Ricordi dall'Inferno
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Anteprima del libro
Ricordi dall'Inferno - Jultine Reese
Proust
CECCHINO
"Di morte mangerai, che mangia gli uomini,
e il morir finirà, morta la morte."
-William Shakespeare
Sono rimasta da sola, al buio di una baracca qualsiasi, in questa terra rossastra che ormai non appartiene a nessuno. Non riesco a staccare gli occhi dal pavimento e tremo di adrenalina, osservando incantata i nastri di sangue che si allungano dal suo cranio. Non fa ancora molto freddo poiché la notte tarda ad arrivare, incastrata nel crepuscolo che filtra molle da una delle assi schiantate della casupola. Il pulviscolo aleggia leggero nell'aria, immergendomi in una dimensione onirica. A malapena riesco a percepire il mio fiato, e, quando accade, una strana preoccupazione mi prende il petto, rallentando il battito cardiaco e appesantendomi il respiro.
Credo di non aver paura. Credo di non provare proprio un bel niente, a dire il vero. Ho solo molto, molto sonno. Mi sento le membra pesanti come l'aria di queste quattro mura maledette. Perché lo so, sono maledette. Hanno fuorviato la mia mente, mi hanno fatto impazzire... e mi hanno portato a fare questo.
Lui non si muove; è così bello, pare dormire. L'armatura metallica non ha preservato la sua testa, così fiduciosamente espostami. Io non sono un cecchino, non lo sono. Io non volevo ucciderlo, volevo solo che smettesse di soffrire. Il suo equipaggiamento non andava più bene. Glielo avevo detto durante il cammino, e lui aveva risposto che non era grave, che nessuno ci avrebbe attaccati. E' stata colpa mia. È stata tutta colpa mia.
Era venuto per me, rintracciandomi tramite la radio che mi portavo dietro. Aveva fatto tutti quei chilometri solo per assicurarsi che stessi bene, per donarmi delle munizioni. Lo avevano seguito, ma come? Come? Lui che era tanto accorto! Dovevo restare con la Compagnia. Lui non era come gli altri, mi avrebbe aiutata.
Mi manca, eppure è ancora qui, accanto a me.
Non riesco a piangere, però vorrei tanto riuscire a farlo. La solitudine non mi lascia comprendere come mi sento e non riesco a lasciar esprimere il mio corpo, immobile ma friabile nella sostanza come una statua di sale.
Io non sono un cecchino.
Non sono un cecchino.
Stringo il fucile, ma è freddo. Non è caldo come lo era lui. Il suo sangue è arrivato sino ai miei calzoni stinti, una volta marroni, e sento che il suo piacevole tepore mi è accanto. La sua anima tuttavia non c'è. Non più. L'ho portata via con quel dannato proiettile, quello che io gli ho conficcato in testa. Chi è stato l'artefice della sua morte? Egli stesso, il nemico oppure... io? Chi ha deciso affinché lasciasse la landa putrida che ci circonda? Comincia a far freddo, mentre il suo bel viso sfiorisce nel pallore della morte. Che sia questa la vera esistenza? Che sia questo il momento in cui un uomo vive? Il momento in cui compie il proprio ciclo e ne completa le stagioni? L'avevo visto far ritorno poco dopo essermi rifugiata in questo capanno. Respirava velocemente e in modo superficiale, frenetico.
-Ho un polmone maciullato.- aveva rantolato sorridendo appena. -Permettimi di stare ancora un po' con te, parlami di quello che hai fatto lontano dalla Compagnia.- Si era espresso con la tranquilla compostezza di un uomo che ha compreso la morte.
-Non voglio.- avevo piagnucolato, -Sei forte, riposa un po' e poi parleremo, va bene?- Mi prendo in giro ancora adesso, mentre abbraccio il fucile e penso che lui stia ancora riposando.
Mentre il suo petto fischiava, sorrideva serafico e mi osservava. Adesso mi sento chiudere la gola, mi vien voglia d'annaspare. Sto annegando nelle lacrime che non riescono ad uscirmi dagli occhi. Ripenso a quello che ho fatto e mi sento piccola piccola nell'immenso mistero dell'esistenza. Nell'infinita spianata di terra di