attorno cercando di ricordare com’era lo stesso posto soltanto un quarto di secolo prima, quando la mano di Vipera mi strattonò delicatamente la spalla.

    Gufo, che chiudeva la marcia, era immobile, con un’espressione di cupidigia sul viso e la mano sulla mannaia, che sapeva lanciare con abilità micidiale. Vipera aveva già una freccia incoccata. Mi fece cenno di tacere mettendosi un dito sulle labbra, accennò con la testa a qualcosa davanti a noi e solo allora lo vidi.

    Un capriolo, fermo a neanche cinque metri di distanza, ci fissava con i grandi occhi liquidi, le orecchie frementi, pronto alla fuga.

    Vipera sollevò l’arco con la lentezza di un praticante di Tai Chi, senza fare il minimo rumore e tirò la corda evitando movimenti bruschi mentre socchiudeva l’occhio sinistro per prendere la mira.

    Battei le mani e il capriolo scomparve all’istante, veloce come la freccia di Vipera che lo mancò di un soffio e si conficcò nel tronco di un’acacia, proprio nel punto dove, un momento prima, c’era l’animale.

    «Perché?», il sibilo di Vipera aveva qualcosa di minaccioso. Di sicuro era la più pericolosa dei tre.

    «Non stiamo andando a caccia, Vipera… Non c’è tempo per questo», risposi asciutto.

    «Cazzo, Uno, era tanta carne, buona carne, e tu lo hai fatto scappare», aggiunse qualcosa in brasiliano che era meglio non capire mentre andava a recuperare la freccia, sdegnosa come una regina offesa.

    «Non possiamo caricarci la carne, cazzo, abbiamo ancora due ore di cammino e poi dobbiamo tornare indietro», le spiegai in tono ragionevole.

    «Avremmo potuto macellarlo, lasciare i pezzi su un albero o da qualche parte, al sicuro, e riprenderli al ritorno, no? Che ci vuole, tra me e Gufo ci avremmo messo mezz’ora al massimo». Notai che non aveva incluso me, altro, implicito, insulto alla mia autorità. Fossimo stati soli avrei lasciato correre ma davanti a Gufo dovevo recuperare in fretta la mia autorità.

    La presi per una spalla, avvicinai il viso al suo e le piantai negli occhi uno sguardo da guerra.

    «Stammi a sentire, Vipera, perché te lo dico una volta sola», ringhiai. «Hai chiesto tu di venire, io volevo andare solo con Gufo», accennai alla figura dinoccolata, alle mie spalle, che non

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