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L'ingranaggio
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E-book450 pagine6 ore

L'ingranaggio

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Info su questo ebook

E se le vostre migliori intenzioni scatenassero l’orrore?
È ciò che succede ad Apollo, il più grande scienziato del suo tempo: tentando di invertire il crollo demografico che negli ultimi sessant’anni ha portato al collasso della società, commette un errore che frantumerà i confini tra la vita e la morte, gettandoli nel caos.
In una Firenze in cui la forza lavoro è costituita da cadaveri rianimati con un complesso procedimento biomeccanico, arroganti scienziati, soldati in armature a vapore e adepti dai misteriosi doni lotteranno per la sopravvivenza all’alba di una diabolica Piaga, in una spirale di violenta passione, legami indissolubili di amore e amicizia e cinico eroismo.
L’Ingranaggio racconta un mondo all’apparenza stagnante, che cova il germe di una trasformazione radicale, un mondo dove oltre i confini dei sensi umani si nasconde un meccanismo complesso di cui solo pochi riescono a scorgere un accenno, un mondo che potrà ricostruire sulle proprie macerie. O perire sotto di esse.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2017
ISBN9788885725225
L'ingranaggio

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    Anteprima del libro

    L'ingranaggio - Valerio Amadei

    La Signoria Editore

    Valerio Amadei

    L'INGRANAGGIO

    La Signoria Editore

    Firenze

    ©2017 Italia Stargate srls

    Edizione elettronica Dicembre 2017

    ISBN 9788885725225

    Questo libro è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'inventiva dell'autore e vengono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o defunte, fatti o luoghi è assolutamente casuale.

    Copertina: Stefano Simeone

    Progetto grafico: ©Fabio Gimignani

    www.lasignoriaeditore.it

    info@lasignoriaeditore.it

    L'INGRANAGGIO

    Al Programmatore,

    sperando tenga da conto i nostri backup

    Stringhe

    12 Aprile 2072

    Tre figure si muovevano nel campo ma una soltanto era viva.

    Le lampade a gas sulle teste dei due costrutti scuotevano le ombre a tempo con il loro zappare.

    Il ragazzo passeggiava pigramente tra i cadaveri rianimati che lavoravano la terra. Abbattevano le zappe sul terreno, con un ritmo costante e senza pause. Avevano iniziato a dissodare il campo quella mattina e prima del sorgere del sole tutti i semi di zucca sarebbero stati al coperto sotto una zolla di terra. Una squadra di braccianti vivi avrebbe impiegato almeno una settimana.

    Una folata di vento agitò le fronde degli alberi, facendo lamentare i gufi.

    La caldaia impiantata sulla schiena di un costrutto rilasciò il vapore con un fischio tremulo. L'assenza del respiro di quei corpi umani torturava l'inconscio di chiunque ascoltasse. Era come una vocina allusiva, appena al di sotto della coscienza: Psss, hey! Manca qualcosa d'importanza vitale.

    I profumi dei fiori primaverili combattevano con l'olezzo di carne macerata che aleggiava attorno alle macchine biologiche. Claudio arricciò il naso e sorrise inspirandone una zaffata. Nel suo cervello quell'odore non era associato ai costrutti, ma alle sue ciabatte di pelle verso settembre, dopo che le aveva portate da mattina a sera, ogni giorno, per tutta un'estate. Riportava la sua mente a lunghe camminate. A quando andava a piedi al villaggio di Impruneta, a pochi chilometri dalla fattoria, o addirittura a Firenze, la grande capitale. Partiva all'alba e tornava col buio, che d'estate voleva dire stare via un bel pezzo, far preoccupare i suoi e beccarsi una generosa dose di sberle. Ma le sberle erano un prezzo ragionevole e lui partiva. Osservava ogni cosa lungo il percorso: il comportamento degli animali, i segni dell'avvicendarsi delle stagioni, le differenze delle piante, e rifletteva sul mondo, la natura e le sue leggi.

    Scosse la testa, scacciando i pensieri in cui si era perso ancora una volta, e posò gli occhi sul costrutto accanto a lui, occhi in cui la compassione conviveva con una curiosità famelica. Restò fermo al suo fianco qualche istante, ammirandone l'ostinato lavorio demente. Allungò un braccio dietro alla schiena della macchina e ruotò un piccolo rubinetto. La caldaia riprese vigore. Sputò fumo e scintille, mentre le valvole di sicurezza sbuffavano per compensare l'aumento di pressione.

    Premette una levetta di ottone collegata al condotto del vapore, scaricando il getto all'interno di una piccola turbina che iniziò a vorticare. Scariche elettriche azzurrine risalirono i cavi di rame lungo la nuca del costrutto fino alla base delle calotte di vetro impiantate nella parte posteriore del cranio. La corrente generata dalla turbina attraversò i giunti d'interfaccia e si diffuse nel tessuto cerebrale rianimato, interrompendo il programma di lavoro inserito. Il costrutto rimase immobile, con la zappa ferma a mezz'aria, in ascolto.

    «Posa la zappa» ordinò il ragazzo. La macchina fece cadere la zappa e tornò alla sua immobilità, con le braccia che penzolavano lungo i fianchi.

    Il ragazzo lo aggirò, guardandolo fisso negli occhi opachi.

    «Lo so che ci sei. Lo so che sei là dentro, da qualche parte».

    Scene del genere si ripetevano quotidianamente.

    Io lo so che sei ancora qui.

    Un viso caro, un profumo. Qualcuno a cui hai voluto bene. La donna della tua vita. Tuo figlio? Il sole sulla pelle… il vento che ti accarezza… l'odore delle caldarroste?»

    Claudio scosse la testa, sorridendo con metà del viso per scacciare l'imbarazzo.

    «Ovvio, non mi rispondi. Proteggi la grande mascherata.

    Scommetto che quando siamo a letto fate delle feste da urlo e vi sbronzate di super-mio.

    Magari eri un musicista… Chitarra? O tamburo?»

    Negli occhi vuoti e persi del costrutto brillò una scintilla. Solo un guizzo di luce, della luna o della lampada, riflesso per un istante da un angolo appena diverso.

    Aprì la bocca. Polmoni che non venivano utilizzati da anni faticarono per riempirsi d'aria, producendo un fischio sgraziato e graffiante.

    «A… hiù… tamì».

    La voce andava su e giù a causa dell'imperizia con cui controllava il diaframma e le corde vocali.

    Claudio si paralizzò, più per stupore che per terrore, inchiodato dagli occhi del costrutto, ora vigili.

    «A… hiù… tamì» ripeté la macchina, «… non smette… non smette. Dis… trù… gimì». Protese la mano e strinse il polso del ragazzo in una morsa d'acciaio. Non gli fece male, né lo strattonò, ma liberarsi era impossibile.

    Quel contatto improvviso gli restituì padronanza di sé.

    «Allora è vero! Allora esisti ancora… Chi sei? Chi eri? Cosa provi?»

    Il costrutto inspirò e urlò a pieni polmoni. Furia, vento e rumore sferzarono il viso del ragazzo. Claudio trattenne un conato, travolto dal tanfo di ciabatta macerata, a cui si univa una nota rancida e dolciastra. Lo fissò e ammutolì, mentre il suo cervello registrava le prime avvisaglie di una paura che era già sul punto di trasformarsi in terrore. Ma la macchina che un tempo era stata un essere umano pareva essersi calmata.

    «… A volte… mi ritrovo. È l'orrore! L'orrore! La morte è l'orroh-». Non si era accorto di aver terminato l'aria nei polmoni e la frase gli si spezzò in gola. Inspirò a fondo, mentre il ragazzo indietreggiava e lottava per liberare il polso. Lasciò la presa e spinse il giovane con entrambe le braccia, mettendoci tutta la forza del suo corpo morto. Claudio sorvolò il campo e cadde di schiena sulla terra dissodata alcuni metri più in là.

    Con tutta la potenza vocale di cui era capace, il costrutto urlò: «Distruggimi!» e gli si avventò contro. Spiccò un balzo, incespicò, riguadagnò la posizione eretta.

    E così rimase, immobile, in piedi, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, gli occhi vuoti e morti a fissare il nulla davanti a sé, in attesa.

    Claudio continuò a indietreggiare in preda al terrore, strisciando con mani, piedi e natiche in una goffa fuga a ritroso, finché realizzò che la minaccia era sventata. Si fermò e ascoltò il proprio cuore che batteva impazzito. Pulsava nella testa, nelle orecchie, nel collo. Gridava al mondo che era vivo.

    Guardò il costrutto in mezzo al campo, a pochi passi da lui.

    L'altra biomacchina, ignara e incurante di tutto quel che le accadeva attorno, non aveva smesso per un attimo di zappare.

    Claudio si rimise in piedi, lottando con le ginocchia che non volevano reggerlo, e rimase così per alcuni minuti, col respiro corto, le mani sulle cosce e gli occhi sbarrati.

    Riprese il controllo, mentre il terrore animale scivolava via assieme all'adrenalina che si disperdeva nel suo sangue.

    Con movimenti rallentati si avvicinò al costrutto anomalo, lo aggirò, premette la levetta d'ottone in prossimità della turbina. Le scariche elettriche risalirono ancora una volta la nuca del cadavere. Indugiò qualche secondo e parlò.

    «Raccogli la zappa. Continua a dissodare il campo. Quando hai finito, prendi i semi di zucca nel capanno e semina tutto il campo».

    Si voltò verso casa e si incamminò. Le lacrime iniziarono a scorrere in silenzio, testimoniando la sua condizione di vivente.

    Sulla soglia, si voltò verso il campo di zucche.

    «Perdonami».

    14 Gennaio 2074

    Alle dieci, le stufe della foresteria della milizia ricevettero l'ultima dose di pellet della giornata. Le mura, quasi un braccio di pietra antica, persero quasi subito la battaglia con il rigore di Gennaio.

    Tutti dormivano da tempo, tranne Stella Martini, che si guardava negli occhi attraverso lo specchio.

    Non era interessata al proprio aspetto ma le era impossibile prendere sonno e non voleva disturbare gli altri cadetti vagando come un fantasma per la camerata.

    Pensò all'indomani e all'inizio dell'addestramento e fu scossa da un brivido, di freddo o di un'agitazione che non avrebbe ammesso.

    Nelle due settimane alla foresteria aveva sostenuto prove ed esami di ogni tipo, che l'avevano confusa.

    Ce la farai. Sei in gamba.

    È giusto che abbiano introdotto dei test. Volontari o meno, non tutti possono fare il miliziano. Però chissà perché tutti quei lavori sulle macchine… Spero di non ritrovarmi a fare l'Artefice come mio padre. Stai a vedere che quel che mi ha insegnato a forza magari mi torna utile.

    Chissà perché continua a tornarmi in mente Vanessa Innocenti. Oddio, se non vado a letto domani morirò di sonno. Una partenza col botto! Che poi è anche per lei se sono qui adesso. La biblioteca, i libri, la voglia di vedere qualcos'altro… Dici che mi piace ancora? Non credo. Il caporale di guardia, invece… Inizia a fare freddino.

    Rabbrividì ancora, addosso solo il pigiama, i piedi nudi sulle piastrelle, le mani appoggiate al bancone dei lavandini. Sbadigliò, si sciolse la coda bionda e si avviò alla camerata. Se doveva stare sveglia tutta la notte, meglio al caldo e sul morbido.

    La porta del dormitorio si spalancò e le lampade a gas si accesero con uno schiocco.

    «Sveglia, ragazzini! Sono le sei meno cinque, giù dalle brande! Avete cinque minuti per disfare i letti e fare i bagagli. Chi non è in refettorio alle sei in punto non mangia».

    I cadetti divoravano la colazione chini sulle ciotole mentre il sergente responsabile della foresteria si aggirava come uno squalo tra i tavoli.

    «La vacanza è finita. La maggior parte di voi tra pochi minuti verrà trasferita alla caserma di via dei Castellani, dove inizierete l'addestramento e, alla fine, diventerete dei miliziani degni di questo nome, se non morirete prima o non verrete sbattuti fuori a calci nel culo.

    Ma non tutti. Quest'anno c'è una novità. Ora farò un appello. Quelli che saranno chiamati, appena finito di mangiare, raccattino gli zaini e si raggruppino all'uscita di piazza Stazione in attesa di ordini.

    Amato. Berti. Chen. Corazzesi. Franci. Gao. Liù. Martini».

    «Signore!»

    Il sergente interruppe l'appello e sollevò gli occhi dalla cartelletta. «Chi ha parlato?»

    «Cadetto Berti, signore!»

    «Che vuoi, cadetto Berti?»

    Un ragazzo si alzò in piedi, catalizzando gli sguardi della sala. «Noi, invece, dove andiamo, signore?»

    «Lo scoprirete quando ci sarete arrivati. Non spetta a me darvi informazioni al riguardo, altrimenti lo avrei già fatto. Posso proseguire con l'appello o hai altre domande, cadetto Berti?»

    «Signornò, signore! Nessuna domanda. Chiedo scusa, signore!» si affrettò a rispondere Berti, tornando a sedere.

    Il sergente riportò l'attenzione alla cartelletta, cercando il segno col dito.

    «Dunque, Martini… Pini. Poggi. Sabatini. Spinelli. Suarez. Ugbade. Venturini.

    È tutto. Tutti presenti?»

    «Sissignore!» risposero i quindici, vagando con lo sguardo per individuarsi l'un l'altro. Senza aggiungere altro, fecero il saluto, raccolsero i propri zaini e si avviarono all'uscita di servizio di piazza Stazione.

    Il sergente li seguì con lo sguardo, annuendo e sorridendo.

    Fuori dalla caserma attendeva un carro trainato da un costrutto bovino. Le insegne della milizia erano dipinte di fresco sulla fiancata con vernice sbavata.

    «Voi siete i quindici selezionati?» chiese, squadrandoli, il miliziano in attesa accanto al portello.

    «Suppongo di sì, signore!» rispose qualcuno di loro.

    «Bene, salite».

    I ragazzi, uno a uno, montarono a bordo della scatola di legno con le ruote, un carro merci convertito alla meglio al trasporto passeggeri. Presero posto sulle panche fissate alle pareti del carro. Per ultimo salì il miliziano, spalle alla cassetta del cocchiere. Chiuse il portello e bussò sulle assi dietro di sé. La caldaia del bue fischiò andando in pressione e il carro iniziò a muoversi.

    Nella penombra il militare fissava il vuoto e rimaneva in silenzio.

    Nessuno tra i ragazzi osò aprire bocca.

    Trascorsero alcuni lunghi minuti, fatti di imbarazzo, colpi di tosse e scossoni, poi il carro si arrestò. Il miliziano si alzò e aprì il portello.

    «Tutti fuori!»

    Quando l'ultimo dei cadetti fu a terra, l'uomo scattò sull'attenti, salutando un graduato che attendeva in piedi al centro dello spiazzo.

    «Signore! Reclute selezionate per il progetto sperimentale, signore».

    «Riposo» rispose il militare. «Li prendo in consegna io, andate pure».

    Il miliziano salì in cassetta accanto al cocchiere. Il carro girò su sé stesso e abbandonò lo spiazzo attraverso la grossa porta fortificata da cui era entrato.

    I ragazzi si guardarono attorno. Le mura della fortezza incombevano su di loro, tonnellate di pietra inespugnabile. Un cadetto tornò alla realtà e scattò sugli attenti, subito imitato da tutti gli altri.

    «Riposo, reclute» disse il sottufficiale.

    «Io sono il sergente Barbagli. Vi mostro i vostri alloggi».

    I ragazzi spostavano lo sguardo su ogni cosa, seguendo il sergente verso un grosso padiglione laterale, occhi sgranati e bocche aperte.

    «Ma siamo a Firenze?» si domandò qualcuno.

    «È portentosa. Avrà resistito agli attacchi per secoli. Queste mura sono più massicce di quelle della città…» sussurrò un altro cadetto.

    «Già» constatò Berti. «Ma questi edifici non sembrano militari. Pare più, non so… un borgo della vecchia era?»

    «Ecco, quelli sono i vostri alloggi» li interruppe il sergente, indicando un lungo casermone addossato al muro di cinta. Poi additò un edificio rialzato, sulla cima di quella che sembrava una larga ziggurat.

    «Mentre quello lassù è il quartier generale. Sotto ci sono la sala d'armi e le aule. Ai piani interrati, i laboratori di concia dei Costruttori. Quelle, invece, sono le fucine degli Artefici. Sì, ne abbiamo di nostri propri. Incredibile, eh?» disse puntando un complesso di edifici a due piani in direzione del muro opposto.

    «E dall'altra parte della piazza d'armi» indicò alle loro spalle «le rimesse, i depositi e le stalle. Benvenuti alla Fortezza da Basso».

    Immediatamente un fitto parlottio si diffuse tra la compagnia.

    «Avete visto? Siamo alla Fortezza da Basso!»

    «Ve lo dicevo io…» rispose Liù, la più bassa e graziosa delle due ragazze cinesi, quella con l'aria da prima della classe.

    «Ma non era dismessa?» investigò Berti.

    «E l'avranno riattivata, vedrai» concluse Ugbade con una scrollata di spalle.

    Stella non aveva detto una parola dopo l'ultimo sissignore nel refettorio. Si guardava attorno assimilando ogni informazione.

    Seguirono il sergente all'interno dell'edificio e si misero in riga di fronte a lui.

    «Questa è la vostra camerata. Sceglietevi un letto. Là trovate i vostri armadietti» disse il sergente, indicando una fila di stipetti metallici ammaccati, addossati alla parete interna, priva di finestre.

    «Ce n'è uno per ciascuno, col vostro nome scritto sopra. Ci trovate un lucchetto a combinazione e una tuta da combattimento della vostra misura. Impostate una combinazione, posate il sacco e mettetevi la tuta. Si porta a pelle, nessun indumento sotto.

    Andate al bagno se dovete. È la porta in fondo.

    Adunata al centro della piazza d'armi tra dieci minuti esatti.

    Rompete le righe. E buona permanenza».

    Le reclute indugiarono qualche istante a guardarsi attorno, poi puntarono verso gli armadietti come un sol uomo, senza degnare i letti di un'occhiata.

    «Ragazzi, ma voi l'avete mai vista un'uniforme da combattimento?» chiese Berti. «Cioè, ma non state andando in pressione di brutto?»

    «Io l'ho vista» rispose Ugbade, che era arrivato per primo al suo armadietto, con una nota di delusione nella voce.

    In mezzo alla piazza d'armi, i cadetti attendevano in posizione di riposo, perfettamente allineati in tre file da cinque, secondo le disposizioni del sergente Barbagli.

    «Per piacere! È già abbastanza imbarazzate…» sibilò Liù.

    «Scusami. Scusa, davvero, non lo faccio apposta» balbettò Berti. «È che queste tute… cioè, praticamente siamo nudi! Non è che ti voglia spiare, è che l'occhio ci cade. È impossibile. Cioè, non che tu non sia bella, eh! Voglio dire che…»

    «Ti prego, stai zitto. E guarda avanti» troncò lei, tremando per l'imbarazzo.

    Un individuo di bassa statura uscì dal quartier generale, al piano superiore del padiglione est. Trotterellò giù dalla scalinata e attraversò il piazzale, raggiungendo i soldati schierati.

    «At-tenti!» scandì il sergente Barbagli. I talloni dei cadetti si unirono con un rumore ovattato e le mani andarono a schiaffeggiare le cosce.

    Al passaggio dell'ufficiale, il sergente ruotò su se stesso, ponendosi sull'attenti accanto ai cadetti.

    «Riposo» disse il cinese, dopo averli squadrati per qualche secondo.

    «Sono il capitano Nicola Fènnù, e sono il comandante in capo di questa fortezza.

    Vi starete chiedendo che ci fate qui e perché voi.

    Perché si scrive la storia. Di Firenze, dell'Italia e, per come la vedo io, del mondo.

    Oggi Firenze torna a guardare all'esterno, al di fuori delle mura, al di là delle campagne. Da oggi la Milizia non sarà più da sola a proteggere la popolazione.

    I rapporti con Venezia rendono sempre più attuale la necessità di controllare i territori esterni, controllarli davvero. Strapparli alla barbarie e riconsegnarli alla civiltà. Difendere la ferrovia. Recuperare uno sbocco al mare. Garantire la sicurezza degli abitanti delle campagne e dei villaggi fuori dalle mura, e la protezione delle coltivazioni. Far rinascere il commercio.

    Il duemilasettantaquattro è un anno epocale, signori! Che vede la nascita dell'Esercito di Firenze!»

    «Urrà!» esclamò il sergente Barbagli.

    «Urrà!» fecero eco i cadetti, confusi ed esaltati.

    «E siccome noi dell'esercito ce l'abbiamo più grosso e, soprattutto, più duro, caliamo un asso subito, nella mano di apertura. Voi, cadetti, siete stati selezionati. Vi abbiamo messi alla prova, abbiamo testato le vostre capacità, le vostre abilità, le conoscenze e, soprattutto, la tempra fisica e mentale.

    Voi pivelli sarete i primi membri effettivi della cazzutissima Divisione Tecnopotenziata dell'Esercito di Firenze e ditemi sicazzosignore!»

    «Sicazzosignore!» urlarono i cadetti su di giri.

    Il capitano fece un gesto. Le porte della sala d'armi si aprirono e ne uscirono tre soldati, ognuno dei quali spingeva un grosso carrello.

    Sui carrelli, agganciate a delle strutture di forma umanoide in tubi d'ottone, sfolgoravano delle armature complete di cuoio e metallo, rivestite da un intrico di condotti, valvole e manette. Avevano un grosso zaino corazzato sulla schiena e pistoni idraulici ad ogni giuntura.

    I cadetti rimasero immobili, allineati e con lo sguardo fisso davanti a loro. Sui loro volti imperversava una battaglia interiore per mantenere il contegno.

    Il capitano Fènnù gongolava.

    «È per arrivare qui che avete superato tutti gli esami, spiccando in tutti i campi, dal combattimento alla meccanica. È per questo che ora ve ne state in piedi in quei ridicoli pigiamini neri a chiappe all'aria.

    Voi sarete i primi soldati a indossare le armature tecnopotenziate, e, credetemi, vi piacerà. Voi sfonderete il culo a tutto ciò che ci costringe a vivere al riparo delle mura. A ciò che porta violenza, paura e scompiglio nel mondo là fuori!»

    «Sissignore!»

    «Vi allenerete duramente e renderete queste armature un naturale prolungamento dei vostri corpi. Imparerete a non spaccarvi le ossa e strapparvi le carni, e a spaccare e strappare quelle del nemico!»

    «Sissignore!»

    «Da oggi voi avrete soltanto due armi» continuò il capitano, afferrando con una mano il pettorale dell'armatura più vicina. «Ma ne userete una sola.

    La prima arma è la vostra armatura. Vi fonderete con essa. Vi sentirete nudi e indifesi quando non l'avrete. Sarà un pezzo di voi a cui non potrete più rinunciare. Questa è l'arma che userete».

    «Sissignore!»

    «La seconda arma è la vostra morte gloriosa» disse, premendo una levetta nascosta sotto il pettorale. Dall'interno del corpetto un lungo ago scattò nell'aria, esattamente dove avrebbe dovuto trovarsi il centro del cuore del tecnofante, se l'armatura fosse stata indossata. Un fiotto di liquido denso e rosso schizzò fuori dall'aculeo.

    «Questa è l'arma che non dovrete usare. È una dose di super-mioglobina».

    Fènnù fece una pausa teatrale, in cui regnò un eloquente silenzio.

    «Per le capre che non sanno cosa sia, la super-mioglobina, o super-mio, è quel sangue marcio e drogato che fa funzionare i costrutti. E che li fa puzzare in quel modo schifoso, tra l'altro.

    Se ve la inietterete, vi trasformerà in macchine di morte di inaudita forza fisica e ferocia, rendendo i vostri muscoli immensamente più potenti e veloci, e rendendo voi capaci di compiere imprese impossibili».

    Altra pausa ad effetto.

    «E poi vi farà morire. Una manciata d'ore di lenta agonia, il vostro sangue completamente avvelenato».

    Nessuna delle bocche dei cadetti si aprì per urlare un sissignore.

    «Non vi è data per fare gli eroi» continuò il capitano. «Qui non li vogliamo gli eroi, perché un soldato vivo ci è parecchio più utile e ci serve molto meglio di un eroe morto.

    Vi è data perché vi potrà capitare, purtroppo, di averne prese talmente tante da sapere per certo che non ce la farete.

    Allora, e solo allora, la userete per portarvi dietro più bastardi possibile, scatenando l'inferno attorno a voi e facendo un casino tale che tutti se ne ricorderanno per un bel pezzo!»

    I cadetti rimasero in silenzio, spostando nervosamente il peso da una gamba a un'altra, deglutendo, fissando il vuoto, i volti pallidi e tesi.

    «Hah! Vi vedo ammosciati!» riprese il capitano. «Che bel discorso di benvenuto, eh? Perché il capitano ci parla di questa extrema ratio nei primi cinque minuti di presentazione, quando ancora non sappiamo un bel niente di niente? Perché se no vi scordereste immediatamente di essere dei soldati. Pensereste di essere solo dei ragazzini che hanno vinto i giocattoli più fighi e potenti di sempre. Prendereste l'Esercito per la più bella vacanza di sempre. E vi fareste ammazzare!

    Voi siete dei ragazzini che hanno vinto i giocattoli più fighi e potenti di sempre. Ma prima di tutto siete dei soldati! E i soldati combattono. E a volte muoiono. Tenetelo sempre a mente. Quelli che lo tengono a mente muoiono più di rado.

    E ora rompete le righe! I caporali vi aiuteranno a indossare le armature e il sergente Barbagli vi darà le prime nozioni su come usarle. Quando, tra qualche settimana, sarete in grado di muovervici dentro senza sentirne il peso, vi insegneremo come accenderle e farle funzionare senza spaccarvi ogni singolo osso.

    Se avete domande, rivolgetele al sergente Barbagli. È tutto chiaro?»

    «Signorsì!» urlarono i cadetti.

    «Bene. Sergente, li affido a lei. Li trasformi nei miei supersoldati».

    «Signorsì» rispose Barbagli.

    «Benvenuti nella Divisione Tecnopotenziata dell'Esercito di Firenze, soldati! Sono fottutamente orgoglioso di voi. E anche di me stesso, a dirla tutta» gongolò Fènnù. Si voltò sorridendo e tornò da dov'era venuto.

    31 Maggio 2075

    David si svegliò con il canto degli uccelli. Aprì gli occhi e sorrise al pulviscolo che danzava come polvere d'oro sui raggi obliqui del sole.

    La luce filtrava tra i rami tingendo il bosco di smeraldo.

    Indugiò nel tepore qualche istante poi sgusciò fuori dal sacco a pelo. Indossò i sandali e si stiracchiò. Arrotolò il giaciglio e si annodò in vita la treccia di cuoio per fermare la tunica di lino pesante, che appena qualche mese prima era stata candida.

    «La prossima volta che vengo in montagna, mi vesto più comodo e, soprattutto, più caldo» disse a sé stesso, massaggiandosi con vigore il torso e le braccia per scaldarsi.

    Soffiò sui carboni bianchi di cenere nel circolo di pietre accanto a lui, poco convinto.

    Il turbine che si sollevò rischiò di accecarlo ma fu ripagato: su un ciocco carbonizzato si ravvivarono delle striature di rossa incandescenza.

    Si affrettò a gettarvi sopra foglie secche e rametti ed ecco che un nuovo fuocherello guizzava, pronto a far bollire l'acqua per l'orzo.

    Sorrise e si sfregò le mani, soddisfatto. Versò l'acqua nel pentolino e tirò fuori dalla sacca un barattolo di vetro a chiusura stagna, pieno per metà di orzo macinato.

    Aveva appena versato la polvere scura nel bricco, mentre l'acqua iniziava a bollire, quando sentì un rumore, più in alto, a monte.

    Si immobilizzò e tese l'orecchio. Non c'era dubbio. Sopra di lui, una cinquantina di metri più in su, nel fitto del bosco, qualcuno camminava. Passi quieti e leggeri smuovevano il fogliame, facevano rotolare un sasso, spezzavano un ramo secco.

    «Non ci credo!» sussurrò David, scuotendo la testa. «Sono qui da mesi… Non ci credo!»

    Guardò sconsolato il suo orzo quasi pronto e le allegre fiammelle che gli ballavano sotto. Con un sospiro, rovesciò il pentolino sul fuoco, spegnendolo, e prese a correre su per il pendio, ridendo di sé. Avrebbe potuto trattarsi di un cacciatore, di un cercatore di funghi, perfino di un brigante. David scosse la testa: sapeva che non era così. Qualcosa dentro di lui lo gridava a gran voce. Era lui.

    Lo aveva saputo svegliandosi, per questo aveva sorriso al pulviscolo. Glielo avevano detto i raggi d'oro e smeraldo, glielo avevano cantato gli uccelli del bosco, glielo aveva gorgogliato l'acqua nel pentolino. Quel giorno lo avrebbe incontrato. Era lui.

    Abbandonate le sue poche cose là dov'erano, David corse su per il pendio come una capra di montagna, incurante dei rami bassi, delle radici e dei rovi. Qualcosa dentro gli indicava la direzione e a ogni passo aumentava il terrore di perdere quella traccia immateriale. Arrivò alla radura col fiato rotto.

    Un ragazzo sedeva su un grosso masso ricoperto di muschio, sbocconcellando un fungo. Lo divideva con un paio di scoiattoli rossi che protendevano avide zampette.

    Il ragazzo e i due animali lo fissarono incuriositi.

    David provò a parlare, ma alla prima gli mancò il fiato.

    Il ragazzo lo osservava con un'espressione divertita, irradiando tutta la calma del mondo. Inclinò la testa avvolta da una matassa incolta di capelli, un groviglio inestricabile di colore indefinito, foglie, rametti e terra. La barba, anch'essa aggrovigliata e farcita di sottobosco, fu scossa da un tremito. Ne emerse un sorriso sereno e delicato, sopra cui ardevano due occhi luminosi.

    Batteva distrattamente i talloni degli scarponi da montagna contro la roccia, come un bambino su una sedia troppo alta, facendo frusciare tra loro i pantaloni di tela pesante.

    Aveva un giaccone di pelle spessa e una sacca di cuoio con le cuciture doppie, abbandonata ai suoi piedi.

    «Salute» riuscì ad articolare David. «Sono tre mesi che ti sto cercando. Iniziavo a temere che non ti avrei mai trovato».

    Era ancora piegato, con le mani sulle cosce, e ansimava.

    Il sorriso del ragazzo si arcuò leggermente. «Tu cercavi me? Non mi sembra di conoscerti».

    «Tu sei lui! Lo so» esclamò David.

    «Io sono io» rispose il ragazzo divertito.

    «Tu sei lui! Sei il Ragazzo che parlò al Costrutto. Sono mesi che vago per i boschi sulle tue tracce».

    «Addirittura? Dev'essere una persona davvero speciale quella che stai cercando. Mi spiace: io non sono speciale». Diede un ultimo morso al fungo e divise a metà il restante, distribuendolo agli scoiattoli, che subito sparirono tra gli alberi alle sue spalle.

    «Certo, è un test. Ovvio» rispose David, tamburellandosi nervoso la fronte con le nocche. «Stiamo diventando tanti, sai?» divagò.

    «Chi?»

    «Quelli che hanno ascoltano la tua storia e abbracciano la tua Parola».

    «La mia parola? Io non ho detto nulla a nessuno».

    «Tra di noi ci chiamiamo Figli del Fiume. Per l'acqua. Perché dall'acqua nasce la vita ed è l'acqua, scorrendo, che dà forma alle cose. Tutto scorre, tutto fluisce.

    Non è un caso che ti abbia incontrato proprio oggi, ovviamente. Ho imparato tanto in questo tempo. Così tante cose. Credevo di conoscere il significato della Parola, il tornare ad armonizzarsi con la natura, il percepire il mondo che fluisce e fluire con esso. Mi sbagliavo…»

    «Ah sì?» chiese il ragazzo, saltando giù dal masso e strofinandosi le mani sui pantaloni per pulirle dalla terra e dalle spore di fungo.

    «Certo! Solo ora inizio a capire, a sentire. Il canto del vento, la carezza delle foglie. L'energia che scorre attraverso la terra. Ci sono voluti tre mesi di silenzio, di rabbia, di frustrazione. E poi di comprensione. E pace. Ma tu lo sai benissimo» concluse David, scuotendo il capo e arrossendo. Fece un passo verso il suo messia.

    «Che cosa credi di volere dalla persona che dici che io sia, esattamente?»

    «Voglio seguirti. Voglio che tu mi insegni. Prendimi come discepolo!»

    Il ragazzo rise. Una risata vitale, senza traccia di malizia.

    «Perché sei così sicuro che sia io, quello che stai cercando?»

    «Lo so. Lo sento. È così. Lo sento dentro di me e tutto il mondo me lo sussurra e me lo urla».

    «Hai certezze così solide, hai imparato la lingua del mondo. Mi sembri parecchio illuminato» osservò il ragazzo. «Forse farei bene a diventare io discepolo tuo».

    David si morse il labbro e chinò il capo. Un solo attimo, poi riprese coraggio.

    «In tanti abbiamo seguito il tuo esempio. In tanti stiamo tornando a vivere in comunione con la natura. Alcuni si avventurano tra i boschi. Molti restano in città e nei villaggi. Parlano con la gente, predicano l'armonia…»

    «Io non ho mai predicato. Non ho insegnato nulla. Non ho detto nulla a nessuno. E non ho mai chiesto a nessuno di prendermi come esempio, né di venirmi a cercare. Non so chi tu stia inseguendo o cosa ti aspetti da lui, ma la persona di cui parli non sono io. E non ho nulla da insegnarti».

    Rifletté un attimo, serio, poi aggiunse: «Tranne, forse, a riconoscere i funghi e le radici commestibili, se ti interessa».

    Lo disse col sorriso, senza nessuna traccia di ostilità o sarcasmo, né sul viso, né nella voce. Raccolse la sacca e si avviò in mezzo agli alberi.

    David gli trotterellò dietro.

    «Non mi aspetto che sia facile. Tu hai chiesto e io ho risposto, tutto qui».

    «Dove vai?» chiese il ragazzo, vedendo che David lo seguiva.

    «Dove vai tu» rispose David. «Certo, non mi dispiacerebbe se accidentalmente ripassassimo dal mio campo e potessi raccattare le mie cose, ma è secondario».

    «Non ti arrendi, eh?»

    «No».

    «Davvero, non sono la persona che stai cercando. Ti prego, capiscilo».

    «D'accordo, niente campo. Mi arrangio con quello che trovo».

    «Per favore, torna da dove sei venuto. Non sono nessuno, non ho nulla per te. Non ne ricaverai nulla di buono, veramente».

    «Lo sai? Si dice che tu guarisca con il tocco, che parli e predichi agli alberi e agli animali, che sappia far crescere piante e fiori toccandoli».

    «Ah sì? E delle palle di fuoco non ne parla nessuno?»

    «Per ora no. Però stavi facendo colazione con due scoiattoli».

    «Bah! Basta dargli del cibo e li hai già comprati.

    Senti, davvero. Ho capito cosa vuoi dirmi, credimi. Ma ti sbagli. Fate quello che più credete, tu e i tuoi amici. Ma io non sono nessuno. Non sono niente. Dillo anche a loro, ok? Cercate solo di vivere sereni» disse il ragazzo, con tono dolce e grave al contempo, aggirando un'enorme quercia.

    «Sprechi il fiato» rispose David, svoltando anche lui attorno all'albero secolare.

    Dall'altro lato, un raggio di sole abbagliante penetrava attraverso le fronde. Tutto era ammantato di smeraldo e decine di farfalle

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