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Magico
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E-book272 pagine3 ore

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Info su questo ebook

The Prodigium Series

Benvenuti nella scuola dove è normale essere speciali

La quindicenne Izzy Brannick è stata addestrata a combattere i mostri. Per secoli la sua famiglia ha dato la caccia a creature magiche. Quando però la sorella maggiore di Izzy, impegnata in una missione, scompare senza lasciare traccia, la mamma decide che è il momento di prendersi una pausa. Izzy e sua madre si trasferiscono perciò in un’altra città, decise a iniziare una nuova vita e a fare un po’ di pratica con l’innocuo fantasma che infesta il liceo locale. Certo, per Izzy calarsi nei panni di un’adolescente comune è un’impresa tutt’altro che semplice. È sempre stata una ragazza solitaria e ritrovarsi improvvisamente a dover stringere amicizie e magari innamorarsi le provoca un po’ di turbamenti... E, poi, fino a che punto è bene fidarsi dei suoi nuovi amici? A volte lasciarsi alle spalle il passato è molto più difficile di quel che sembra…

Oltre 100.000 copie vendute
Tradotto in 12 paesi
Oltre 200.000 recensioni su Goodreads
Un bestseller internazionale

Che cosa faresti se scoprissi che un fantasma infesta il tuo liceo?

«La voce di Sophie è ancora piacevolmente impertinente, e le tante scene d’azione ti danno la sensazione di essere in un film.»
Booklist

«Ritmo veloce, romanticismo coinvolgente e sentimenti autentici soddisferanno chi già conosce questa serie, e attrarranno nuovi lettori.»
Kirkus Reviews
Rachel Hawkins
Nata in Virginia e cresciuta in Alabama, ha insegnato inglese in una scuola superiore. The Prodigium trilogy, composta dai romanzi Incantesimo, Maleficio e Sortilegio e pubblicata in Italia dalla Newton Compton, ha riscosso un tale successo che l’autrice ha deciso di proseguirla con lo spin-off Magico.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2016
ISBN9788854194120
Magico
Autore

Rachel Hawkins

Rachel Hawkins is the New York Times bestselling author of The Wife Upstairs, Reckless Girls, The Villa, and The Heiress, as well as multiple books for young readers. Her work has been translated into over a dozen languages. She studied gender and sexuality in Victorian literature at Auburn University and currently lives in Alabama.

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    Anteprima del libro

    Magico - Rachel Hawkins

    Capitolo 1

    Uccidere un vampiro è in effetti molto più semplice di quel che si potrebbe pensare. Lo so che nei film e in tivù sembra parecchio difficile, come se bisognasse centrare un punto ben preciso. Ma la verità è che sono solo voci messe in giro dai cacciatori di vampiri per sembrare più fighi. Perché se tutti sapessero quant’è facile in realtà, non ci sarebbero così tanti film e serie tivù sull’argomento. Basta solo prendere un paletto di legno ed esercitare abbastanza pressione da ficcarlo nel torace del vampiro. Non serve colpire per forza il cuore.

    Visto? Una cavolata.

    Ma catturare un vampiro? Be’, questo sì che è più difficile.

    «Stai fermo», borbottai, con la torcia in bocca. Ero cavalcioni sul suo petto, con la destra impugnavo un paletto avvelenato e con la sinistra il piccolo pezzo di carta su cui era scritto il rituale.

    «Lasciami andare, mortale!», gridò il vampiro, ma la sua voce si spezzò sull’ultima sillaba, rovinando l’effetto drammatico. «I miei fratelli stanno per arrivare! Sguazzeremo nel tuo sangue».

    Sputai la torcia, che atterrò sul pavimento di legno. Avvicinandogli il paletto al torace, mi chinai su di lui. «Bel tentativo. Ti teniamo d’occhio da una settimana. Stai lavorando in città da solo. Niente nido all’orizzonte».

    Nido è il termine con cui i vampiri indicano sia le loro case sia il gruppo con cui le condividono. Lo trovavo un nome un po’ ridicolo, ma in effetti molte delle cose che riguardano i vampiri lo sono.

    Questo era particolarmente cattivo. Non solo portava i capelli ingellati, ma si era anche insediato nell’unica inquietante dimora pseudo-vittoriana di tutta la città. Ci mancava solo che appendesse un’insegna al neon con su scritto Qui ci abita un vampiro. Tutti i mobili erano di velluto rosso e di legno, e quando l’avevo colto in flagrante, poco prima, stava scrivendo sul suo diario, mentre una ragazza bionda sedeva vicino al camino.

    Quando mi vide trasalì, e io feci una smorfia, pensando a come avrebbe reagito mia madre se fosse stata presente.

    Il vampiro, che si faceva chiamare Pascal, ma probabilmente aveva un nome tipo Brad o Jason, si contorse sotto di me, ma io rimasi saldamente seduta. Uno dei vantaggi di essere una Brannick, è che siamo più forti della media. E poi questo vampiro in particolare era abbastanza minuto. Quando lo avevo atterrato, mi ero resa conto che era solo pochi centimetri più basso di me, ed erano tutti capelli.

    Sospirando, cercai di decifrare di nuovo il pezzo di carta. Erano solo poche parole in latino, ma era importante pronunciare la formula nel modo corretto. E non l’avevo mai fatto prima.

    Ebbi una fitta di dolore al petto, che però feci del mio meglio per ignorare.

    Sotto di me, Pascal smise di dimenarsi. Con la testa girata da un lato, mi fissò. «Chi è Finley?».

    Strinsi la presa sul paletto. «Cosa?».

    Pascal mi stava ancora studiando, il labbro superiore teso sopra le zanne. «La tua testa. È piena di quel nome. Finley. Finley. Finley».

    Be’, grandioso. I vampiri sono una gran rottura di scatole, anche quando si limitano a succhiarti il sangue, ma alcuni di loro hanno anche dei poteri extra. Riescono a leggere un po’ nel pensiero, telecinesi, roba così. Evidentemente Pascal era uno di quelli speciali.

    «Esci dalla mia testa», gli ringhiai, tornando a concentrarmi sul pezzetto di carta. «Vado…», cominciai, ma lui mi interruppe: «Tua sorella. Finley è tua sorella».

    Sentire il nome di mia sorella pronunciato dalle labbra di quella… di quella cosa mi causò una fitta ancor più intensa al petto, ma almeno riuscii a trattenere le lacrime. Non ci sarebbe stato niente di più patetico che mettersi a piangere di fronte a un vampiro.

    Inoltre, se ci fosse stata Finley al mio posto, se fossi stata io quella scomparsa, non avrebbe mai permesso a un vampiro, men che meno a un vampiro di nome Pascal, di ferirla. Quindi lo guardai in tralice e premetti il paletto con forza, lacerandogli la pelle.

    Pascal sibilò, ma non distolse mai gli occhi dal mio viso. «Quasi un anno. È da quasi un anno che Finley se n’è andata. Ed è da quasi un anno che tu lavori da sola. Da quasi un anno ti senti come se fosse tutta col…».

    «Vado tergum», dissi, abbassando il foglietto e poggiandogli la mano libera contro lo sterno.

    Il suo sguardo si posò su di essa e lui impallidì ancora di più. «Che cos’è?», chiese, la voce satura di paura e dolore. «Che cosa stai facendo?»

    «È meglio che essere pugnalato», gli dissi io, ma quando mi arrivò la puzza di bruciato alle narici non ne fui più così sicura.

    «Sei una Brannick!», strillò lui. «Le Brannick non fanno magie! Che diavolo è questa?».

    Continuai a recitare la mia formula in latino, ma la sua era un’ottima domanda. Le Brannick avevano pugnalato vampiri e ucciso lupi mannari con frecce dalle punte d’argento (e poi con più solidi proiettili, sempre d’argento) per millenni. Avevamo dato fuoco alle streghe e alle fate ridotte in schiavitù, e sostanzialmente eravamo diventate le protagoniste di storie mostruose.

    Ma le cose erano cambiate. Tanto per cominciare, non c’erano più Brannick a parte me e mia madre. Invece di cacciare le creature della notte, lavoravamo per il Consiglio. E Loro non si definiscono mostri; preferiscono il più civilizzato termine Prodigium. Quindi le Brannick erano diventate più o meno gli agenti di polizia dei Prodigium. Se si perdevano le tracce di uno di loro, noi lo trovavamo, lo catturavamo e portavamo a termine un rituale che lo avrebbe rispedito dritto al Consiglio, il quale avrebbe stabilito la punizione.

    Be’, era un po’ più difficile che limitarsi a pugnalare vampiri e sparare ai lupi mannari, ma la tregua tra Brannick e Prodigium era una cosa buona. Inoltre, nostra cugina, Sophie, era una Prodigium, e un giorno sarebbe diventata capo del Consiglio. O facevamo pace o le vacanze in famiglia sarebbero state veramente tremende.

    Il rituale era quasi finito, l’aria intorno a Pascal aveva cominciato a riverberare leggermente, quando lui all’improvviso si mise a gridare: «Il ragazzo allo specchio!».

    Sorpresa, mi ritrassi un po’. «Che cosa hai detto?».

    Il petto di Pascal si sollevava e si riabbassava e la sua pelle era passata dal color avorio al grigio. «È lui che ti spaventa», ansimò. «Ha qualcosa a che fare con la sparizione di Finley».

    Avevo la bocca secca e, sbattendo le palpebre, scossi la testa. «No…», cominciai a dire, rendendomi conto troppo tardi che la mano mi era scivolata via dal suo petto.

    Approfittando della mia distrazione, Pascal si divincolò, questa volta con più forza di prima, e riuscì a liberare un braccio da sotto le mie ginocchia. Ero pronta a ricevere un pugno allo stomaco, ma il dorso della sua mano mi colpì alla tempia, mandandomi al tappeto.

    Andai a sbattere la testa contro lo spigolo di un tavolo e vidi le stelle. Ci fu un movimento sfocato – i vampiri non saranno forti, ma possono essere molto veloci – e Pascal salì per le scale, sparendo.

    Mi misi a sedere e quando mi toccai la tempia trasalii. Per fortuna non c’era sangue, ma mi si stava formando un bernoccolo. Lanciai un’occhiata in direzione delle scale. Il paletto era rotolato sotto il tavolo: lo raccolsi, chiudendo le dita intorno al legno. Il Consiglio preferiva che gli rispedissimo i mostri, ma pugnalare un vampiro per legittima difesa? Non avrebbero battuto ciglio.

    Forse.

    Iniziai a salire le scale con molta cautela, il paletto sollevato all’altezza delle spalle. Lungo la parete erano allineate diverse di quelle pacchiane lampade tonde – i vampiri hanno davvero un pessimo gusto – e uno scintillio catturò la mia attenzione.

    Abbassando lo sguardo, mi resi conto di essere coperta di un luccicante strato argenteo. Oh, che schifo. Pascal era uno di quei cretini a cui piacciono i glitter per il corpo. Ero ancora più imbarazzata al pensiero di avergli permesso di leggermi nel pensiero, di aver abbassato la guardia quel tanto che gli aveva consentito di liberarsi. Se era riuscito a uscire di casa…

    Affondai le unghie nel legno del paletto. No. Non avrei permesso che accadesse.

    Il pianerottolo era coperto da un tappeto bordeaux che attutiva i miei passi. Proprio di fronte a me c’era un’ampia specchiera con una vistosa cornice: l’immagine che vi vedevo ricordava ben poco un’agguerrita assassina di vampiri e piuttosto una ragazzina spaventata.

    Il mio colorito era cereo tanto quanto quello di Pascal, in netto contrasto con il rosso brillante della treccia.

    Deglutii e feci del mio meglio per calmare i battiti frenetici del mio cuore e impedire alla mia mente di divagare. C’era una cosa che i vampiri e le Brannick avevano in comune: pochi di noi erano dotati di poteri speciali. Quello di Pascal era di riuscire a leggere nel pensiero, il mio – oltre alla forza e alla capacità di guarire rapidamente, che derivavano dal fatto di essere una Brannick – era che riuscivo a percepire la presenza di un Prodigium. E in quel momento il mio sesto senso mi suggerì che Pascal era andato verso destra.

    Feci un passo in quella direzione.

    Da una parte, sapevo che il mio fiuto non era più quello di una volta.

    Dall’altra, mi aspettavo che Pascal si fosse nascosto dietro una porta o che stesse cercando di aprire una finestra, attraverso la quale scappare. Quello che proprio non poteva mai e poi mai balzarmi in mente era che all’improvviso sarebbe schizzato fuori dalle tenebre e mi si sarebbe fiondato addosso.

    Volammo entrambi per terra, battendo sul pavimento. Sentii il paletto sfuggirmi dalle dita e, con un grugnito, cercai di piazzare una ginocchiata nella pancia a Pascal. Tuttavia, era lui a essere in vantaggio: era più veloce di me e mi aveva colto di sorpresa. Scansò il mio ginocchio, mi prese per i capelli, facendomi bruscamente girare la testa e scoprendomi il collo.

    Stava sorridendo, le labbra di un rosa intenso in confronto al bianco delle zanne, gli occhi simili a due pozze nere. Nonostante quegli stupidi capelli, quel nome idiota e la camicia bianca aveva tutta l’aria di un mostro terrificante.

    Chinò il capo e, quando sentii le punte aguzze dei suoi denti perforarmi la pelle, non potei fare a meno di gridare. Non stava succedendo. Non potevo farmi succhiare il sangue da uno stupido vampiro che si faceva chiamare Pascal.

    Una macchia grigia mi annebbiò la vista e cominciai a sentire freddo, più freddo di quanto avessi mai sentito in tutta la mia vita. Poi, sopra di me, vidi un lampo argentato, un luccichio color rame, e all’improvviso fu Pascal a gridare. Il suo corpo si allontanò dal mio e io mi portai una mano tremante al collo, sentendo il sangue caldo scorrermi sulla pelle gelida.

    Battendo rapidamente le palpebre per schiarirmi la visuale, vidi una donna dai capelli rossi vestita di nero piazzare una ginocchiata in pieno petto a Pascal, mentre con una mano gli premeva un amuleto d’argento sulla guancia. Si portò l’altra alla cintura e ne estrasse un paletto di legno.

    Quest’ultimo si abbassò e si udì un suono simile a quello di una bolla che scoppia: Pascal svanì in una sorprendente nuvoletta di polvere e cenere.

    Con la testa ancora nel pallone, guardai la donna, che si voltò verso di me.

    Anche se sapevo che era impossibile, sentii me stessa chiedere: «Finn?».

    Ma la persona che mi venne incontro non era mia sorella.

    «Stai bene?», mi chiese mia madre.

    Io mi premetti più forte la mano sui fori che Pascal mi aveva fatto sul collo e annuii. «Sì». Appoggiandomi al muro, mi rimisi in piedi. Nel frattempo, notai che nonostante si fosse fiondata addosso a Pascal, lei in qualche modo era riuscita a evitare di riempirsi di brillantini.

    «Ovvio», mormorai, poi il tappeto si staccò da terra e mi raccolse: ero svenuta ai piedi di mia madre.

    Capitolo 2

    Le luci della nostra cucina erano troppo forti. Mi facevano male agli occhi e mi pulsavano le tempie. Non era stato d’aiuto il fatto che avessimo preso l’Itineris per tornare a casa. Itineris era una specie di portale magico, che si trovava posizionato in vari punti, ai quattro angoli del globo. Il problema era che, come per la maggior parte delle cose che avessero a che fare con la magia, c’era la fregatura. Viaggiare era di certo molto più conveniente, ma il corpo ne pativa le conseguenze. Immagino che essere trasportati attraverso il continuum spazio-temporale non faccia molto bene.

    L’intruglio che avevo davanti sembrava finalmente abbastanza freddo da poterlo bere, quindi lo buttai giù. Aveva l’odore degli alberi di pino, ma in compenso il mal di testa scomparve all’istante. Davanti a me, mia madre si rigirava una tazza di caffè tra le mani. Aveva un’espressione dura dipinta in volto.

    «Era un vampiro giovane», disse alla fine, e io sentii l’urgenza di chinare il capo.

    «Sì», replicai, allungando una mano per toccare i segni che mi aveva lasciato sul collo. Grazie al di mia madre, le punture erano sparite quasi del tutto, anche se mi facevano ancora un po’ male.

    «Non sarebbe dovuto essere un problema per te, Isolde», continuò, lo sguardo sempre fisso sulla tazza. «Non ti avrei mai mandato lì da sola se non avessi pensato che fossi in grado gestire la situazione».

    Riappoggiai la mano sul tavolo. «Avrei potuto gestire la situazione».

    Mia madre mi guardò il collo e inarcò le sopracciglia. Quando era più giovane, era bellissima. E anche adesso, c’era qualcosa nei suoi lineamenti che faceva sì che la gente si girasse a guardarla. I suoi occhi erano verde scuro, come i miei e quelli di Finley, ma duri, a differenza dei nostri.

    «Insomma, la stavo gestendo», mormorai. «Solo che era uno di quelli che leggono nel pensiero e… mi è entrato nella testa…».

    «E tu avresti dovuto cacciarlo fuori», mi rimbeccò mia madre. Mi chiesi se mi sentivo peggio per il morso del vampiro o per il senso di colpa.

    Con un sospiro, lei posò la tazza e si stropicciò gli occhi. «Mi dispiace, Iz. Lo so, hai fatto del tuo meglio».

    Ma il tuo meglio non è abbastanza.

    Non c’era bisogno che lo dicesse. Quelle parole aleggiavano per la cucina. C’erano un sacco di parole in quei giorni a riempire gli spazi tra me e mia madre. Il nome di mia sorella probabilmente era la più ingombrante. Quasi un anno prima, Finley era sparita mentre si occupava di un caso a New Orleans. Era un lavoro di routine, un covo di streghe oscure che faceva degli incantesimi particolarmente fastidiosi agli umani. Dovevamo andare insieme, ma all’ultimo minuto Finley mi aveva detto di restare in macchina mentre lei sei la vedeva con quelle streghe.

    Potevo ancora scorgerla in piedi sotto un lampione, con i capelli così rossi da ferire gli occhi. «Ci penso io, Iz», mi aveva detto, facendo un cenno in direzione del libro che avevo in grembo. «Finisci il capitolo». Quando sorrideva le spuntava una fossetta sulla guancia. «Lo so che non vedi l’ora di sapere come va a finire».

    Era vero. L’eroina era appena stata rapita dai pirati, per cui le cose si stavano facendo davvero interessanti. E quello sembrava proprio un lavoretto facile. Finley si era diretta verso il covo delle streghe con una sicurezza tale che non mi ero affatto preoccupata. Almeno non finché non mi ero resa conto che era passata più di un’ora e mia sorella non era ancora tornata. Non finché non avevo raggiunto la casa e l’avevo trovata completamente vuota, satura di puzza di fumo e di zolfo. La cartuccera di Finley era davanti a un divano mezzo sfondato.

    Mamma e io l’avevamo cercata per sei mesi. Sei mesi a seguire le sue tracce, a dormire nei motel e a esaminare casi simili a quello di Finley, ma non eravamo arrivate da nessuna parte. Mia sorella era… sparita nel nulla.

    E poi un giorno mamma aveva impacchettato le nostre cose e si era limitata a dire che saremmo tornate a casa. «Abbiamo del lavoro da fare», disse. «Le Brannick vanno a caccia di mostri. È questo il nostro compito, e abbiamo bisogno di rimetterci all’opera. Anche Finley lo vorrebbe».

    Quella era stata l’ultima volta che mia madre aveva pronunciato il suo nome.

    Adesso sedeva al tavolo, di fronte a me, e continuava a rigirarsi la tazza tra le mani.

    «Forse dovremmo prendercela comoda per un po’», disse alla fine. «Potresti fare qualche altra missione insieme a me, giusto il tempo di rimetterti in sesto».

    Finley aveva seguito delle missioni per conto proprio sin da quando aveva quattordici anni. Io ne avevo sedici, e quella era stata la prima volta che mia madre mi aveva lasciato scendere in campo da sola. Non volevo che fosse anche l’ultima.

    Spinsi via la tazza. «Mamma, posso farcela. Solo… Ecco, il vampiro, lui mi ha letto nel pensiero e io non ero pronta. Ma adesso lo so! E sono in grado di stare in guardia la prossima volta».

    Mia madre alzò lo sguardo dal tavolo. «Che cosa ha visto?».

    Sapevo cosa voleva dire. Tamburellando sul tavolo di fòrmica, mi strinsi nelle spalle. «Stavo pensando a Finn, giusto per un secondo. Lui… immagino abbia visto questo. E mi ha distratto».

    Non feci menzione del fatto che Pascal avesse fatto riferimento al ragazzo dello specchio. Tirare in ballo Finn era stato già abbastanza pesante per la mamma.

    Proprio come avevo pensato, i suoi occhi all’improvviso sembrarono perdersi nel vuoto. «Okay», disse lei con voce rauca. La sedia stridette sul linoleum quando la spostò per alzarsi.

    «Be’, andiamo… andiamo a letto. Penseremo domani alla nostra prossima mossa».

    Delle profonde parentesi le segnarono i lati della bocca e le sue spalle mi parvero più cadenti di com’erano state poco prima. Mentre mi passava accanto, mi posò una mano sul capo, giusto per un secondo. «Sono contenta che tu stia bene», mormorò. Mi arruffò leggermente i capelli e se ne andò.

    Sospirando, io presi la tazza e bevvi le ultime gocce di tè. Ogni singolo osso del mio corpo avrebbe voluto salire di sopra, farsi una doccia e infilarsi a letto.

    Ma prima dovevo fare una cosa.

    Casa nostra non era niente di che. Alcune stanze da letto, una piccola cucina, e un bagno che non veniva ristrutturato dagli anni Sessanta. Un tempo era stata il quartier generale delle Brannick. Allora ce n’erano molte di più. Ora era solo una casa circondata da una fitta foresta. Ma c’era una stanza che la distingueva da una qualsiasi casa normale.

    Avevamo una Stanza della Guerra.

    Detta così, sembra una cosa molto più figa di quanto in realtà non fosse. Si trattava solo di una stanza da letto in più piena di scatoloni, con un grande tavolo tondo e uno specchio.

    Fu proprio allo specchio che mi diressi, togliendo il pesante telo che lo copriva. Dentro il vetro c’era un mago che mi fissava.

    Il suo nome era Torin, e sembrava un paio d’anni più grande di me, più o meno sui diciotto. Ma dal momento che era stato intrappolato in quello specchio nel 1587, tecnicamente ne aveva quattrocento di più.

    «Isolde!», mi chiamò allegro, appoggiandosi all’indietro, le mani sul tavolo. «A cosa devo l’onore di questa visita?».

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